Investimenti & Sviluppo (IES) 10% di Buy Back sul flottante e Novità

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L’inchiesta Nel mirino Deutsche Bank, Jp Morgan, Depfa Bank e Ubs. L’azione replicabile in tutta Italia
Caso derivati, banche sotto sequestro

Sigilli a sedi, quote e conti dopo il «buco» al Comune di Milano

MILANO — Fossero dotati di humour, adesso in Procura potrebbero parodiare una delle proverbiali intercettazioni cap­tate anni fa in tutt’altre indagi­ni economiche: «Abbiamo una banca!». Perché da ieri, in sen­so quasi letterale, la Procura di Milano ha davvero una banca (il 25% della spa italiana della tedesca Deutsche Bank), e an­che la sede di una banca (quel­la dell’americana Jp Morgan nel Palazzo Hoepli), e cespiti di una banca (conti per 8 milioni nella tedesca Depfa Bank, altre attività nella svizzera Ubs). Tut­ti beni che il giudice Giuseppe Vanore ha autorizzato il pm Al­fredo Robledo a sequestrare, per la prima volta in Italia, fino a un tetto di 92 milioni di euro per Jp Morgan e Depfa Bank, di 84 per Deutsche Bank, di 75 per Ubs: istituti indagati per truffa aggravata ai danni del Co­mune di Milano nella rinegozia­zione del debito di Palazzo Ma­rino con prodotti finanziari «derivati», cioè contratti per ge­stire il rischio di tasso d’interes­se.
Il sequestro preventivo, che raccoglie il lavoro del Nucleo di polizia tributaria della Gdf, poggia su una novità che, se reggerà al Tribunale del Riesa­me, potrebbe essere replicata in tutta Italia indipendente­mente dall’aleatorio andamen­to del mercato di questi prodot­ti finanziari piazzati a iosa dalle banche (per 35 miliardi di eu­ro) a 18 Regioni, 44 Province e 447 Comuni, con passività per lo Stato in 2 miliardi. L’idea di fondo, infatti, è che il primo raggiro delle banche al Comu­ne sia avvenuto quando, nella veste di consulenti, avrebbero violato la legge 448 del 2001 che subordina queste operazio­ni alla riduzione del valore fi­nanziario delle passività totali a carico dell’ente: al contrario, le banche avrebbero rinegozia­to il debito tacendo l’esistenza di un «derivato» stipulato dal Comune nel 2002 con Unicredi­to, che non poteva essere igno­rato perché onerosamente col­legato a mutui rinegoziati.
A ruota, le banche avrebbero praticato un secondo raggiro, stavolta nella struttura scelta per ammortare il debito del Co­mune sia nel 2005 (giunta Al­bertini) sia nel contratto dell’ot­tobre 2007 (già sotto la giunta Moratti). La regola è che, quan­do due parti stipulano un con­tratto derivato, devono essere nelle medesime condizioni e dunque il valore delle presta­zioni deve essere pari a zero; se così non è, chi è in vantaggio deve ricostituire in partenza l’equilibrio dando a chi è in svantaggio un pagamento pari alla differenza. Invece, nel rap­porto banche-Comune la strut­tura del contratto — secondo quanto calcolato dal consulen­te del pm, Gianluca Fusai — de­terminava già in partenza uno squilibrio tra i due contraenti, e cioè 52 milioni di euro di per­dita finanziaria a carico del Co­mune, dovuta a condizioni con­trattuali che avvantaggiavano già in partenza le banche: esat­tamente il contrario del vantag­gio di 55 milioni di euro che le banche rappresentavano inve­ce al Comune. E qui c’è la base del sequestro: la Procura assu­me infatti che questa perdita del Comune costituisca di per sé e subito un profitto per le banche talmente concreto e at­tuale che gli istituti lo iscrivo­no a bilancio come valore effet­tivo, lo possono vendere e com­prare, lo pongono a base di mu­tui.
Alle banche è addebitato un terzo raggiro: aver violato i doveri di correttezza imposti lo­ro proprio dalla legge inglese «Fsa» che esse avevano voluto regolasse i contratti con il Co­mune, e in particolare aver ma­novrato per spingerlo a rinun­ciare (senza che se ne avvedes­se) a tutta una serie di preziose protezioni contrattuali di cui avrebbe in teoria dovuto e po­tuto godere nella sua veste di ente pubblico territoriale.
Il Comune è parte lesa, ma le 4 banche e i loro 12 manager già da mesi sotto inchiesta so­no indagati in concorso con due ex manager comunali: il di­rettore generale nell’era Alberti­ni, Giorgio Porta, al quale sono sequestrate (fino a teorici 81 milioni) una casa a Milano e una a Courmayeur, e l’allora componente della Commissio­ne tecnica Mauro Mauri, che ve­de sotto sigilli (per teorici 52 milioni) la sua quota di una ca­sa in Lomellina.


Luigi Ferrarella
corriere.it
 
Lei: ad ognuno il 20 per cento.
Ma così Marina e Piersilvio finiscono in minoranza.
I più giovani vogliono avere posti di responsabilità nelle aziende

Otto miliardi tra Silvio e Veronica
la lite di Arcore sull'eredità dei figli

di ETTORE LIVINI


MILANO - Va bene la polemica sulle veline in lista alle europee. Ok le questioni di principio sul "potere senza pudore". Dietro le quinte della telenovela di Arcore però - dove gli scontri Veronica-Silvio si alternano ai sorridenti ritratti di famiglia (allargata) sui giornali di casa - c'è anche una piccola questioncina da 8 miliardi, ville escluse: la divisione dell'impero del presidente del Consiglio.

L'argomento, per ovvie questioni di delicatezza, non è mai stato esplicitato da nessuno. Da anni però i più fidi consiglieri del premier, da Bruno Ermolli a Ubaldo Livolsi, sono al lavoro con il bilancino per trovare un punto di equilibrio - emotivo, manageriale e finanziario - tra le due "anime" (che non si sono mai troppo amate) di casa Berlusconi: Marina e Piersilvio, figli di primo letto del matrimonio con Carla dall'Oglio, da una parte; Barbara, Eleonora e Luigi, nati dalle nozze con Veronica Lario, dall'altra. E la quadratura del cerchio, ad oggi non è ancora stata trovata.

Le certezze sono solo due. La prima - evidente a tutti - è che la posta in palio è altissima: nelle disponibilità del Cavaliere, oltre alle ville sparse per il mondo, ci sono 3 miliardi di euro in azioni Mediaset, Mondadori e Mediolanum, 4 tra liquidità e riserve in Fininvest e qualche spicciolo - 752 milioni - parcheggiato nelle holding personali. La seconda certezza è che qualunque cosa succeda nessuno finirà sul lastrico. Una prima fettina del tesoro di famiglia, infatti, è stata già distribuita nel 2005 quando Berlusconi, per questioni di equità, ha aperto il capitale Fininvest ai tre figli di Veronica che sono andati ad affiancare nell'azionariato del Biscione Marina e Piersilvio con una quota del 7% a testa. Tutti così, un dividendo dopo l'altro, sono già riusciti a mettere da parte un piccolo tesoretto personale: Barbara e i fratelli hanno accumulato 315 milioni di disponibilità liquide. Marina ne ha in cassa un'ottantina. Piersilvio, più parsimonioso, ha sul conto in banca più o meno 200 milioni.

Il problema è cosa succederà ora. I soldi, va detto, non sono tutto. Anche se sulla spartizione dell'impero berlusconiano Silvio - che vuol dividerlo a metà: il 50% a Marina e Piersilvio e il 50% agli altri - e Veronica - che spinge per distribuire il 20% a testa, regalando il controllo ai propri figli - hanno idee diverse e poco conciliabili. La vera bomba ad orologeria che spiega forse il nervosismo di questi mesi è però un'altra: i piccoli Berlusconi crescono. I 18 anni li hanno passati da parecchio (senza il padre alla festa di compleanno, ha fatto sapere Veronica). E più che denaro si preparano a chiedere un posto nelle aziende di famiglia.

Su questo fronte la situazione è un po' più complessa. Marina in Mondadori e Piersilvio in Mediaset - dopo essersi fatti le ossa sotto le ali di Maurizio Costa e Fedele Confalonieri - sono oggi in pratica i capi delle due società. Difficile insomma trovare un posto al sole per altri. Non solo. Nelle loro rare esternazioni pubbliche, i tre fratelli minori hanno dimostrato, in merito, di aver già le idee chiare. E non sempre si tratta di concetti in linea con lo status quo di Arcore. "Fosse stato per noi, avremmo venduto da tempo le tv di casa a Murdoch", hanno dichiarato nel 2004 Barbara (24 anni e autocandidata a un posto in Mondadori) ed Eleonora (22). Il ventenne Luigi, che pareva volersi occupare solo di Milan e fede ("ogni volta che lo cerco al telefono mi dicono di richiamare perché sta pregando", ha raccontato qualche anno fa il premier), ha iniziato a camminare con le sue gambe: studia alla Bocconi, gestisce i soldi delle sorelle, è entrato nel cda Mediolanum e - "per una questione di responsabilità", ha spiegato - ha già fatto sapere di voler lavorare nel gruppo.

Non solo: il suo primo investimento autonomo (5 milioni) l'ha fatto in un fondo della Sator di Matteo Arpe, l'ex ad di Capitalia uscito dalla banca romana dopo uno scontro al calor bianco con Cesare Geronzi. Peccato che il 73enne presidente di Mediobanca sia il banchiere di fiducia del padre e il regista dell'ingresso di Fininvest in Piazzetta Cuccia, il salotto buono da cui il premier può monitorare con discrezione dossier caldissimi come Rcs-Corriere della Sera, Telecom e Generali.

Mettere assieme tutti questi tasselli per i consiglieri del Cavaliere non sarà semplicissimo. Veronica, che con la sua Finanziaria Il Poggio controlla immobili a Milano, Bologna, Olbia, Londra e New York, pare sistemata. La differenza d'età tra i due figli maggiori e i tre minori, in teoria, potrebbe consentire di trovare spazio per tutti. In fondo quando Barbara avrà l'età che ha oggi Marina (42 anni), la sorella maggiore sarà una splendida sessantenne che a quel punto, forse, potrebbe lasciarle senza troppi rancori il timone della Mondadori.

Il presidente del Consiglio, scosso dalle fibrillazioni familiari di questi giorni, ci conta, nella speranza che alla fine tutti i pezzi del puzzle vadano a posto senza troppi drammi. Intanto, visto il gelo a Macherio, ha iniziato a mettere qualcosa da parte anche per sè. E a gennaio, alla faccia della crisi e dei guai dinastici, si è regalato dividendi per 169 milioni.


:eek: :D
 
Ve lo ricordate Willy il coyote, quando cerca di camminare sull'aria, essendosi trovato inopinatamente sospeso al di la dell'orlo di un precipizio?
La situazione americana e, di conseguenza, anche la nostra, mi sembra alquanto simile. Il rallentamento della Crisi, il suo presunto alleggerimento o addirittura i pallidi segni di una più o meno lontana ripresa, a cui già numerosi esperti di nowcasting finanziario dicono di cominciare a credere, sono il risultato di un vertiginoso ed insostenibile indebitamento dello stato, frutto di un deficit gigantesco, che sta addirittura accellerando e che, già nelle probabilmente troppo rosee previsioni di Obama, non ha precedenti ne nella storia degli Stati Uniti ne in quella degli altri paesi occidentali ( eccettuati, naturalmente, i momenti di guerra e/o di default).
Non si tratta di catastrofismo, i numeri sono li per dircelo.
E' opportuno ricordarli, in modo che ciascuno possa trarre le sue personali conclusioni, magari ricordandosi che in Italia, dopo venti anni, stiamo ancora scontando un periodo di finanza pubblica allegra durato meno di dieci anni, comunque infinitamente meno sbilanciato rispetto ai livelli di deficit raggiunti dall'amministrazione Usa.
Partiamo da dieci anni fa.
Dopo gli anni di finanza allegra Reaganiana (la tanto elogiata Reaganonimics) Clinton, complice un momento irripetibile dell'economia, riusci non solo a portare i bilanci in pareggio ma addirittura in surplus, cominciando cosi a ridurre il debito pubblico anche in termini nominali.
Nel 1998,si prevedeva, continuando sulla strada virtuosa intrapresa, di annullare il debito pubblico in poco più di dieci anni.

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Le cose, come è noto sono andate MOLTO differentemente.
La fine della bolla delle "dot companies", l'11 Settembre, le guerre e poi l'esplosione della bolla immobiliare, culminata con la crisi dei mutui subprime, hanno portato a raddoppiare il debito pubblico in meno di dieci anni. All'inizio in modo "controllato"

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Ma negli ultimi diciotto mesi in modo vertiginoso.
Facciamo un riassunto.
Nel 2000 siamo a quota 5.600 miliardi di dollari.
A fine 2005 il debito arriva a 8.000 miliardi di dollari.
A Gennaio 2008 il Debito tocca i 9.000 miliardi di dollari il 64 del PIL 2008.
A Settembre 2008 siamo a 10.000 miliardi di dollari . Il 67% del PIL.
A Marzo 2009 Siamo a 11.000 miliardi di dollari. Il 70% del PIL.
Il Debito attualmente previsto per la fine dell'anno 2009 è di 12600 miliardi di dollari ( ma con parecchie assunzioni decisamente ottimistiche, sia sul fronte delle entrate che su quelle delle uscite).
Quello che si prevede, quindi, nel migliore dei casi, è un aumento, se va MOLTO bene, del 26% del debito pubblico su base annua, 2009 su 2008, con un deficit di bilancio, per il 2009, di oltre il 25 % del PIL USA 2008. Probabilmente, vicino al 30% di quello del 2009.
Sono cifre senza precedenti, paragonabili, come avevo fatto presente, a quelle dell'Argentina del default, della Repubblica di Weimar, di uno degli stati coinvolti nella Seconda guerra mondiale.
Il piano di rientro prevede una traiettoria di ritorno ad una relativa normalità ( sempre con deficit di bilancio oltre il 3% del PIL) per il 2013, alla fine del mandato di Obama.
Tutto questo se non salta fuori niente di nuovo, se non ci sono altri clamorosi bailout per il sistema assicurativo e bancario, se la situazione internazionale non richiede nuovi interventi militari, se l'economia americana arresta rapidamente la sua discesa.
Anche cosi stando le cose, i 16.200 miliardi di dollari di debito, previsti per il 2013, saranno probabilmente superiori al 110% del Prodotto interno lordo, superando quindi anche il nostro tanto bistrattato 106%.
Con questo gli USA entreranno, ufficialmente, nel ben poco prestigioso club delle nazioni con le finanze pubbliche più dissestate.
In ogni caso gli spazi di manovra sono quasi finiti: o Willy riesce ad afferrarsi all'orlo del precipizio o la forza di gravità si incaricherà di ricordargli che l'aria non è in grado di sostenere un corpo con il suo peso specifico.

:eek: :D
 

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