Alla cortese attenzione di Tashtego

È la stessa ferita narcisistica che la bulimica mette in atto nel corpo, mostrando un’immagine spesso degradata di sé e degli spazi in cui vive, che possono essere riempiti di sporcizia, nella messa in atto di quell’immagine imperfetta che gli è tornata indietro nello “stadio dello specchio”. È quello che fa emergere la vergogna di quell’immagine, resa evidente dal crollo dell’Ideale. Per questo la bulimia è sentita come un sintomo egodistonico che il soggetto vuole eliminare, che non accetta, perché il vero Ideale è quello dell’anoressica, che però cede sotto la pressione del reale. Proprio per questo vissuto di colpa, molto spesso la bulimia si accompagna alla depressione.
 
Nella bulimia il super-io spinge al godimento, senza la Legge, senza limiti, in una fusione con l’Altro che porta a voler divorare sempre di più, alla ricerca della Cosa che identifica con l’oggetto. Anche in questo caso l’oggetto (a) è ritrovato, però stavolta nell’oggetto-cibo, che rappresenta il surrogato dell’amore della madre; con la sua distruzione tramite l’inglobamento ritrova la Cosa.
La bulimica non sceglie cosa mangiare ma subisce un imperativo a divorare tutto, indifferentemente, a mangiare “tutto il pane del mondo”, come dice Fabiola De Clercq.
Quando il controllo del corpo cede e trasgredisce all’imperativo di controllo, il godimento ha il sopravvento. Ma questo provoca l’affiorare delle angosce dell’immagine frammentata, emozione che può essere controllata solo con l’eliminazione del godimento, alla ricerca del controllo ormai perso
 
All’apparenza il disturbo alimentare, come dice la definizione stessa, sembra un problema col cibo, che occupa completamente la mente della persona e rischia di essere l’unico fattore che attira l’attenzione dell’Altro.
Abbiamo visto che il cibo, per il soggetto, rappresenta qualcosa che va ben al di là dell’oggetto in se stesso, il desiderio di apparire magra nasconde qualcosa di diverso dal voler apparire uguale alle modelle che appaiono sulle copertine dei giornali.
 
Questa è l’operazione che l’anoressica e la bulimica non riescono a fare, cioè a separarsi dalla madre e dall’oggetto di soddisfazione primaria.
 
Non riescono ad accettare la mancanza e la eliminano dalla dialettica con l’altro, richiudendosi in una spirale ripiegata su se stessa, in un rapporto con l’oggetto-cibo che va evitato nell’anoressia, mangiando il niente, o divorato e poi rigettato nella bulimia, mangiando il tutto che poi si rivela niente. Ma questo movimento, com’è evidente, esclude l’Altro del desiderio, in modo da tenere fuori la mancanza che sarebbe portatrice di castrazione, di perdita.
Questa difesa ostinata dell’unione con la Cosa porta il soggetto ad un godimento mortifero, difeso a volte fino alla morte.
 
Un approccio che si fermi al sintomo non offre la possibilità di accedere al soggetto diviso dell’inconscio, che è sommerso dal sintomo-segno congelato, in dialettica solo con se stesso.
Solo aprendo un varco in questa direzione c’è la possibilità per l’anoressica e la bulimica di dare un senso alla sofferenza che sta dietro a quello che si vede, di assumere la sua implicazione in quello che le accade.
Questo concede la possibilità di intraprendere un cammino di cura e di guarigione, molto difficile per com’è articolato il discorso anoressico-bulimico, ma che offre la possibilità di cominciare a desiderare, accettando di perdere qualcosa.
 
Il padre Concezio fu un maresciallo dei Carabinieri d'origine abruzzese trasferitosi in Istria negli anni trenta, dove risiedette e prestò servizio fino al termine della seconda guerra mondiale quando la regione venne occupata dalla Jugoslavia. Qui conobbe la futura moglie, Maria Zuccon, istriana del luogo. Negli anni della guerra la famiglia materna fu colpita da due tragici lutti: nel settembre del 1943 il nonno di Sergio, Giacomo Zuccon, fu sequestrato e gettato in una foiba da partigiani titini (i suoi resti verranno in seguito recuperati, assieme ad altri, nella foiba di Terli dai Vigili del Fuoco e riconosciuti dall'altra figlia Anna). Alcune settimane dopo, anche lo zio Giuseppe, fratello della madre, messosi alla ricerca del padre di cui non si avevano più notizie, cadde in un rastrellamento dei militari tedeschi che, scambiandolo per un partigiano o disertore, lo passarono per le armi.
A seguito di questi fatti e della seguente occupazione dell'intera regione da parte delle milizie iugoslave, i genitori di Sergio decisero di rifugiarsi presso i familiari del futuro marito a Chieti, dove subito dopo si sposano e dove nascerà nel 1952, Sergio. Quando Sergio aveva 14 anni, la famiglia Marchionne si sposta ancora, emigrando in Ontario, Canada, dove si era già stabilita, esule dall'Istria, Anna Zuccon, zia materna di Sergio.
Formazione universitaria

In Canada Sergio Marchionne si laurea in legge alla Osgoode Hall Law School of York University con il massimo dei voti, consegue presso la University of Windsor un Master in Business Administration (MBA). Presso l'Università di Toronto completa invece i suoi primi studi universitari in filosofia. Esercita quindi come commercialista, procuratore legale, avvocato ed esperto contabile diplomato.
 

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