Sharnin 2
Forumer storico
Dollaro: una partita che va oltre il cambio
Alfonso Tuor
Dollaro ai minimi storici rispetto al franco svizzero e all’euro, borse in ribasso, forte tensione sul mercato monetario e petrolio ad un passo dai 100 dollari il barile: è questo il quadro offerto dai mercati finanziari. Questi movimenti, apparentemente non correlati tra loro, sono in realtà interamente riconducibili unicamente a due fattori: il primo è la crisi di un paese, gli Stati Uniti, abituato a vivere al di sopra dei propri mezzi grazie alla capacità di ottenere credito dall’estero; il secondo è il cambiamento della geografia economica del mondo. Questi due fattori fanno temere che l’attuale indebolimento del dollaro non sia solo uno dei tanti periodi di forte debolezza della valuta americana, ma che possa trasformarsi nell’effetto che scatena o che accelera i tempi di un cambiamento epocale nel sistema monetario internazionale, simile a quello che avvenne il 15 agosto del 1971, quando il presidente americano Richard Nixon decretò la fine del sistema di Bretton Woods, facendo uscire il mondo occidentale dall’era dei cambi fissi e facendolo entrare nell’attuale era dei cambi flessibili.
Cerchiamo di spiegarci. I motivi che hanno spinto il dollaro a scendere sotto il minimo storico stabilito nel 1995 rispetto al franco svizzero sono noti. La crisi dei mutui ipotecari subprime, che si sta rivelando molto più grave di quanto tutti volessero far credere ancora alcune settimane orsono, costringerà la banca centrale americana ad abbassare ulteriormente i tassi di interesse per cercare di attutirne l’impatto sulla crescita dell’economia reale. I mercati finanziari non si aspettano solo un altro ritocco nella riunione del prossimo 11 dicembre, ma scommettono che la Federal Reserve sarà costretta a ridurre i tassi anche l’anno prossimo (alcuni prevedono che i Fed Funds scenderanno al 3% dall’attuale 4,5%). Tassi di interesse statunitensi superiori a quelli europei sono stati negli ultimi anni la ragione principale per cui gli stranieri hanno investito negli Stati Uniti, finanziando in questo modo il disavanzo commerciale americano che è la causa vera della debolezza del dollaro. L’aspettativa del ribasso dei tassi americani toglie al biglietto verde questo sostegno. E la prospettiva che i tassi americani possano essere tra poco tempo inferiori a quelli europei fa temere che la discesa del biglietto verde sia solo alle battute iniziali. Questa eventualità, sostengono però gli analisti finanziari, non si verificherà, poiché quando la discesa del biglietto verde varcherà «la soglia del dolore» per l’economia europea, la Banca centrale europea e le altre banche centrali, tra cui anche la nostra Banca Nazionale, si metteranno a comprare dollari per sostenerne il corso (in altre parole ciò vuol dire che l’Europa userà i propri soldi per finanziare a fondo perduto gli Stati Uniti).
Questo ragionamento apparentemente non fa una grinza, ma non tiene conto di un fattore fondamentale. L’attuale crisi del dollaro cade in un momento di grande debolezza non solo economica e finanziaria, ma anche politica degli Stati Uniti e in un mondo la cui geografia economica è profondamente mutata. E le crepe sono sempre più vistose soprattutto nei paesi emergenti. Infatti il dollaro non è crollato finora non tanto perché gli investitori privati ed istituzionali stranieri hanno comprato attività denominate in dollari, ma perché lo hanno acquistato le banche centrali asiatiche e quelle dei paesi produttori di petrolio. Infatti stando al Fondo Monetario Internazionale, le riserve valutarie detenute dalle banche centrali sono aumentate dai 2.000 miliardi dollari del 2002 ai 5.700 miliardi di dollari di quest’anno. Queste riserve sono per la maggior parte in dollari e lo sono soprattutto le riserve valutarie dei paesi asiatici e dei paesi arabi.
Ed è proprio in questi paesi che si sta discutendo della possibilità di uscire dalla trappola rappresentata da un dollaro unica moneta internazionale. A sostegno di questa tesi non vogliamo citare la richiesta di Iran e Venezuela di smetterla di definire il prezzo del petrolio in dollari, ma altri fatti ben più importanti. Gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita stanno studiando l’opportunità di sganciarsi dall’attuale tasso di cambio fisso che lega le loro valute al dollaro e di legare le loro valute a un paniere di monete, seguendo quanto già fatto dal Kuwait. Ciò vorrebbe dire che questi paesi, oggi grandi acquirenti di dollari, ne comprerebbero meno e ciò soprattutto porrebbe le premesse per sganciare anche il prezzo del petrolio dal dollaro. Il secondo fatto è che i paesi asiatici, che hanno accumulato grandi quantità di dollari, stanno perseguendo una politica di diversificazione delle loro riserve. Ciò vuol dire che comprano sempre meno dollari e sempre più euro. E ciò vuol anche dire che se la Banca centrale europea interverrà sui mercati rischierà solo di accelerare questo processo (ossia di comprare i dollari che gli asiativi vendono) senza fornire un reale sostegno al tasso di cambio del dollaro. Il terzo fatto è che Argentina e Brasile hanno deciso di non utilizzare più il dollaro nei loro scambi commerciali. A questi dati di fatto si potrebbe aggiungere una serie di propositi di governi (come quello del governo russo di creare una borsa del petrolio e del gas a Mosca denominata in rubli) che comunque vanno tutti nella direzione di uscire dalla trappola di un mondo con un dollaro quale valuta internazionale.
Dunque, oggi la debolezza del dollaro sta facendo maturare e accelerando i tempi della fine del dollaro, fulcro del sistema monetario e finanziario internazionale. E un simile sbocco avrebbe conseguenze di enorme portata. Quindi nelle notizie che provengono dal mercato dei cambi, come quella del nuovo minimo storico del dollaro rispetto al franco, non sono in gioco solo le prospettive di crescita della nostra industria di esportazione e di quella europea, ma l’eventualità di un radicale cambiamento del sistema monetario e finanziario internazionale, simile a quello che nel 1971 portò alla fine del sistema dei cambi fissi.
21/11/2007
Alfonso Tuor
Dollaro ai minimi storici rispetto al franco svizzero e all’euro, borse in ribasso, forte tensione sul mercato monetario e petrolio ad un passo dai 100 dollari il barile: è questo il quadro offerto dai mercati finanziari. Questi movimenti, apparentemente non correlati tra loro, sono in realtà interamente riconducibili unicamente a due fattori: il primo è la crisi di un paese, gli Stati Uniti, abituato a vivere al di sopra dei propri mezzi grazie alla capacità di ottenere credito dall’estero; il secondo è il cambiamento della geografia economica del mondo. Questi due fattori fanno temere che l’attuale indebolimento del dollaro non sia solo uno dei tanti periodi di forte debolezza della valuta americana, ma che possa trasformarsi nell’effetto che scatena o che accelera i tempi di un cambiamento epocale nel sistema monetario internazionale, simile a quello che avvenne il 15 agosto del 1971, quando il presidente americano Richard Nixon decretò la fine del sistema di Bretton Woods, facendo uscire il mondo occidentale dall’era dei cambi fissi e facendolo entrare nell’attuale era dei cambi flessibili.
Cerchiamo di spiegarci. I motivi che hanno spinto il dollaro a scendere sotto il minimo storico stabilito nel 1995 rispetto al franco svizzero sono noti. La crisi dei mutui ipotecari subprime, che si sta rivelando molto più grave di quanto tutti volessero far credere ancora alcune settimane orsono, costringerà la banca centrale americana ad abbassare ulteriormente i tassi di interesse per cercare di attutirne l’impatto sulla crescita dell’economia reale. I mercati finanziari non si aspettano solo un altro ritocco nella riunione del prossimo 11 dicembre, ma scommettono che la Federal Reserve sarà costretta a ridurre i tassi anche l’anno prossimo (alcuni prevedono che i Fed Funds scenderanno al 3% dall’attuale 4,5%). Tassi di interesse statunitensi superiori a quelli europei sono stati negli ultimi anni la ragione principale per cui gli stranieri hanno investito negli Stati Uniti, finanziando in questo modo il disavanzo commerciale americano che è la causa vera della debolezza del dollaro. L’aspettativa del ribasso dei tassi americani toglie al biglietto verde questo sostegno. E la prospettiva che i tassi americani possano essere tra poco tempo inferiori a quelli europei fa temere che la discesa del biglietto verde sia solo alle battute iniziali. Questa eventualità, sostengono però gli analisti finanziari, non si verificherà, poiché quando la discesa del biglietto verde varcherà «la soglia del dolore» per l’economia europea, la Banca centrale europea e le altre banche centrali, tra cui anche la nostra Banca Nazionale, si metteranno a comprare dollari per sostenerne il corso (in altre parole ciò vuol dire che l’Europa userà i propri soldi per finanziare a fondo perduto gli Stati Uniti).
Questo ragionamento apparentemente non fa una grinza, ma non tiene conto di un fattore fondamentale. L’attuale crisi del dollaro cade in un momento di grande debolezza non solo economica e finanziaria, ma anche politica degli Stati Uniti e in un mondo la cui geografia economica è profondamente mutata. E le crepe sono sempre più vistose soprattutto nei paesi emergenti. Infatti il dollaro non è crollato finora non tanto perché gli investitori privati ed istituzionali stranieri hanno comprato attività denominate in dollari, ma perché lo hanno acquistato le banche centrali asiatiche e quelle dei paesi produttori di petrolio. Infatti stando al Fondo Monetario Internazionale, le riserve valutarie detenute dalle banche centrali sono aumentate dai 2.000 miliardi dollari del 2002 ai 5.700 miliardi di dollari di quest’anno. Queste riserve sono per la maggior parte in dollari e lo sono soprattutto le riserve valutarie dei paesi asiatici e dei paesi arabi.
Ed è proprio in questi paesi che si sta discutendo della possibilità di uscire dalla trappola rappresentata da un dollaro unica moneta internazionale. A sostegno di questa tesi non vogliamo citare la richiesta di Iran e Venezuela di smetterla di definire il prezzo del petrolio in dollari, ma altri fatti ben più importanti. Gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita stanno studiando l’opportunità di sganciarsi dall’attuale tasso di cambio fisso che lega le loro valute al dollaro e di legare le loro valute a un paniere di monete, seguendo quanto già fatto dal Kuwait. Ciò vorrebbe dire che questi paesi, oggi grandi acquirenti di dollari, ne comprerebbero meno e ciò soprattutto porrebbe le premesse per sganciare anche il prezzo del petrolio dal dollaro. Il secondo fatto è che i paesi asiatici, che hanno accumulato grandi quantità di dollari, stanno perseguendo una politica di diversificazione delle loro riserve. Ciò vuol dire che comprano sempre meno dollari e sempre più euro. E ciò vuol anche dire che se la Banca centrale europea interverrà sui mercati rischierà solo di accelerare questo processo (ossia di comprare i dollari che gli asiativi vendono) senza fornire un reale sostegno al tasso di cambio del dollaro. Il terzo fatto è che Argentina e Brasile hanno deciso di non utilizzare più il dollaro nei loro scambi commerciali. A questi dati di fatto si potrebbe aggiungere una serie di propositi di governi (come quello del governo russo di creare una borsa del petrolio e del gas a Mosca denominata in rubli) che comunque vanno tutti nella direzione di uscire dalla trappola di un mondo con un dollaro quale valuta internazionale.
Dunque, oggi la debolezza del dollaro sta facendo maturare e accelerando i tempi della fine del dollaro, fulcro del sistema monetario e finanziario internazionale. E un simile sbocco avrebbe conseguenze di enorme portata. Quindi nelle notizie che provengono dal mercato dei cambi, come quella del nuovo minimo storico del dollaro rispetto al franco, non sono in gioco solo le prospettive di crescita della nostra industria di esportazione e di quella europea, ma l’eventualità di un radicale cambiamento del sistema monetario e finanziario internazionale, simile a quello che nel 1971 portò alla fine del sistema dei cambi fissi.
21/11/2007