Utopia o realtà ? La LIBERTA' di espressione va difesa ora, perchè domani sarà troppo tardi......e ce ne pentiremo.

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È morto Roberto Maroni.

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L’ex ministro dell’Interno ed ex segretario della Lega aveva 67 anni.

Lo si apprende da fonti del partito.

Ecco le parole della famiglia per annunciare la notizia della sua scomparsa:

«Questa notte alle 4 il nostro caro Bobo ci ha lasciato.
A chi gli chiedeva come stava, anche negli ultimi istanti, ha sempre risposto "bene".

Eri così Bobo, un inguaribile ottimista.

Sei stato un grande marito, padre e amico.

Chi è amato non conosce morte, perché l’amore è immortalità, o meglio, è sostanza divina (Emily Dickinson). Ciao Bobo», si conclude.
 
Nato a Varese il 15 marzo 1955, Maroni, malato da tempo, ha dedicato tutta la vita alla politica:

segretario federale del Carroccio dal 2012 al 2013,
è stato ministro dell’Interno nei governi Berlusconi I e Berlusconi IV,
risultando il primo politico esterno alla Democrazia Cristiana a ricoprire l’incarico nella storia repubblicana,
ministro del lavoro e delle Politiche sociali nei governi Berlusconi II e Berlusconi III.

Ha inoltre ricoperto il ruolo di presidente della Regione Lombardia dal 2013 al 2018, succedendo a Formigoni.

Gli studi classici al liceo Ernesto Cairoli di Varese, un’esperienza come conduttore radiofonico in una radio libera, "Radio Varese" e una laurea in Giurisprudenza.

Il 1979 è l’anno dell’incontro con Umberto Bossi.

Dieci anni più tardi partecipa alla fondazione della Lega Nord,
di cui ricopre dal 2002 l’incarico di coordinatore della segreteria politica federale presieduta dal segretario federale Bossi.

Il battesimo alla Camera dei deputati avviene nel 1992, dove ricopre la carica di presidente del gruppo parlamentare leghista.

Nel 2020, in un'intervista alla "Prealpina", aveva ufficializzato la sua candidatura a sindaco di Varese,
in vista delle elezioni comunali del 2021 ma poi si era ritirato dalla corsa per gravi problemi di salute.
 
Chiuderà il 6 dicembre la sede di McDonald's in San Babila a Milano.

Non potrà essere ricollocato, invece, il luogo storico e simbolico che ospita il fast food americano.

E che, negli anni Ottanta, è stato il ritrovo dei paninari, la sottocultura milanese,
indiscussa protagonista di questo angolo d’America dove nel 1981 aprì il primo Burghy d’Italia.


Burghy in San Babila è stato a lungo parte dello status del paninaro.

Riconoscibile dalle sue scarpe Timberland,
dai piumini Moncler
ma anche dalle giacche stile montone e cappotti over-size,
accessori Naj-Oleari e zaino Invicta.

E ancora gli intramontabili Levi’s retti da cintura El Charro.
 
La moda italiana piange un altro suo grande simbolo.

Dopo la scomparsa di Franca Fendi lo scorso ottobre,
oggi, presso la chiesa di Santa Maria del Popolo in Roma,
è stato dato l’ultimo saluto a Renato Balestra,
glorioso interprete della moda italiana nel mondo.

Triestino di nascita, figlio di ingegneri e architetti,
grande appassionato di pittura, musica e scenografia, si è spento all’età di 98 anni.

Una vita straordinaria quella vissuta da Renato Balestra,
la cui favola inizia casualmente quando una sua amica inviò a sua insaputa alcuni suoi bozzetti al Centro italiano della moda,
che lo invitò subito a partecipare ad una sfilata.

Il suo apprendistato lo svolse poi presso la casa di Alta Moda di Jole Veneziani a Milano.

Nel 1954 si traferì a Roma e iniziò a lavorare con grandi nomi della moda come Emilio Schuberth, Maria Antonelli e le Sorelle Fontana.

Dopo soli quattro anni presentò una sua collezione oltreoceano, negli Stati Uniti,
e nel 1959 aprì il suo primo atelier presentando, due anni dopo,
la sua prima collezione di haute couture “primavera estate” presso la Galleria nazionale di Arte moderna.

Gli italiani lo applaudivano e il mondo lo reclamava.


Renato Balestra sarà sempre considerato come un decano della moda italiana nel mondo.

Ha creato il celebre “Blu Balestra”, una tonalità magica, brillante che sa di eterno, must della sua Maison.
 
Sommiamo questi ai predatori volatili e poi non chiediamoci perchè non si trova più pesce nel lago.



Questa notte le acque del lago di fronte a Bellano hanno spinto nelle reti di Fabio Valentini un enorme "regalo",

un pesce siluro (Silurus glanis) del peso di oltre 45 chilogrammi.

L'esemplare appartiene a una specie alloctona – introdotta in Italia da circa mezzo secolo - che cresce a dismisura,

diventando un vero e proprio problema per la fauna ittica autoctona, motivo per cui la legge impone di ucciderlo dopo averlo pescato.

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Cosa vuoi dire di Sinisa Mihajlovic?

Che era un combattente lo sanno tutti.

Che amava il suo Paese pieno di contraddizioni, pure.

Che non aveva timore di rivendicare una certa appartenenza politica (“tifo per Salvini”), anche.


Se ne fregava, in fondo, di quello che dicevano di lui.

“Uno che ha fatto due guerre può forse aver paura di essere mandato via?”. No, ovvio.

Di sicuro Sinisa ha avuto paura della malattia.
Pianse “tre giorni” quando gli diagnosticarono una leucemia mieloide acuta.
Poi ha lottato, è tornato al lavoro, sui campi di calcio, ha scritto un libro,
ha avuto una ricaduta “subdola e bastarda”, è stato esonerato. E oggi è morto.


Ma insomma: questo lo diranno tutti.

E forse uno come lui non avrebbe apprezzato: come tutti noi aveva dei difetti,
che di solito nei coccodrilli si sciolgono come neve al sole.

Quando a Sanremo si presentò con Ibra sul palco convinto di aver vinto la malattia,
disse che non pensava potesse succedere proprio a lui.

Cinque figli, una moglie, un’infanzia in un Paese complicato come l’ex Jugoslavia di Tito,
lo zio croato che voleva “scannare come un porco” il papà serbo,
una carriera sfavillante da calciatore e un’altra ottima da allenatore davanti.

Una malattia scoperta per caso.

Perché a lui?

Perché Mihajlovic?

Ma in fondo è la domanda di tutti: perché proprio a me la sofferenza, il dolore e la morte?


“Uomo unico, professionista straordinario, disponibile e buono con tutti”, piangono i suoi familiari.
“Sinisa resterà sempre con noi. Vivo con tutto l’amore che ci ha regalato”.


Ecco, è questo il punto.

Chi era Sinisa, il suo ruolo in campo, le vittorie, la carriera: leggerete tutto altrove.

Io posso al massimo raccontarvi chi è stato Sinisa per un laziale bambino,
unico biancoceleste in una famiglia di interisti, che ad ogni punizione concessa dal limite sentiva un fremito correre lungo la schiena.

Sopra la barriera, sul lato del portiere, da distanze “siderali” che i calciatori di oggi se le sognano.


Ha smesso di tirare punizioni un paio di anni fa, diceva,
e si riteneva migliore di quasi tutti i suoi giocatori in attività.

Ci credo: e se tira Sinisa è gol.


01_Coro 'E se tira Sinisa è Gol'




È difficile da spiegare, lo so.

Ma Sinisa Mihajlovic per un laziale
è quella camminata verso la curva biancoceleste per ricevere l’applauso al suo ritorno in campo dopo le cure.

È il coro intonato ad ogni suo approdo all’Olimpico.

È quel legame totalmente irrazionale che un tempo, oggi molto meno,
si creava tra gli idoli in campo e i tifosi.

Attaccamento alla maglia? Non so.

Passione, di sicuro. “Io sono tifoso della Lazio”, ripeteva da avversario,
“quando subisce gol c’è qualcosa dentro che non mi fa esultare”.

A chi mi chiedeva perché non amassi mister Sarri, rispondevo sempre che avrei tanto desiderato Mihajlovic in panchina.
Perché il calcio per alcuni è più questione di cuore che di risultati. Io sono uno di quelli.

E se consegni da protagonista uno scudetto a chi ne ha vinti appena due,
hai di diritto forgiato metà del cuore di quel ragazzino che sognava alle tue punizioni.

Anche oggi, all’annuncio, è stato un fremito.

Purtroppo diverso dal solito.

Quest’ultimo tiro mancino, andartene così presto, speravamo potessi risparmiarcelo.

Ciao Sinisa.
 
Papi, per modo di dire, ne sono sempre esistiti.
Gregorio voleva farsi ricordare,
ma noi pensiamo a Giuliano.........Giulio Cesare.



Il Natale ortodosso cade ufficialmente il 7 gennaio
che corrisponde al 25 dicembre del Calendario giuliano,
che è quello tuttora adottato dalla Chiesa russa.

La festività viene celebrata 13 giorni dopo il Natale cattolico
poiché attualmente la differenza tra il Calendario giuliano
e quello gregoriano è appunto di 13 giorni;

il 25 dicembre, giorno in cui cade la festa nella maggior parte dei Paesi, è invece un giorno feriale.

L'Avvento dura 40 giorni, avendo inizio il 28 novembre e terminando il 6 gennaio.

L'intero periodo natalizio si conclude poi il 13 gennaio,
la data del "vecchio Capodanno", o "Capodanno ortodosso",
sempre secondo il calendario giuliano,

mentre le vacanze natalizie iniziano solitamente il 31 dicembre e terminano il 10 gennaio.
 
Così aveva immaginato il suo congedo terreno:

“Perché non mi preparo alla fine ma ad un incontro poiché la morte apre alla vita, a quella eterna,
che non è un infinito doppione del tempo presente, ma qualcosa di completamente nuovo”.

Un gigante minuto.

È racchiusa tutta in questo ossimoro l’impressione che ebbi di Ratzinger la prima volta che lo incontrai.


Accadde nel secolo scorso a Palazzo Giustiniani, nello studio del presidente Andreotti:
ad un certo punto fece ingresso Patrizia Chilelli, la sua fedele assistente,
per annunciare la visita del cardinale Joseph Ratzinger, allora Prefetto per la Dottrina della Fede, il temuto Sant’Uffizio.

Andreotti, al solito, scattò come una molla dirigendosi verso la porta alla sinistra del salotto ed io appresso a lui, per uscire dalla stanza.

Elaborando in un attimo il nome, la nazionalità e il ruolo del porporato tedesco
e forse suggestionato dalla stampa che lo appellava come il ‘rottweiler bavarese’,
mi aspettavo di trovare dietro la porta una montagna d’uomo e, invece, mi si parò davanti
– in clergyman senza alcun segno cardinalizio se non un anello – una figura esile e delicata con un sorriso disarmante.

Teneva in mano un basco nero e un pacchettino di pasticceria.

Dopo qualche secondo di minuetto “prego, entri”, “no, esco io”, dacché dovevo andar via,
fui invitato a restare insieme a questi due giganti.

L’imbarazzo del futuro Papa nel porgere ad Andreotti il pacchetto di cioccolatini di Moriondo & Gariglio era pura impacciataggine.

Andreotti li scartò subito, esclamando sorpreso: “Alla menta! I miei preferiti…Come fa a saperlo?”.

Il cardinale, con il suo inconfondibile accento teutonico, rispose con un filo di voce:
“L’anno scorso, durante il ricevimento all’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede per i Patti Lateranensi, ho notato che ne aveva mangiati tre”
e arrossendo leggermente, confessò di aver memorizzato l’episodio e di aver chiesto il nome della pasticceria
e così, prima di venire, passeggiando per le vie di Roma, come amava fare, era passato a comprarli.

Ne rimasi colpito.

La conversazione virò poi sulla rivista del Presidente 30 Giorni che si stava occupando di Sant’Agostino.

Mi restarono impresse le osservazioni di Ratzinger sulla figura del grande Santo di Ippona
che della diffusione della dottrina aveva fatto il suo ‘Vangelo’
e la palese ammirazione di Andreotti per quell’uomo che amava passeggiare per la Città Eterna.

Entrambi concordavano che la fede cristiana è la religione dei semplici che si realizza nell’obbedienza a Nostro Signore,
quella stessa obbedienza che non si affida al proprio potere o alla propria grandezza,
ma si fonda sull’amore di Gesù Cristo per gli uomini e la verità.

Negli anni successivi, Ratzinger ebbe parole severe per come era stato istruito il processo di Palermo ad Andreotti,
esprimendo ammirazione per la forza d’animo dimostrata nei dieci anni di calvario durante i quali “subì oltraggi pubblici mostruosi
e fu profondamente ferito nel suo onore e nella sua dignità”.

Ma non solo Andreotti.
 

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