Sharnin 2
Forumer storico
Non si crede al piano salva-Stati
L'intervento UE cura i sintomi, non le cause della crisi
14 mag 2010
di ALFONSO TUOR
La moneta unica europea ha toccato ieri nuovi minimi sia nei confronti del franco svizzero sia nei confronti del dollaro. La continua debolezza dell’euro non sorprende: il piano varato a Bruxelles per salvare gli Stati europei in difficoltà non convince. Infatti, come era già accaduto nell’autunno del 2008 dopo il fallimento della Lehman Brothers, gli interventi predisposti da autorità politiche e monetarie sono in realtà dei cerotti di grandi dimensioni che curano i sintomi, ma non affrontano le cause della crisi. Esse continuano ad essere un’enorme quantità di debiti (pubblici e privati) che è stata resa ancora più insostenibile dalla diffusione degli strumenti della nuova ingegneria finanziaria. Per dare un’idea approssimativa, secondo alcune stime, i debiti pubblici e privati dei Paesi europei, di Stati Uniti e Giappone raggiungerebbero la stratosferica cifra di 130 mila miliardi di dollari, ossia due volte il PIL mondiale. Su questa enorme quantità di debiti l’industria finanziaria ha creato un’intera gamma di prodotti finanziari che producono l’effetto perverso di mettere in moto una reazione a catena difficilmente controllabile ogni qualvolta si cancella o si ristruttura un credito. È quanto è accaduto durante la crisi dei mutui subprime americani ed è quanto stava ripetendosi dopo lo scoppio della crisi greca.
I 110 miliardi di euro di aiuti alla Grecia e il piano europeo salva-Stati sono in realtà dei cerotti di grandi dimensioni che servono unicamente a guadagnare tempo. Il caso greco è illuminante: il piano di aiuti dell’Unione europea e del Fondo monetario internazionale prevede che, nonostante l’elargizione di 110 miliardi di euro nell’arco di tre anni, il debito pubblico greco salirà dall’attuale 120% del PIL al 150% nel 2004. In altri termini, dopo tre anni di austerità le condizioni finanziarie della Grecia saranno peggiori delle attuali e il Paese continuerà ad essere insolvente. Appare chiaro che l’obiettivo dell’intero esercizio non era risolvere il problema delle finanze pubbliche della Repubblica ellenica, ma rinviare la dichiarazione di insolvenza della Grecia e la ristrutturazione del suo debito pubblico nella consapevolezza che compiere oggi un passo del genere avrebbe provocato una reazione a catena devastante.
Anche il piano europeo va nella medesima direzione. L’elemento essenziale è costituito dall’acquisto da parte delle vecchie banche centrali dei Paesi di Eurolandia e da parte della stessa Banca centrale europea delle obbligazioni statali dei Paesi in difficoltà. In realtà, è un altro salvataggio del sistema bancario europeo, che la settimana scorsa aveva ricominciato a dare segnali di essere sull’orlo del collasso, attraverso un trasferimento di grandi quantità di obbligazioni statali dagli istituti di credito alla Banca centrale europea. Si tratta di una strada già percorsa dalla Federal Reserve americana, dalla Bank of England e dalla banca centrale giapponese. Questa versione europea del ricorso alla stampa di moneta (il cosiddetto quantitative easing) non favorisce il rafforzamento dell’euro, ma non basta nemmeno per spiegare la crescente debolezza della moneta unica europea. Il voto di sfiducia nei confronti dell’euro è molto probabilmente da ricondurre alla constatazione che le politiche di austerità che stanno varando Spagna, Portogallo ed altri Paesi europei ritarderanno tempi e vigore della ripresa ed incideranno pesantemente sulla crescita già asfittica dell’economia di Eurolandia, che nel primo trimestre di quest’anno si è attestata allo 0,2%.
Ad esempio in Spagna si teme che la stangata del Governo Zapatero faccia ripiombare il Paese in recessione e quindi provochi una contrazione del gettito fiscale. Inoltre si paventa un aggravamento della crisi del mercato immobiliare, che farebbe moltiplicare le insolvenze e accelerare i tempi della crisi del sistema bancario spagnolo. In altri termini, si teme che l’esercizio produca effetti analoghi a quelli già previsti per la Grecia, ossia una profonda recessione, un aumento del rapporto tra debito pubblico e PIL e gravi difficoltà del sistema bancario. Quindi una crisi da spirale del debito che la Banca centrale europea riuscirebbe a tamponare solo stampando enormi quantità di moneta. La debolezza dell’euro è dovuta a queste previsioni e all’inizio di un fenomeno di fuga dei capitali che nel caso greco è già chiaramente visibile.
In conclusione, il deprezzamento della moneta unica europea deve essere letto come un voto di sfiducia nei confronti del piano europeo salva-Stati.
L'intervento UE cura i sintomi, non le cause della crisi
14 mag 2010
di ALFONSO TUOR
La moneta unica europea ha toccato ieri nuovi minimi sia nei confronti del franco svizzero sia nei confronti del dollaro. La continua debolezza dell’euro non sorprende: il piano varato a Bruxelles per salvare gli Stati europei in difficoltà non convince. Infatti, come era già accaduto nell’autunno del 2008 dopo il fallimento della Lehman Brothers, gli interventi predisposti da autorità politiche e monetarie sono in realtà dei cerotti di grandi dimensioni che curano i sintomi, ma non affrontano le cause della crisi. Esse continuano ad essere un’enorme quantità di debiti (pubblici e privati) che è stata resa ancora più insostenibile dalla diffusione degli strumenti della nuova ingegneria finanziaria. Per dare un’idea approssimativa, secondo alcune stime, i debiti pubblici e privati dei Paesi europei, di Stati Uniti e Giappone raggiungerebbero la stratosferica cifra di 130 mila miliardi di dollari, ossia due volte il PIL mondiale. Su questa enorme quantità di debiti l’industria finanziaria ha creato un’intera gamma di prodotti finanziari che producono l’effetto perverso di mettere in moto una reazione a catena difficilmente controllabile ogni qualvolta si cancella o si ristruttura un credito. È quanto è accaduto durante la crisi dei mutui subprime americani ed è quanto stava ripetendosi dopo lo scoppio della crisi greca.
I 110 miliardi di euro di aiuti alla Grecia e il piano europeo salva-Stati sono in realtà dei cerotti di grandi dimensioni che servono unicamente a guadagnare tempo. Il caso greco è illuminante: il piano di aiuti dell’Unione europea e del Fondo monetario internazionale prevede che, nonostante l’elargizione di 110 miliardi di euro nell’arco di tre anni, il debito pubblico greco salirà dall’attuale 120% del PIL al 150% nel 2004. In altri termini, dopo tre anni di austerità le condizioni finanziarie della Grecia saranno peggiori delle attuali e il Paese continuerà ad essere insolvente. Appare chiaro che l’obiettivo dell’intero esercizio non era risolvere il problema delle finanze pubbliche della Repubblica ellenica, ma rinviare la dichiarazione di insolvenza della Grecia e la ristrutturazione del suo debito pubblico nella consapevolezza che compiere oggi un passo del genere avrebbe provocato una reazione a catena devastante.
Anche il piano europeo va nella medesima direzione. L’elemento essenziale è costituito dall’acquisto da parte delle vecchie banche centrali dei Paesi di Eurolandia e da parte della stessa Banca centrale europea delle obbligazioni statali dei Paesi in difficoltà. In realtà, è un altro salvataggio del sistema bancario europeo, che la settimana scorsa aveva ricominciato a dare segnali di essere sull’orlo del collasso, attraverso un trasferimento di grandi quantità di obbligazioni statali dagli istituti di credito alla Banca centrale europea. Si tratta di una strada già percorsa dalla Federal Reserve americana, dalla Bank of England e dalla banca centrale giapponese. Questa versione europea del ricorso alla stampa di moneta (il cosiddetto quantitative easing) non favorisce il rafforzamento dell’euro, ma non basta nemmeno per spiegare la crescente debolezza della moneta unica europea. Il voto di sfiducia nei confronti dell’euro è molto probabilmente da ricondurre alla constatazione che le politiche di austerità che stanno varando Spagna, Portogallo ed altri Paesi europei ritarderanno tempi e vigore della ripresa ed incideranno pesantemente sulla crescita già asfittica dell’economia di Eurolandia, che nel primo trimestre di quest’anno si è attestata allo 0,2%.
Ad esempio in Spagna si teme che la stangata del Governo Zapatero faccia ripiombare il Paese in recessione e quindi provochi una contrazione del gettito fiscale. Inoltre si paventa un aggravamento della crisi del mercato immobiliare, che farebbe moltiplicare le insolvenze e accelerare i tempi della crisi del sistema bancario spagnolo. In altri termini, si teme che l’esercizio produca effetti analoghi a quelli già previsti per la Grecia, ossia una profonda recessione, un aumento del rapporto tra debito pubblico e PIL e gravi difficoltà del sistema bancario. Quindi una crisi da spirale del debito che la Banca centrale europea riuscirebbe a tamponare solo stampando enormi quantità di moneta. La debolezza dell’euro è dovuta a queste previsioni e all’inizio di un fenomeno di fuga dei capitali che nel caso greco è già chiaramente visibile.
In conclusione, il deprezzamento della moneta unica europea deve essere letto come un voto di sfiducia nei confronti del piano europeo salva-Stati.