Sharnin 2
Forumer storico
Se la crisi non insegna nulla
La finanza sta creando le condizioni per un nuovo tonfo
22 dic 2009
di ALFONSO TUOR -
«È imperdonabile sprecare una crisi». Questa frase dell’economista americano Paul Romer calza perfettamente con la situazione attuale e soprattutto con la vacuità delle proposte di riforma delle regole del sistema finanziario. Paradossalmente si è quindi indotti a sostenere che per fortuna la crisi non è finita.
È infatti man mano svanita la ferma volontà espressa da politici, banchieri centrali e autorità di sorveglianza di adottare delle regole che avrebbero dovuto ridurre sostanzialmente la possibilità di una nuova crisi finanziaria paragonabile per gravità a quella della fine dell’anno scorso. Questa graduale correzione di tiro è avvenuta nonostante l’impressionante trasferimento sulle spalle dei contribuenti di gran parte delle perdite registrate dai grandi gruppi bancari e sebbene la crisi finanziaria sia sfociata in una grave recessione con pesanti conseguenze su milioni di lavoratori. Il risultato è che oggi abbiamo un settore dominato da gruppi bancari ancora più grandi di prima, che beneficiano implicitamente della regola del «too big to fail» (troppo grandi per fallire). Una regola che le proposte di riforma in discussione al Congresso americano vorrebbero addirittura rendere esplicita inserendola in un testo di legge.
Questa evoluzione non deve tuttavia sorprendere: è infatti l’ineludibile sbocco della scelta politica di salvare quasi tutto e tutti. Ora, i banchieri sostengono che l’emergenza è passata e che non bisogna adottare regole che intralcino l’attività. A riprova di questa tesi si cita il dato di fatto che la maggior parte delle banche statunitensi sono state in grado di restituire gli aiuti ricevuti dallo Stato federale. Ma è veramente tutto oro quello che luccica ed è veramente risanato il sistema finanziario, come molti vogliono far credere? Ci sono molti motivi per dubitarne. Eccone alcuni.
Il settore finanziario ha beneficiato quest’anno di consistenti aiuti statali. Questi aiuti sono stati tali e tanti da trasformare di fatto il settore in un ramo ampiamente sussidiato, che poco o nulla ha a che fare con le regole dell’economia di mercato. Questi interventi, tuttora in corso, hanno preso diverse forme. Le principali sono nazionalizzazioni, aumenti di capitale sottoscritti dagli Stati, garanzie statali sui debiti, interventi delle banche centrali a sostegno dei mercati più in crisi (mercato monetario, commercial paper, ecc.), acquisti da parte della Federal Reserve dei titoli legati al mercato immobiliare americano e soprattutto la possibilità di attingere a una quantità illimitata di liquidità messa a disposizione dalle banche centrali ad un costo di poco superiore allo zero. Questa messe di azioni statali, che solo negli Stati Uniti si stima superi nel complesso i 10mila miliardi di dollari, è stata accompagnata dal cambiamento delle regole contabili, che ha permesso alle banche di non più iscrivere a prezzi di mercato i cosiddetti titoli tossici, non a caso divenuti negli ultimi mesi i grandi «desaparicidos». Tutto ciò ha fatto sì che nel giro di pochi mesi molti grandi gruppi bancari, che avevano ottenuto aiuti e garanzie statali, siano ritornati a macinare utili impressionanti, anche grazie alla riapertura del mercato per una serie di strumenti finanziari, i cui prezzi erano scesi molto.
In base alle apparenze, si potrebbe essere indotti a concludere che la finanza, causa e al contempo vittima della crisi, si sia completamente ristabilita.
La realtà è molto diversa. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, le banche hanno finora denunciato solo la metà delle loro perdite. Per la Banca centrale europea, le banche di Eurolandia dovranno ancora svalutare 187 miliardi di euro (circa 280 miliardi di franchi) per perdite dovute a prestiti inesigibili e ad investimenti nella finanza strutturata andati a finire male. Per la Bce, questa cifra porterà a ben 553 miliardi di euro (circa 830 miliardi di franchi) le svalutazioni complessive dall’inizio della crisi nel 2007. Nemmeno i conti delle banche statunitensi brillano. Le attività iscritte a bilancio al cosiddetto «livello 3» (ossia gli strumenti illiquidi o difficili da valutare) ammontano a 346 miliardi di dollari e corrispondono, dollaro meno dollaro più, all’intero capitale delle banche. Ma c’è di più: i crediti sono iscritti a bilancio ad un valore di 76 miliardi di dollari superiore a quello di mercato. E si potrebbe continuare. Lo stato di salute del sistema finanziario continua pertanto a rimanere precario, come emergerà chiaramente con la fine delle garanzie statali che comporterà un aumento dei costi di rifinanziamento. Se a ciò si dovesse aggiungere anche un aumento dei tassi di interesse da parte delle banche centrali, i problemi diverrebbero immediatamente evidenti.
Ma torniamo al cambiamento delle regole di un sistema bancario sussidiato dalla mano pubblica e al beneficio dell’implicita garanzia statale. Una battuta del settimanale «The Economist» sintetizza efficacemente quanto sta succedendo: «Le banche non hanno più paura dei Governi». A Basilea si discute di un aumento dei requisiti di capitale da introdurre in futuro, negli Stati Uniti ci si muove addirittura sull’ipotesi di un’esplicita garanzia statale che entrerebbe in vigore a condizione che i creditori delle banche accettino una perdita del 10% sulle obbligazioni o sugli altri strumenti utilizzati per finanziarsi. Il dibattito è scivolato nel tecnichese e non affronta il cuore dei problemi, tanto che persino l’ex presidente della Federal Reserve Paul Volcker, in un’audizione al Congresso, si è scagliato contro questo lavoro di cosmesi, sostenendo che non si affrontano due questioni cruciali.
La prima è la necessità di separare le banche commerciali (ossia quelle che raccolgono risparmio e concedono crediti a famiglie ed imprese) dalle banche di investimento (che conducono operazioni rischiose sui mercati finanziari). La seconda è l’esigenza di verificare l’utilità economica dei nuovi strumenti finanziari. Alcuni, come i Credit Default Swap, secondo Volcker (in questo sostenuto da George Soros), dovrebbero essere esplicitamente vietati. Queste voci autorevoli e credibili sono destinate per il momento a non essere ascoltate, poiché il mondo finanziario e soprattutto Wall Street hanno ripreso il controllo del processo politico. Questo ha tuttavia l’aria di una vittoria di Pirro, poiché la crisi non è finita e la finanza sta creando le condizioni che preludono ad un tonfo ancora più devastante di quello cui abbiamo assistito nell’autunno dell’anno scorso. Non ci si deve sorprendere: la presunzione del mondo finanziario non ha pari, come dimostra la questione dei bonus, che il settore, sostenuto a suon di miliardi dai contribuenti, vuole continuare ad elargire a piene mani senza interferenze legislative. Come dire che la pesante crisi di quest’ultimo anno e mezzo non ha proprio insegnato nulla. È stata, insomma, sprecata.
La finanza sta creando le condizioni per un nuovo tonfo
22 dic 2009
di ALFONSO TUOR -
«È imperdonabile sprecare una crisi». Questa frase dell’economista americano Paul Romer calza perfettamente con la situazione attuale e soprattutto con la vacuità delle proposte di riforma delle regole del sistema finanziario. Paradossalmente si è quindi indotti a sostenere che per fortuna la crisi non è finita.
È infatti man mano svanita la ferma volontà espressa da politici, banchieri centrali e autorità di sorveglianza di adottare delle regole che avrebbero dovuto ridurre sostanzialmente la possibilità di una nuova crisi finanziaria paragonabile per gravità a quella della fine dell’anno scorso. Questa graduale correzione di tiro è avvenuta nonostante l’impressionante trasferimento sulle spalle dei contribuenti di gran parte delle perdite registrate dai grandi gruppi bancari e sebbene la crisi finanziaria sia sfociata in una grave recessione con pesanti conseguenze su milioni di lavoratori. Il risultato è che oggi abbiamo un settore dominato da gruppi bancari ancora più grandi di prima, che beneficiano implicitamente della regola del «too big to fail» (troppo grandi per fallire). Una regola che le proposte di riforma in discussione al Congresso americano vorrebbero addirittura rendere esplicita inserendola in un testo di legge.
Questa evoluzione non deve tuttavia sorprendere: è infatti l’ineludibile sbocco della scelta politica di salvare quasi tutto e tutti. Ora, i banchieri sostengono che l’emergenza è passata e che non bisogna adottare regole che intralcino l’attività. A riprova di questa tesi si cita il dato di fatto che la maggior parte delle banche statunitensi sono state in grado di restituire gli aiuti ricevuti dallo Stato federale. Ma è veramente tutto oro quello che luccica ed è veramente risanato il sistema finanziario, come molti vogliono far credere? Ci sono molti motivi per dubitarne. Eccone alcuni.
Il settore finanziario ha beneficiato quest’anno di consistenti aiuti statali. Questi aiuti sono stati tali e tanti da trasformare di fatto il settore in un ramo ampiamente sussidiato, che poco o nulla ha a che fare con le regole dell’economia di mercato. Questi interventi, tuttora in corso, hanno preso diverse forme. Le principali sono nazionalizzazioni, aumenti di capitale sottoscritti dagli Stati, garanzie statali sui debiti, interventi delle banche centrali a sostegno dei mercati più in crisi (mercato monetario, commercial paper, ecc.), acquisti da parte della Federal Reserve dei titoli legati al mercato immobiliare americano e soprattutto la possibilità di attingere a una quantità illimitata di liquidità messa a disposizione dalle banche centrali ad un costo di poco superiore allo zero. Questa messe di azioni statali, che solo negli Stati Uniti si stima superi nel complesso i 10mila miliardi di dollari, è stata accompagnata dal cambiamento delle regole contabili, che ha permesso alle banche di non più iscrivere a prezzi di mercato i cosiddetti titoli tossici, non a caso divenuti negli ultimi mesi i grandi «desaparicidos». Tutto ciò ha fatto sì che nel giro di pochi mesi molti grandi gruppi bancari, che avevano ottenuto aiuti e garanzie statali, siano ritornati a macinare utili impressionanti, anche grazie alla riapertura del mercato per una serie di strumenti finanziari, i cui prezzi erano scesi molto.
In base alle apparenze, si potrebbe essere indotti a concludere che la finanza, causa e al contempo vittima della crisi, si sia completamente ristabilita.
La realtà è molto diversa. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, le banche hanno finora denunciato solo la metà delle loro perdite. Per la Banca centrale europea, le banche di Eurolandia dovranno ancora svalutare 187 miliardi di euro (circa 280 miliardi di franchi) per perdite dovute a prestiti inesigibili e ad investimenti nella finanza strutturata andati a finire male. Per la Bce, questa cifra porterà a ben 553 miliardi di euro (circa 830 miliardi di franchi) le svalutazioni complessive dall’inizio della crisi nel 2007. Nemmeno i conti delle banche statunitensi brillano. Le attività iscritte a bilancio al cosiddetto «livello 3» (ossia gli strumenti illiquidi o difficili da valutare) ammontano a 346 miliardi di dollari e corrispondono, dollaro meno dollaro più, all’intero capitale delle banche. Ma c’è di più: i crediti sono iscritti a bilancio ad un valore di 76 miliardi di dollari superiore a quello di mercato. E si potrebbe continuare. Lo stato di salute del sistema finanziario continua pertanto a rimanere precario, come emergerà chiaramente con la fine delle garanzie statali che comporterà un aumento dei costi di rifinanziamento. Se a ciò si dovesse aggiungere anche un aumento dei tassi di interesse da parte delle banche centrali, i problemi diverrebbero immediatamente evidenti.
Ma torniamo al cambiamento delle regole di un sistema bancario sussidiato dalla mano pubblica e al beneficio dell’implicita garanzia statale. Una battuta del settimanale «The Economist» sintetizza efficacemente quanto sta succedendo: «Le banche non hanno più paura dei Governi». A Basilea si discute di un aumento dei requisiti di capitale da introdurre in futuro, negli Stati Uniti ci si muove addirittura sull’ipotesi di un’esplicita garanzia statale che entrerebbe in vigore a condizione che i creditori delle banche accettino una perdita del 10% sulle obbligazioni o sugli altri strumenti utilizzati per finanziarsi. Il dibattito è scivolato nel tecnichese e non affronta il cuore dei problemi, tanto che persino l’ex presidente della Federal Reserve Paul Volcker, in un’audizione al Congresso, si è scagliato contro questo lavoro di cosmesi, sostenendo che non si affrontano due questioni cruciali.
La prima è la necessità di separare le banche commerciali (ossia quelle che raccolgono risparmio e concedono crediti a famiglie ed imprese) dalle banche di investimento (che conducono operazioni rischiose sui mercati finanziari). La seconda è l’esigenza di verificare l’utilità economica dei nuovi strumenti finanziari. Alcuni, come i Credit Default Swap, secondo Volcker (in questo sostenuto da George Soros), dovrebbero essere esplicitamente vietati. Queste voci autorevoli e credibili sono destinate per il momento a non essere ascoltate, poiché il mondo finanziario e soprattutto Wall Street hanno ripreso il controllo del processo politico. Questo ha tuttavia l’aria di una vittoria di Pirro, poiché la crisi non è finita e la finanza sta creando le condizioni che preludono ad un tonfo ancora più devastante di quello cui abbiamo assistito nell’autunno dell’anno scorso. Non ci si deve sorprendere: la presunzione del mondo finanziario non ha pari, come dimostra la questione dei bonus, che il settore, sostenuto a suon di miliardi dai contribuenti, vuole continuare ad elargire a piene mani senza interferenze legislative. Come dire che la pesante crisi di quest’ultimo anno e mezzo non ha proprio insegnato nulla. È stata, insomma, sprecata.