Sharnin 2
Forumer storico
Dollaro basso nel mare di liquidità
Spia di un'economia americana in condizioni precarie
16 ott 2009
di ALFONSO TUOR
La situazione attuale appare a prima vista irrealistica: le borse volano (mercoledì l’indice americano Dow Jones è ritornato sopra la quota psicologica dei 10.000 punti), i mercati dei capitali lavorano a pieno ritmo e le grandi banche internazionali hanno ripreso a registrare grandi utili nelle attività di trading che hanno originato la crisi. L’unico neo è rappresentato dai mercati dei cambi dove il dollaro e la sterlina britannica continuano a deprezzarsi. La debolezza del biglietto verde statunitense, che è ad un passo dalla parità con il franco e prossimo a quota 1,50 rispetto all’euro, ha messo le ali all’oro e sta facendo lievitare i prezzi di alcune materie prime. Questo apparente miracolo di un mondo finanziario risorto dalle sue ceneri ha un’unica causa: l’incessante attività di stampa di moneta condotta in principal modo dalla Federal Reserve americana e dalla Banca d’Inghilterra e in misura più moderata dalla Banca centrale europea e dalla nostra Banca Nazionale. L’enorme quantità di capitali in circolazione a costi irrisori fornisce l’impressione che la crisi sia ormai superata.
La realtà è ben diversa. Innanzitutto questi capitali sono stati in massima parte usati per rimettere in funzione i mercati finanziari. Una parte delle perdite delle banche sono state socializzate, ossia sono ora addebitate ai contribuenti. Solo un’esigua quota della liquidità creata dalle banche centrali è stata direttamente usata per rilanciare l’economia reale. Non sorprende quindi che non vi siano chiari segnali di ripresa e che molti economisti temano che, esaurito l’effetto di queste misure straordinarie, l’economia possa ricadere in recessione.
Questo timore è particolarmente diffuso negli Stati Uniti, come attestano i verbali dell’ultima riunione del Comitato direttivo della Federal Reserve, ed è avvertito soprattutto dai mercati dei cambi. La debolezza del dollaro e della sterlina può essere considerata un indicatore della convinzione che la stabilizzazione dell’attività economica degli ultimi mesi è molto fragile e che Washington e Londra continueranno a stampare moneta (come del resto hanno confermato) per tentare di rilanciare le loro economie. E proprio in quest’ottica il deprezzamento di dollaro e sterlina è stato almeno finora assecondato dalle stesse autorità americane e britanniche e non osteggiato da Europa e Giappone (solo recentemente la Banca centrale europea ha dichiarato di temere il rialzo del valore dell’euro). Ad essere preoccupati appaiono solo alcuni Paesi del Sud-Est asiatico, che paventano di veder strangolata la propria industria di esportazione dal calo del dollaro, che comporta automaticamente anche un ribasso della valuta cinese.
I vantaggi per gli Stati Uniti del deprezzamento del dollaro non sono evidenti. La maggiore competitività dei prodotti e dei servizi americani sui mercati esteri è largamente minata dall’aumento del prezzo delle materie prime e soprattutto del petrolio e di tutti quei beni che gli Stati Uniti non producono più. Tutto ciò riduce il potere d’acquisto delle famiglie americane e rende più problematica una ripresa dei consumi. La politica del dollaro debole rappresenta un vantaggio solo se l’obiettivo della politica monetaria americana è far risorgere l’inflazione che avrebbe la virtù taumaturgica di ridurre l’ammontare del debito detenuto da famiglie, imprese e Stato federale. Finora questo timore non è nemmeno lontanamente intravvisto dai mercati dei capitali, che sono i più sensibili alle aspettative inflazionistiche. Ma se i segnali di ripresa dovessero cominciare ad essere credibili, è prevedibile che immediatamente salirebbero i tassi di interesse, soprattutto quelli a medio e a lungo termine.
Si può dunque sostenere che la debolezza del dollaro sia una spia di un’economia americana in condizioni ancora molto precarie, che non ha assolutamente superato la crisi e che anzi continua ad avere bisogno di continui interventi governativi per non ricadere in recessione.
Spia di un'economia americana in condizioni precarie
16 ott 2009
di ALFONSO TUOR
La situazione attuale appare a prima vista irrealistica: le borse volano (mercoledì l’indice americano Dow Jones è ritornato sopra la quota psicologica dei 10.000 punti), i mercati dei capitali lavorano a pieno ritmo e le grandi banche internazionali hanno ripreso a registrare grandi utili nelle attività di trading che hanno originato la crisi. L’unico neo è rappresentato dai mercati dei cambi dove il dollaro e la sterlina britannica continuano a deprezzarsi. La debolezza del biglietto verde statunitense, che è ad un passo dalla parità con il franco e prossimo a quota 1,50 rispetto all’euro, ha messo le ali all’oro e sta facendo lievitare i prezzi di alcune materie prime. Questo apparente miracolo di un mondo finanziario risorto dalle sue ceneri ha un’unica causa: l’incessante attività di stampa di moneta condotta in principal modo dalla Federal Reserve americana e dalla Banca d’Inghilterra e in misura più moderata dalla Banca centrale europea e dalla nostra Banca Nazionale. L’enorme quantità di capitali in circolazione a costi irrisori fornisce l’impressione che la crisi sia ormai superata.
La realtà è ben diversa. Innanzitutto questi capitali sono stati in massima parte usati per rimettere in funzione i mercati finanziari. Una parte delle perdite delle banche sono state socializzate, ossia sono ora addebitate ai contribuenti. Solo un’esigua quota della liquidità creata dalle banche centrali è stata direttamente usata per rilanciare l’economia reale. Non sorprende quindi che non vi siano chiari segnali di ripresa e che molti economisti temano che, esaurito l’effetto di queste misure straordinarie, l’economia possa ricadere in recessione.
Questo timore è particolarmente diffuso negli Stati Uniti, come attestano i verbali dell’ultima riunione del Comitato direttivo della Federal Reserve, ed è avvertito soprattutto dai mercati dei cambi. La debolezza del dollaro e della sterlina può essere considerata un indicatore della convinzione che la stabilizzazione dell’attività economica degli ultimi mesi è molto fragile e che Washington e Londra continueranno a stampare moneta (come del resto hanno confermato) per tentare di rilanciare le loro economie. E proprio in quest’ottica il deprezzamento di dollaro e sterlina è stato almeno finora assecondato dalle stesse autorità americane e britanniche e non osteggiato da Europa e Giappone (solo recentemente la Banca centrale europea ha dichiarato di temere il rialzo del valore dell’euro). Ad essere preoccupati appaiono solo alcuni Paesi del Sud-Est asiatico, che paventano di veder strangolata la propria industria di esportazione dal calo del dollaro, che comporta automaticamente anche un ribasso della valuta cinese.
I vantaggi per gli Stati Uniti del deprezzamento del dollaro non sono evidenti. La maggiore competitività dei prodotti e dei servizi americani sui mercati esteri è largamente minata dall’aumento del prezzo delle materie prime e soprattutto del petrolio e di tutti quei beni che gli Stati Uniti non producono più. Tutto ciò riduce il potere d’acquisto delle famiglie americane e rende più problematica una ripresa dei consumi. La politica del dollaro debole rappresenta un vantaggio solo se l’obiettivo della politica monetaria americana è far risorgere l’inflazione che avrebbe la virtù taumaturgica di ridurre l’ammontare del debito detenuto da famiglie, imprese e Stato federale. Finora questo timore non è nemmeno lontanamente intravvisto dai mercati dei capitali, che sono i più sensibili alle aspettative inflazionistiche. Ma se i segnali di ripresa dovessero cominciare ad essere credibili, è prevedibile che immediatamente salirebbero i tassi di interesse, soprattutto quelli a medio e a lungo termine.
Si può dunque sostenere che la debolezza del dollaro sia una spia di un’economia americana in condizioni ancora molto precarie, che non ha assolutamente superato la crisi e che anzi continua ad avere bisogno di continui interventi governativi per non ricadere in recessione.