L'omosessualità era comune tra i dotti buddhisti.
[1] I monasteri buddhisti sembrano anzi esser stati i primi centri di attività omosessuale nel Giappone antico
[4]: ciò sembra iniziare con la storia del grande eroe culturale
Kukai (774-835) noto dopo la sua morte come Kobo Daichi, fondatore della setta buddhista Shingon (una leggenda vorrebbe che sia stato addirittura lui ad aver inventato e fatto conoscere la pratica omosessuale).
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Quello che viene generalmente tramandato è che sia stato proprio lui ad introdurre il
nanshoku in Giappone, in seguito al suo ritorno dalla
Cina durante il periodo T'ang (
IX secolo). Tuttavia Kukai non affronta quest'argomento in nessuna delle sue opere maggiori. Va inoltre notato che qualsiasi attività sessuale (sia etero che omo, in egual misura) era esplicitamente vietata dal codice di disciplina monastica buddhista, il
Vinaya. Nonostante ciò non s'impedì al Monte Koya, sito del monastero di Kobo, di diventar sinonimo di "amore fra persone dello stesso sesso": sembra abbastanza chiaro che i primi gruppi noti ("ufficiali") di omosessuali in Giappone siano stati composti da monaci.
[5] Un vario numero di monaci sembra difatti aver interpretato la sua promessa o voto di castità come non riguardante (quindi non applicabile) i rapporti omo; questo fatto era sufficiente per imbastire storie o relazioni tra giovani monaci e accoliti, raccontati in opere letterarie conosciute col nome di
Chigo monogatari. I
Gesuiti riferirono terrorizzati della
sodomia che esisteva all'interno del clero buddhista.
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In campo militare
L'omosessualità era un modo onorevole di vivere tra i leader militari e/o religiosi del paese, ed era comune all'interno della cultura dei
samurai.
[1] Dagli ambienti religiosi dov'era situato originariamente, l'amore nei confronti d'un compagno dello stesso sesso si trasferì in ambito militare, nella classe guerriera dunque, ov'era consuetudine per un giovane samurai essere apprendista di vita d'un uomo più anziano ed esperto: il giovane sarebbe stato anche l'amante dell'uomo più grande per molti anni, fino alla conclusione del suo apprendistato.
[5] Questa pratica si definisce come
shudō, ed era una
tradizione tenuta in gran considerazione dalla casta guerriera.
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