Quelli appena citati sono solo due tra i numerosi esempi che dimostrano quanto dura sia la vita della nostra industria bellica al di là dell’Atlantico. Ce ne sono molti altri, sia in campo navale, sia terrestre, senza contare il fatto che le due più famose fabbriche d’armi da fuoco yankee, Colt Firearms e Smith&Wesson, talvolta fanno nascere il sospetto (soprattutto la prima) di non aver ancora digerito del tutto il boccone (amarissimo) di aver perso già dal 1984 i favori delle Forze Armate nazionali in fatto di pistole automatiche. Da quella data, infatti, la nostra Beretta M9 ha sostituito la Colt 1911 al fianco dei militari americani e in ogni gara successiva ha fatto e fa piazza pulita di ogni concorrente. Tuttavia, non senza doversi poi difendere da qualche perfidia che punterebbe volentieri a riaprire le gare mettendo in dubbio i risultati dei test. La vicenda indiana di Finmeccanica non aiuterà certo l’azienda ovunque sia presente, ma soprattutto negli Stati Uniti, dove le tecniche per mettere fuori gioco i concorrenti (in particolare quelli che sanno fare anche meglio degli americani) ormai non sono più solo una scienza, ma una vera arte. E forse quello che manca a Finmeccanica è avere alle spalle un paese forte che la protegga nel senso che si sappia far rispettare, come hanno le aziende francesi o tedesche.
Tuttavia, a prescindere da tutto il clamore più che giustificato nato in questi giorni intorno al malaffare che sembra contraddistinguere molte attività della nostra maggiore industria d’armamenti, s’impone una constatazione: nel settore del procurement militare, intermediari, faccendieri e tangentisti abbondano come i giovanotti al ballo delle debuttanti. Gli esempi che riguardano altre grandi industrie della difesa non mancano, dalle mega-ricompense pagate dalla tedesca Ferrostaaal per la vendita di sottomarini tipo 209 e 214 al Portogallo e alla Grecia al famoso contratto Al Yamamah per la fornitura dei caccia Tornado (e altro) all’Arabia Saudita, fornito dalla britannica Bae, con cospicui versamenti che sembrano finiti nelle casse dei reali sauditi. E i casi dell’omicidio dell’interprete mongola Altantuya Shaariibuu nella vicenda dei due sottomarini Scorpène franco-spagnoli venduti alla Malesia e di quello del capitano di vascello Yin Ching-feng, assassinato (pare) quando era pronto a vuotare il sacco sulle tangenti per la vendita di sei fregate francesi tipo Lafayette alla Marina di Taiwan dimostrano che talvolta, intorno a questi mega.contratti, oltre all’odor di mazzette si sente anche quello di cadavere.
Certo, la magistratura deve fare il suo lavoro, e come abbiamo visto lo fa, in Italia e anche all’estero. Ma stracciarsi le vesti e gridare allo scandalo quando è risaputo che il mondo del procurement militare è marcio dall’interno non serve poi a molto, se non a far nascere l’idea che distruggere aziende d’importanza vitale per l’industria della difesa non sia dopotutto un gran danno. Servono invece dosi da cavallo di pragmatismo e di realismo, un controllo strettissimo da parte dei governi (anche quelli dei Paesi acquirenti, e non solo di quelli venditori) e, magari, sarebbe bello ma quasi impossibile in un settore dove il segreto è così legato al business, anche una bella agenzia multinazionale che si occupi di vigilare sui contratti per accertare che fiumi di denaro non vadano a finire dove non dovrebbero.