La saga dei Marzotto gira attorno all’oro di Zignago.
da Finanza&Mercati del 15-07-2004
C’è un’azienda, a Portogruaro, nel veneziano, che fa luccicare gli occhi ad Antonio Favrin. Sarà perché l’attuale presidente di Marzotto apprezza il buon vino bianco, sarà perché si tratta di un gioiello di azienda tra le meno valorizzate (e conosciute) in Piazza Affari e dintorni, sarà perché Favrin ne mantiene la presidenza. O, forse, perché tutto è cominciato a Portogruaro, e tutto a Portogruaro potrebbe chiudersi. A fine luglio, infatti, sono in programma in rapida successione (nell’ordine, il 29 e il 30 luglio) i consigli di amministrazione del gruppo Marzotto e delle Industrie Zignago Santa Margherita, di Portogruaro appunto. In quei giorni Favrin, il doppio presidente, potrebbe estrarre dal cilindro la formula magica che chiuderà il riassetto di Valdagno. Un ridisegno che potrebbe portare, è stato scritto da F&M e non è stato smentito, all’aggregazione di Marzotto con la controllata tedesca Hugo Boss e all’alleggerimento dal comparto tessile.
Che c’entra questo con la Zignago? Per tentare una risposta occorre risalire all’assemblea del 30 ottobre 2002. Fino a quel momento, Zignago era semplicemente una macchina da profitto per i soci, la terza società di Piazza Affari per risorse distribuite negli ultimi 15 anni (dietro solo a un paio di concessionari autostradali). Il grande problema era lo scarso flottante, per il resto Zignago garantiva rendite di posizione da leader. Nel vetro, che vale oltre il 50% del fatturato, ambito in cui l’azienda è tra i primi cinque produttori al mondo con la capacità di creare bottiglie e vasellame d’élite. Nel vino, con i marchi Santa Margherita e Ca’ del Bosco, che rendono il gruppo tra i primi cinque produttori italiani. In più, con la peculiarità di aver valorizzato al massimo il bianco, cosa che consente minor investimenti in terreni e meno immobilizzazioni nell’invecchiamento: l’azienda vende un pinot grigio che risulta tra i vini più venduti nella ristorazione americana. E poi c’è l’attività nel lino, roba ciclica, è vero, ma senza troppi scossoni sulla bottom line negli ultimi dieci anni. Insomma, Zignago era un titolo per pochi, appassionati intenditori. Qualche analista che seguiva il gruppo c’era. E chi ne racconta l’andamento («una bella storia di Borsa»), parla di un’azione da coltivare, di un management corretto al punto da sembrare fuori luogo, nella Piazza Affari anni Novanta.
Ma di fuori luogo c’era qualcos’altro. L’enorme liquidità di Zignago. È vero, la società è una cash cow, ma nel 2000 si ritrovava 66 milioni di liquidi su un fatturato di 228. Gli appelli di gestori e analisti (perché non reinvestire nel business che assicurava alti rendimenti?) andarono nel vuoto. Gli investimenti, semmai, deviarono in un fondo specializzato nella telefonia. Strano. Poi s’è capito. Zignago aveva bisogno della cassa per favorire la spettacolare Opa su Marzotto. La scalata al colosso veneto semplificava gli asset industriali delle due famiglie Marzotto e Donà delle Rose, tra le cui file si frazionava il controllo di Valdagno e di Zignago. Consentendo nel contempo a chi voleva monetizzare di lasciare la nave. Peccato per le minoranze di Zignago, che videro il titolo crollare del 40% in un giorno, visto che l’Opa dava un premio dell’80% alle azioni Marzotto. I conti si regolarono nell’assemblea Zignago del 30 ottobre, dove si presentarono familiari con oltre l’80% delle azioni. E andando oggi a rifare i conti, emerge che, allargando a fiduciarie, parenti vari e ai Notarbartolo di Villarosa, nobili siciliani legati via matrimonio con la famiglia di Paolo, si arrivava al 94% del capitale Zignago. Le minoranze erano pronte a studiare azioni legali. Ma a fare dietrofront furono due rami della famiglia, quello guidato dal conte Pietro, e quello dei figli di Umberto (uno dei fratelli di Pietro). In totale, allora, significava il 30% del capitale, il 34% dei votanti, sufficiente per far saltare tutto.
Fu un colpo di scena. Per Zignago, fu un colpo e basta. Da allora il titolo resta un titolo da acquistare, ma che nessuno consiglia. Guardare Bloomberg per credere: copertura, zero. E chi ce l’ha in portafoglio, ora trema. Ma sembra difficile, dicono gli analisti «traditi» (quelli che amavano Zignago e che ora non si fidano), che si ripeta l’operazione del 2002. Il delisting, invece, potrebbe essere un affare, potrebbe fruttare 19 euro a titolo nel caso l’azienda venga fatta a pezzi e ceduta. Nell’ipotesi l’Opa avvenga a 15 euro (oggi l’azione gira attorno ai 13,5), l’esborso sarebbe di 375 milioni. Una quota accessibile, per un gruppo che crea 25 milioni di cassa l’anno, e che potrebbe garantirsi 200 milioni di indebitamento. Già, ma lo garantiva anche due anni fa. Solo che, quel 30 ottobre, è scoppiata la guerra tra le famiglie. E alla guida di Valdagno sono saliti quelli che erano i fautori dell’Opa Zignago, la corrente improntata alla massimizzazione del valore e all’uscita dai business meno strategici. Mentre a Valdagno è stato chiuso l’ufficio del conte Pietro. Fuori dal board e dall’azionariato, oggi cerca un altro ufficio. Alla sua cordata che fermò l’Opa, per ottenere il 70% circa mancante a 15 euro, «bastano» 255 milioni.
Il Conte e soci hanno incassato in due anni 26 milioni di dividendi da Zignago, cui si aggiungono i 105 milioni ricevuti da Pietro per uscire da Marzotto. La differenza da 255 non è abissale. Certo, Valdagno e Portogruaro, che a monte hanno la stessa saga familiare, sono legati a valle nel Linificio e Canapificio, azienda quotata di cui Marzotto e Zignago possiedono un 34% a testa. Tra gli osservatori delle vicende venete c’è chi scommette in una scalata sul Linificio: il titolo oggi capitalizza appena il 70% dei ricavi. Un altro gioiello da dividere tra gli eredi, insomma. O da consegnare al conte Pietro. A fine luglio, Favrin potrebbe decidere. Sarà per questo, quel luccichio negli occhi.