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domenica 3 novembre 2024

Centro Studi Monetari: Proposta di legge sui biglietti di Stato



Leggi la Proposta di legge d'iniziativa del Centro Studi Monetari:

BIGLIETTI DI STATO A CORSO LEGALE


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giovedì 30 aprile 2015

Appello a Papa Francesco per una banca onesta (video)





Le slide della presentazione:






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lunedì 6 aprile 2015

TTIP, TPP e analoghe porcherie




TTIP e TPP: tutto il potere alle multinazionali

di Carlo Formenti

La pubblicazione di alcuni contenuti del trattato TPP (Trans Pacific Partnership), che vede impegnate da qualche anno dodici nazioni in negoziazioni segrete per definire un accordo su misure di liberalizzazione commerciale, ha provocato un duro dibattito negli Stati Uniti, contribuendo a ridimensionare ulteriormente, ove possibile, il consenso e la fiducia nei confronti del ruolo “progressista” del presidente Obama.
A rendere pubblico l’accordo ha provveduto il New York Times che è venuto in possesso dei relativi documenti grazie a Wikileaks. Se e quando l’accordo entrerà in vigore, spiega il giornale, le compagnie multinazionali operanti nell’America del Nord e del Sud, oltre che in Asia, potranno fare causa al governo degli Stati Uniti (come a quelli degli altri Paesi aderenti al trattato) per ottenere l’annullamento di quelle leggi nazionali e di quei regolamenti amministrativi regionali e locali che ritengono lesive delle loro “legittime aspettative di profitto”.
Adesso si capisce, commenta un lungo articolo dell’Huffington Post, perché l’amministrazione Obama, la quale preme per ottenere una corsia preferenziale per una rapida approvazione del trattato da parte di Senato e Camera dei Rappresentanti, ha fatto di tutto per mantenerne segrete le clausole.
Se il pubblico ne fosse stato a conoscenza, si sarebbe scatenata una furiosa reazione – come è infatti avvenuto negli ultimi giorni – da parte degli esponenti della sinistra Democratica, delle organizzazioni sindacali nonché delle associazioni ambientaliste e dei consumatori.
Il punto non è solo che l’accordo regala alle multinazionali l’opportunità di neutralizzare le decisioni democratiche degli stati aderenti al trattato in tema di diritti del lavoro, tutela ambientale e ogni altro “impedimento” che possa danneggiarne gli interessi. A colpire ancora di più è il fatto che i “tribunali” internazionali organizzati dalla Banca Mondiale e dall’Onu e chiamati a dirimere le eventuali controversie fra stati e imprese sarebbero formati da “esperti legali” che, nella maggior parte dei casi, svolgono già attività di consulenza per le stesse multinazionali, sollevando un clamoroso caso di conflitto di interessi.
Non basta: dalla trattativa sono stati esclusi tutti i soggetti (rappresentanti di lavoratori, consumatori e movimenti ambientalisti) che avrebbero potuto bilanciare gli interessi privati delle imprese con quelli del bene comune. Questo spiega perché è escluso a priori che davanti a quei tribunali possano essere sollevate questioni che riguardino diritti del lavoro e tutela ambientale, a meno che ciò non avvenga per iniziativa e con il consenso degli stati interessati (cioè gli stessi stati che hanno svenduto gli interessi dei cittadini a quelli del mercato!).
L’unica nota stonata, in questa meritevole campagna per difendere il potere decisionale delle istituzioni democratiche statunitensi dall’invadenza del mercato globale, sono i toni nazionalistici con cui si condanna la resa dello stato americano agli interessi delle imprese straniere. Stona perché il trattato regala analoghi poteri alle multinazionali americane nei confronti degli stati di altri paesi (discorso che ci tocca da vicino, visto che il TTIP, il trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti che dovrebbe essere siglato fra Stati Uniti e la Ue e i cui negoziati procedono con la stessa opacità con cui sono stati condotti quelli per il TPP, avrebbe analoghi effetti).
Questo riflesso nazionalistico rispecchia l’illusione di poter ancora rivendicare i privilegi “imperiali” del popolo americano nei confronti del resto del mondo: più diritti, più libertà e più reddito pagati dall’altrui oppressione e povertà. Ma oggi quei privilegi imperiali spettano solo alle multinazionali (americane e non) e vengono pagati da tutti i popoli del mondo (ivi compreso quello americano). Prima se ne renderanno conto meglio sarà ai fini di una lotta comune contro TTIP, TPP e analoghe porcherie.

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TTIP, TPP e analoghe porcherie




TTIP e TPP: tutto il potere alle multinazionali

di Carlo Formenti

La pubblicazione di alcuni contenuti del trattato TPP (Trans Pacific Partnership), che vede impegnate da qualche anno dodici nazioni in negoziazioni segrete per definire un accordo su misure di liberalizzazione commerciale, ha provocato un duro dibattito negli Stati Uniti, contribuendo a ridimensionare ulteriormente, ove possibile, il consenso e la fiducia nei confronti del ruolo “progressista” del presidente Obama.
A rendere pubblico l’accordo ha provveduto il New York Times che è venuto in possesso dei relativi documenti grazie a Wikileaks. Se e quando l’accordo entrerà in vigore, spiega il giornale, le compagnie multinazionali operanti nell’America del Nord e del Sud, oltre che in Asia, potranno fare causa al governo degli Stati Uniti (come a quelli degli altri Paesi aderenti al trattato) per ottenere l’annullamento di quelle leggi nazionali e di quei regolamenti amministrativi regionali e locali che ritengono lesive delle loro “legittime aspettative di profitto”.
Adesso si capisce, commenta un lungo articolo dell’Huffington Post, perché l’amministrazione Obama, la quale preme per ottenere una corsia preferenziale per una rapida approvazione del trattato da parte di Senato e Camera dei Rappresentanti, ha fatto di tutto per mantenerne segrete le clausole.
Se il pubblico ne fosse stato a conoscenza, si sarebbe scatenata una furiosa reazione – come è infatti avvenuto negli ultimi giorni – da parte degli esponenti della sinistra Democratica, delle organizzazioni sindacali nonché delle associazioni ambientaliste e dei consumatori.
Il punto non è solo che l’accordo regala alle multinazionali l’opportunità di neutralizzare le decisioni democratiche degli stati aderenti al trattato in tema di diritti del lavoro, tutela ambientale e ogni altro “impedimento” che possa danneggiarne gli interessi. A colpire ancora di più è il fatto che i “tribunali” internazionali organizzati dalla Banca Mondiale e dall’Onu e chiamati a dirimere le eventuali controversie fra stati e imprese sarebbero formati da “esperti legali” che, nella maggior parte dei casi, svolgono già attività di consulenza per le stesse multinazionali, sollevando un clamoroso caso di conflitto di interessi.
Non basta: dalla trattativa sono stati esclusi tutti i soggetti (rappresentanti di lavoratori, consumatori e movimenti ambientalisti) che avrebbero potuto bilanciare gli interessi privati delle imprese con quelli del bene comune. Questo spiega perché è escluso a priori che davanti a quei tribunali possano essere sollevate questioni che riguardino diritti del lavoro e tutela ambientale, a meno che ciò non avvenga per iniziativa e con il consenso degli stati interessati (cioè gli stessi stati che hanno svenduto gli interessi dei cittadini a quelli del mercato!).
L’unica nota stonata, in questa meritevole campagna per difendere il potere decisionale delle istituzioni democratiche statunitensi dall’invadenza del mercato globale, sono i toni nazionalistici con cui si condanna la resa dello stato americano agli interessi delle imprese straniere. Stona perché il trattato regala analoghi poteri alle multinazionali americane nei confronti degli stati di altri paesi (discorso che ci tocca da vicino, visto che il TTIP, il trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti che dovrebbe essere siglato fra Stati Uniti e la Ue e i cui negoziati procedono con la stessa opacità con cui sono stati condotti quelli per il TPP, avrebbe analoghi effetti).
Questo riflesso nazionalistico rispecchia l’illusione di poter ancora rivendicare i privilegi “imperiali” del popolo americano nei confronti del resto del mondo: più diritti, più libertà e più reddito pagati dall’altrui oppressione e povertà. Ma oggi quei privilegi imperiali spettano solo alle multinazionali (americane e non) e vengono pagati da tutti i popoli del mondo (ivi compreso quello americano). Prima se ne renderanno conto meglio sarà ai fini di una lotta comune contro TTIP, TPP e analoghe porcherie.

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sabato 4 aprile 2015

€xit e ridenominazione



Sabato 28 Marzo 2015 21:07

€xit e ridenominazione

di Gennaro Zezza

http://gennaro.zezza.it/?p=1583

Mi ha colpito un passaggio dell’intervento di Vincenzo Visco “Fuori dall’euro?”, pubblicato su Economia e politica come contributo al dibattito originato dall’articolo di Realfonzo e Viscione.
Sembra che Visco sia meglio informato (certamente meglio informato di me!) sugli accordi siglati dai nostri governi in sede internazionale. Riporta infatti che
nel 2012 in occasione della costituzione del ESM gli stati membri dell’eurogruppo hanno concordato che una eventuale trasformazione in altra valuta delle emissioni di titoli pubblici in euro di durata superiore ai 12 mesi, possa essere impedita da una minoranza di detentori pari al 25% dei sottoscrittori
Verificare questa affermazione non è affatto facile. Il testo del trattato che istituisce l’ESM dovrebbe essere disponibile qui
http://www.european-council.europa.eu/media/582311/05-tesm2.en12.pdf
come riportato nella pagina della Commissione Europea sull’argomento, ma il Consiglio Europeo ha pensato bene di spostarlo, e trovarlo tramite il loro motore di ricerca interno è un’impresa. Dalle scarne informazioni si desume che il Trattato che istituisce l’ESM, modificato nel 2012, ha richiesto ai governi di inserire delle clausole (CAC, Collective Action Clauses) nelle emissioni di tutti i titoli con scadenza superiore a 12 mesi, a partire dal 2013. Dei dettagli tecnici legali sono – ad esempio – qui: http://www.linklaters.com/pdfs/mkt/london/A14950441_0_11_120508_CAC_client_memo_MND.pdf
Queste CAC tutelano i creditori, stabiliscono le priorità su chi viene rimborsato per primo, ecc.
Non sono riuscito a verificare, in una mezza giornata di lavoro, se Visco abbia ragione, ma supponiamo che sia vero. La prima conseguenza è che, nella totale mancanza di informazione, i nostri governi continuano ad assegnare tutele e diritti ai creditori – soprattutto ai creditori esteri – a scapito dei diritti e delle tutele degli italiani.
Amici più esperti di me nel diritto internazionale mi dicono però che questi Trattati, qualora siano in contrasto con gli interessi nazionali, non verrebbero applicati. In ogni caso, aver sottoscritto queste clausole renderà più complesso il processo di eventuale uscita dall’euro.
Visco aggiunge anche
i 140 mld che la Banca d’Italia acquisterà con i finanziamenti QE da parte della BCE (…) saranno per definizione di diritto estero
Questa affermazione è senz’altro errata, perché la Banca d’Italia acquisterà i titoli sul mercato secondario, e quindi sotto legislazione italiana. Ci sono però delle clausole di compartecipazione al rischio nel caso di default, e presumo che una ridenominazione in “nuove lire” dei titoli sia assimilata ad un default. In ogni caso, sembra più credibile quanto discusso qui, dove si afferma che i titoli pubblici acquistati nel programma QE sarebbero “de facto” fuori dalla giurisdizione italiana.
Si veda anche questo documento della Banca d’Italia.
Ma allora, posto che il QE si tradurrà in una iniezione di liquidità per le banche italiane, che la utilizzeranno per acquistare attività finanziarie in giro per il mondo – e non certo per finanziare le PMI italiane – se il costo da pagare è trasformare debito pubblico italiano in debito estero, ne vale la pena?

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Conferenza a
 
domenica 3 novembre 2024



sabato 4 aprile 2015

€xit e ridenominazione



Sabato 28 Marzo 2015 21:07

€xit e ridenominazione

di Gennaro Zezza

http://gennaro.zezza.it/?p=1583

Mi ha colpito un passaggio dell’intervento di Vincenzo Visco “Fuori dall’euro?”, pubblicato su Economia e politica come contributo al dibattito originato dall’articolo di Realfonzo e Viscione.
Sembra che Visco sia meglio informato (certamente meglio informato di me!) sugli accordi siglati dai nostri governi in sede internazionale. Riporta infatti che
nel 2012 in occasione della costituzione del ESM gli stati membri dell’eurogruppo hanno concordato che una eventuale trasformazione in altra valuta delle emissioni di titoli pubblici in euro di durata superiore ai 12 mesi, possa essere impedita da una minoranza di detentori pari al 25% dei sottoscrittori
Verificare questa affermazione non è affatto facile. Il testo del trattato che istituisce l’ESM dovrebbe essere disponibile qui
http://www.european-council.europa.eu/media/582311/05-tesm2.en12.pdf
come riportato nella pagina della Commissione Europea sull’argomento, ma il Consiglio Europeo ha pensato bene di spostarlo, e trovarlo tramite il loro motore di ricerca interno è un’impresa. Dalle scarne informazioni si desume che il Trattato che istituisce l’ESM, modificato nel 2012, ha richiesto ai governi di inserire delle clausole (CAC, Collective Action Clauses) nelle emissioni di tutti i titoli con scadenza superiore a 12 mesi, a partire dal 2013. Dei dettagli tecnici legali sono – ad esempio – qui: http://www.linklaters.com/pdfs/mkt/london/A14950441_0_11_120508_CAC_client_memo_MND.pdf
Queste CAC tutelano i creditori, stabiliscono le priorità su chi viene rimborsato per primo, ecc.
Non sono riuscito a verificare, in una mezza giornata di lavoro, se Visco abbia ragione, ma supponiamo che sia vero. La prima conseguenza è che, nella totale mancanza di informazione, i nostri governi continuano ad assegnare tutele e diritti ai creditori – soprattutto ai creditori esteri – a scapito dei diritti e delle tutele degli italiani.
Amici più esperti di me nel diritto internazionale mi dicono però che questi Trattati, qualora siano in contrasto con gli interessi nazionali, non verrebbero applicati. In ogni caso, aver sottoscritto queste clausole renderà più complesso il processo di eventuale uscita dall’euro.
Visco aggiunge anche
i 140 mld che la Banca d’Italia acquisterà con i finanziamenti QE da parte della BCE (…) saranno per definizione di diritto estero
Questa affermazione è senz’altro errata, perché la Banca d’Italia acquisterà i titoli sul mercato secondario, e quindi sotto legislazione italiana. Ci sono però delle clausole di compartecipazione al rischio nel caso di default, e presumo che una ridenominazione in “nuove lire” dei titoli sia assimilata ad un default. In ogni caso, sembra più credibile quanto discusso qui, dove si afferma che i titoli pubblici acquistati nel programma QE sarebbero “de facto” fuori dalla giurisdizione italiana.
Si veda anche questo documento della Banca d’Italia.
Ma allora, posto che il QE si tradurrà in una iniezione di liquidità per le banche italiane, che la utilizzeranno per acquistare attività finanziarie in giro per il mondo – e non certo per finanziare le PMI italiane – se il costo da pagare è trasformare debito pubblico italiano in debito estero, ne vale la pena?

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Conferenza a
 
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EVANS-PRITCHARD: IL MALTRATTAMENTO DELLA GRECIA DA PARTE DELLA UE È UN REGALO ALLA RUSSIA DI PUTIN
Pubblicato su 11 Aprile 2015 da FRONTE DI LIBERAZIONE DAI BANCHIERI - CM in EUROPA
Ambrose Evans-Pritchard sul Telegraph commenta – con una certa preoccupazione per il futuro dell’Alleanza Atlantica e per quello che lui chiama il sistema di sicurezza occidentale – il progressivo avvicinamento tra Grecia e Russia, che non ha prodotto risultati eclatanti ma ha posto le premesse per una buona collaborazione futura compromettendo l’unità del fronte occidentale, mentre la Grecia si prepara probabilmente a un default verso la BCE. La responsabilità è tutta di un’Europa che, nata per essere un’unione fraterna, si sta facendo a pezzi da sola per il “vil denaro”.

di Ambrose Evans-Pritchard, 8 aprile 2015
L’Unione Europea ha servito a Vladimir Putin un irresistibile premio strategico su un piatto d’argento.
Insistendo rigidamente sul fatto che il governo greco di sinistra radicale deve ripudiare le sue promesse elettorali e sottomettersi al rituale di fedeltà – anche su richieste di poco peso economico o su cose che potrebbero apparire inopportune alla specifica antropologia di una società post-ottomana – ha spinto il premier greco tra le braccia di un Cremlino revanscista.
La visita di Alexis Tsipras a Mosca è stata un festival della fratellanza e della solidarietà. Questo mercoledì Tsipras ha deposto una corona di fiori sulla tomba del Milite Ignoto, e ha parlato della lotta congiunta contro il Fascismo e contro un nemico non meglio specificato. Lo squallido tema del denaro, ovviamente, è stato evitato. “La Grecia non è un mendicante“, ha detto.
La visita non avrebbe potuto avvenire in un momento migliore“, ha detto Putin, facendo le fusa come un gatto che ha mangiato il topo.
Le sanzioni dell’UE contro la Russia termineranno a giugno, a meno che tutti i 28 paesi non siano d’accordo a rinnovarle, ma Tsipras ha già segnalato qual’è la sua intenzione. “Dobbiamo lasciarci alle spalle questo circolo vizioso” ha detto.
E ha aggiunto, per togliere ogni dubbio: “La Grecia è un paese sovrano che ha l’indiscutibile diritto di mettere in campo una politica estera propria e di svolgere il proprio ruolo geopolitico“.
Un veto greco alle sanzioni incoraggerebbe l’ungherese Viktor Orban ad unirsi alla rivolta, questa volta apertamente. Il suo paese si è già assicurato una linea di credito da 10 miliardi di euro dalla Russia, finalizzata ad ampliare le sue centrali nucleari, con un accordo che è stato descritto come un “acquisto di influenza politica” da un importante commentatore.
La Slovacchia si sta silenziosamente allontanando da quello che una volta era un fronte unito (pur con qualche insofferenza) della UE, che faceva da deterrente per un intervento del Cremlino in Ucraina. I numeri sono importanti in questa costellazione che si sta evolvendo, che gli avversari di Putin chiamerebbero la “quinta colonna” interna all’UE. Bruxelles può metterne in ginocchio uno, ma non un intero manipolo di ribelli. Sta perdendo potere.
Non c’è bisogno di dire che un mancato rinnovo delle sanzioni in un momento in cui il Donbass è ancora sotto il controllo delle forze legate a Putin aprirebbe una spaccatura tra gli USA e l’Europa, che toglierebbe ulteriore linfa vitale all’Alleanza Atlantica e a ciò che rimane della struttura di sicurezza occidentale. Ma non è finita qui.
Il progetto UE si sta indebolendo ad est. Pensavamo di sapere dove stavamo andando quando è stata presa la decisione finale nel giugno 2003 – curiosamente proprio ad Atene – di ammettere gli ex paesi satelliti del blocco sovietico, che chiedevano tutti a gran voce di unirsi a quello che sembrava essere un club illuminato di democrazie sotto il principio di legalità.
Ero là per il Telegraph quando Tony Blair, alla Stoa di Attalos, vicino alle colonne di Socrate e di Platone, esaltava la libertà “dalla dittatura e dalla repressione” che questi paesi avevano appena conquistato.
Ora a Budapest abbiamo un governo che si fa beffe della libertà di stampa e dell’indipendenza della magistratura, e ad Atene c’è un governo che sta difendendo disperatamente la propria democrazia contro la stessa UE. Putin deve solo lasciare tempo al tempo, finché il fianco sud-est dell’UE non andrà in pezzi.
Le potenze creditrici dell’Europa hanno avvertito la Grecia che non vogliono essere prese in giro, e di non provare a mettere Bruxelles contro Mosca, ma sembrano stranamente inconsapevoli del fatto che anche loro dovranno fare delle concessioni, se vogliono impedire che le cose vadano fuori controllo, tanto per loro quanto per la Grecia.
La loro reazione imperiosa invece è stata quella di rivolgere a Tsipras delle richieste stonate, ordinandogli di scaricare l’ala sinistra di Syriza e di formare una coalizione con gli screditati resti del vecchio regime – quella stessa oligarchia che ha depredato il paese.
Stanno cercando di negare i risultati delle nostre elezioni. È un evidente disprezzo del processo democratico, e produrrà forti reazioni“, ha detto Costas Lapavitsas, deputato di Syriza, e ha continuato: “Ogni volta che le potenze straniere cercano di intromettersi in questo modo, si arriva a dei risultati opposti. Tsipras sa che, se seguisse una strada così disastrosa, sarebbe la fine della sua carriera politica“.
Syriza ha imparato velocemente. Avevano ritenuto possibile formare un fronte comune insieme a Portogallo, Italia e Spagna contro il regime dell’austerità, e speravano che il leader socialista francese si sarebbe messo dalla loro parte nel consiglio europeo. “Hanno peccato di eccessivo ottimismo“, ha detto il prof. Jacques Sapir, della École des Hautes Études di Parigi.
Hanno scoperto invece che i governi conservatori di Spagna e Portogallo – definite da Tsipras “potenze dell’Asse” durante uno sfogo rivelatore – erano i loro più implacabili nemici, e per ovvi motivi. I leader spagnoli e portoghesi hanno legato il loro stesso futuro al rispetto dell’austerità, e se Syriza dovesse ottenere una qualsiasi concessione, dovrebbero entrambi vedersela con la minaccia populista a casa propria.
Sapir ha detto che Syriza ha fatto lo stesso errore dei bolscevichi nel 1917, che sognavano che il loro esempio avrebbe dato avvio ad una rivoluzione parallela in Germania. Quando non è avvenuto, la loro strategia è collassata, costringendoli a ripiegare nell’autarchia. Un’avvilita Syriza sembra sempre più riconciliata con l’idea di un’espulsione dall’unione monetaria, anche se ben consapevole che ciò potrebbe essere giustificato di fronte al popolo greco solo se avvenisse per costrizione.
Il governo greco ha capito che non potrà trovare alcun terreno comune con l’Eurogruppo e la Banca Centrale Europea, a meno di accettare una resa incondizionata“, ha affermato Sapir.
Un funzionario greco mi ha detto che Atene non sta nemmeno chiedendo del denaro alla Russia e alla Cina in questa fase, perché sarebbe inutile. Syriza sta già guardando oltre, sta cercando chi potrà aiutarla nella ricostruzione, dopo l’inevitabile default – che sia dentro l’unione monetaria, come essi sperano, o fuori, come temono.
La Russia non è abbastanza ricca per salvare la Grecia. È essa stessa in una profonda crisi – con una contrazione economica del 3% per quest’anno – e rischia una stagnazione in stile età sovietica se i prezzi del petrolio si fermano a 60 dollari al barile. La maggior parte dei suoi 360 miliardi di dollari di riserve estere servono a tappare i buchi e ad aiutare le aziende russe a rinnovare i loro debiti in valuta forte. Comunque non è ancora in bancarotta.
Putin ha detto di aver discusso “di cooperazione in diversi settori dell’economia, inclusa la possibilità di sviluppare importanti progetti energetici” piuttosto che di una qualche richiesta di aiuto. Così viene condotta la diplomazia, a questo livello.
La cartina di tornasole di ciò che sta davvero accadendo sarà vedere se la Russia comprerà i buoni del tesoro greci che verranno messi in vendita, alleviando così la pressione nel momento in cui la BCE ha detto alle banche greche di astenersene. Atene deve rinnovare 1,4 miliardi di euro il 14 aprile e un ulteriore miliardo il 17 aprile, e ciò può portare un certo stress. La Cina ha già comprato 100 milioni di euro di buoni del tesoro, come segno di sostegno morale.

Syriza ha abbastanza denaro per pagare i 458 milioni di euro che deve al Fondo Monetario Internazionale questo giovedì, ma questo la lascia a corto di soldi per pagare 1,7 miliardi di euro di pensioni e stipendi cinque giorni dopo. Hanno già raschiato il fondo del barile, sebbene qualche piccola somma possa forse essere recuperata dai fondi ospedalieri o facendo razzia dei conti correnti presso la banca centrale. Potremmo non sapere se Mosca ha offerto una qualche forma di prestito ponte – magari indirettamente – per coprire questo urgente ammanco di bilancio.
Le autorità dell’unione monetaria hanno fatto presente che potrebbero essere disposte a sborsare qualche fondo se il FMI verrà pagato, confermando così le sottigliezze formali della Troika EU-FMI. Ma come riportato dal Telegraph la scorsa settimana, Syriza teme una trappola. “Stanno cercando di metterci nella posizione in cui siamo costretti o a fare default verso il nostro stesso popolo, o a firmare un accordo che per noi sarebbe politicamente letale“, ha detto un funzionario.

La situazione era ormai così grave che il ministro delle finanze Yanis Varoufakis la domenica di Pasqua è volato a Washington per rompere l’impasse con Christine Lagarde del FMI. La Grecia ha accettato di rispettare il pagamento dovuto al FMI: il FMI in cambio ha accettato di mostrare “la massima flessibilità” sui piani di riforme di Syriza. Ciò appare come un impegno da parte del FMI che i greci non saranno lasciati a secco il prossimo 14 aprile.
Syriza ha saggiamente deciso che sarebbe pericoloso fare default col FMI, o anche solo lasciare degli arretrati. Nessun paese sviluppato è mai arrivato a questo. Il Peru di Alan Garcia – lo Tsipras del suo tempo – fece default negli anni ’80 e poi disse che era stato il peggiore errore mai compiuto.
Se devono fare default, dovrebbero piuttosto scegliere di mettersi contro i creditori dell’UE e soprattutto la BCE, il nemico numero uno che ha preso la decisione politica preventiva di togliere alle banche grece un’ancora di salvezza fondamentale proprio pochi giorni prima delle elezioni greche.
Guarda caso, la Grecia deve pagare alla BCE 194 milioni di euro di interessi il prossimo 17 aprile. Anche se la Grecia dovesse riuscire a raccattare abbastanza denaro per soddisfare le esigenze di rinnovo del debito per questa primavera, potrebbe non essere in grado di coprire i 6,7 miliardi di euro di rimborsi obbligazionari dovuti alla BCE per luglio e agosto, a meno che non ci sia un nuovo programma di salvataggio.
E Syriza non è disposta a pagare, dato che la BCE ha comprato questi bond nel 2010 per salvare le banche tedesche e francesi e per impedire una crisi bancaria che avrebbe coinvolto tutta l’unione monetaria, e non per aiutare la Grecia. Il parlamento greco non è stato mai consultato. E Syriza non vede nemmeno un grosso vantaggio a trascinare avanti l’agonia. “Se deve succedere, che senso ha aspettare?” ha detto un ministro.
Un ex funzionario della BCE ha detto che il timore è che la Grecia dia il calcio d’inizio dichiarando un default selettivo verso Francoforte, ritenendolo un bersaglio politico più facile. Ciò coprirebbe sia i titoli pubblici che gli 80 miliardi di passività verso il sistema dei pagamenti “Target2″ della BCE, passività che si sono accumulate automaticamente a causa della fuga di capitali.
Il punto cruciale è che le passività Target2 non sono coperte da alcun collaterale. I greci potrebbero semplicemente chiudere la Banca della Grecia un venerdì mattina, e creare una nuova banca centrale pronta per il lunedì mattina successivo. Non c’è corte di giustizia in Europa che possa costringere al pagamento una Banca della Grecia che non c’è più. Questa è la loro migliore possibilità di proteggere il popolo greco, ma non sarebbe molto carino verso la BCE”, ha detto.
Se Syriza farà saltare il sistema Target2, sarà un trauma per la BCE – e forse anche una ricapitalizzazione forzata a spese dei paesi membri – e darebbe inizio ad una tempesta politica in Germania.
Hans-Werner Sinn dell’IFO Institute ha da lungo tempo avvertito che la Germania e gli altri paesi creditori sono esposti per somme enormi tramite il sistema Target2, che non sono mai state riconosciute o approvate dal Bundestag. Le sue proteste hanno portato solo a delle risposte sprezzanti da parte della Bundesbank e delle autorità politiche.

Tuttavia, se queste esposizioni verso la Grecia si congelassero, non è affatto detto che il parlamento tedesco continuerà a permettere che il sistema Target2 faccia maturare perdite potenziali ancora più grosse verso il resto dell’Europa meridionale. Senza Target2, l’eurozona finirebbe di funzionare come unione monetaria.
Putin sarà certamente soddisfatto per aver ottenuto così tanto con così poco. Un quarto di secolo fa guardava con orrore l’Unione Sovietica avviarsi all’autodistruzione. Questa volta ha la soddisfazione di vedere i suoi nemici, molto più ricchi, farsi a pezzi da soli per il vil denaro.
Tratto da:Vocidallestero

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http://www.investireoggi.it//it.pin...emanò alcune direttive che uniformarono il...
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La crisi è finita? No, sta per esplodere...

Pubblicato su 12 Aprile 2015 da FRONTE DI LIBERAZIONE DAI BANCHIERI - CM in ECONOMIA
Mentre in molti continuano a raccontarci la favola della crescita che sta per ripartire, basta fare ancora “qualche piccolo sacrificio” - Renzi in Italia, Christine Lagarde per il Fmi – da qualche altra parte si vanno preparando per la prossima tempesta di dimensioni globali.
Non ne stanno parlando in qualche “pensatoio” senza responsabilità operative, ma ai vertici delle principali banche d'affari del pianeta. Strutture multinazionali per definizione, con terminali in ogni angolo del globo e analisti dedicati ad ogni area significativa di business.
A rompere il ghiaccio è stato Jamie Dimon, un paio di giorni fa. Di mestiere fa l'amministratore delegato di Jp Morgan, squalo della finanza secondo soltanto a Goldman Sachs, e in quanto tale ha inviato ai suoi soci la periodica lettera di informazioni in cui viene dipinto un quadro niente affatto roseo.
La tesi è semplice: una nuova crisi sta per abbattersi sui mercati finanziari. Nessun verbo al condizionale. L'unica incertezza è sul quando esploderà e a partire da quale punto. Sono domande centrali per uno che sposta quotidianamente denaro da una parte all'altra del globo – non deve farsi sorprendere nell'ora e nel posto sbagliato – ma assai meno pressanti per noi che non abbiamo un soldo.
A noi interessa soprattutto sapere che un'altra crisi finanziaria, di dimensioni superiori a quella del 2007-08 e con effetti deciamente più devastanti, si va “caricando” nelle viscere del sistema internazionale. E nessuna sa come tenerla sotto controllo.
Dimon impiega ben tre pagine del suo rapporto (poco meno del 10% del testo completo) a disegnare scenari plausibili, per consentire ai suoi soci di prendere decisioni razionali, tempestive, conservative. Due cose gli sembrano comunque certe; una fase caratterizzata da "mercati più volatili" e "un rapido deprezzamento delle valutazioni". Tempesta e grande velocità nell'accumulare perdite, se si sbagliano le mosse.
In fondo Dimon è solo il più “operativo” tra le cassandre che stanno vedendo crescere i segnali di tempesta. Lo scorso anno, un report dell'economista britannico George Magnus, analista della banca svizzera UBS e uno dei pochi ad aver previsto l'esplosione della bolla dei subprime. avvertiva che l'attuale calma sui mercati è la classica "quiete prima della tempesta". Proprio come quella che aveva preceduto il 2008.
Idem ha fatto, poco dopo, il francese Jacques Attali, sul settimanale L’Express, precedendo lo scoppio di una crisi finanziaria con conseguenze durissime soprattutto in Europa.

Stabilito che ci sarà da ballare, il ragionamento di Dimon e degli altri profeti di sventura passa ad esaminare chi è che ci rimetterà per primo – o con costi maggiori – la ghirba.
Rassicurando i soci, Dimon ha ricordato che la capacità di assorbire eventuali shock da parte delle banche è stata molto limitata dalle nuove regole su capitali e liquidità. In fondo sono state salvate dai governi, hanno i bilanci parzialmente ripuliti, hanno scaricato la maggior parte della zavorra alle banche centrali (prima alla Federal Reserve, ora anche alla Bce). Quindi non saranno le banche a essere travolte per prime, né a dare una mano per slavare il sistema.

Hedge fund e grandi gestori di fondi saranno invece costretti a intervenire e acquistare asset finanziari improbabili, ovviamente insieme ai governi nazionali. Uno schema solo in parte originale, anzi già collaudato, che alla fine scaricherà la gra parte dei costi direttamente sui risparmiatori (una volta come aderenti ai fondi di investimento, una volta come contribuenti degli stati nazionali (inevitabilmente costretti ad aumentare la tassazione per far quadrare i bilanci) e un'altra ancora come lavoratori dipendenti che perderanno il lavoro.
La cabala dei previsori indica però anche l'anno dell'esplosione: il 2015.


Attali, per esempio, segnala che negli ultimi trent'anni le crisi finanziarie gravi si sono ripetute ogni sette anni: 1987 (il Dow Jones perse il 22,6% in una sola giornata); 1994 (crisi della valute emegenti); 2001 (scoppio della bolla dot.com); 2008 (bolla dei subprime negli Usa). Il problema è che non sianìmo ancora usciti da quest'ultima e già ne sta arrivando un'altra. Non c'è stato insomma possibilità di mettere a posto i vari sistemi e sottosistemi sconquassati dalla crisi del 2008. Per dire: da allora l'Italia ha perso oltre il 12% del Pil, la Grecia quasi il 30, e nenache la Germania ha davvero recuperato il gap con la situazione del 2007.
Il vero elemento che preoccupa i “professionisti dei mercati” è esattamente quello che hanno preteso a gran voce da sette anni a questa parte: la “droga liquida” emessa con assoluta generosità dalle grandi banche centrali (Federal reserve su tutti). Un oceano di denaro che contnua a sgorgare da numerose sorgenti (Bce e Banca del Giappone, in questo momento) senza trovare da nessunaparte vere occasioni di valorizzazione. Ossia di profitto.
Questo oceano di denaro non ha avuto quasi nessun effetto sull'”economia reale”, sulla produzione o i servizi; se non quello, minore, di contenere i crolli di diversi settori. Soprattutto, però, quell'oceano di liquidità si è riversato sulle borse e sui “mercati paralleli”, quelli dove viaggiano prodotti “derivati” dal contenuto (o “sottostante”) irrintracciabile, oppure sulle quotazioni azionarie di borsa. In definitiva: quei prezzi delle azioni, oggi, sono gonfiati dalla droga e non corrispondono affatto – anzi! - alle condizioni di profittabilità delle aziende di cui portano il nome.
Questo fenomeno ha un nome: bolla. Ogni asset finanziario è sopravvalutato, costa troppo rispetto al suo (già incerto) valore. Facile dunque prevedere, per uno come Dimon, un botto fragoroso e velocissimo non appena la “bolla” incontrerà – come sempre avviene – il suo fatale spillo. Ossia l'occasione, magari minore e impensabile (com'è stato per i mutui subprime statunitensi), che fa saltare la catena di santantonio dei titoli finanziari. Con tutti che corrono a vendere e nessuno che si ferma a comprare. Noi consigliamo sempre di dare uno sguardo al film Margin call per farsi un'idea “da dentro” l'esplosione della bolla.
E sembra abbastanza credibile la previsione dell'Europa come epicentro dell'esplosione. In fondo è qui che la Bce sta cominciando a pompare liquidità – sostenendo i valori di borsa – proprio mentre la Federal Reserve Usa sta meditando di “tornare alla normalità”, rialzando i tassi di interesse. Persino la querula regina delle riunioni del Fmi, Christine Lagarde, ha dovut ammettere che proprio in Europa il rischio è più alto per via, anche, di "crediti incagliati per 900 miliardi di euro, che stanno bloccando i canali del credito nell'Eurozona". Una cifra pari al 60% del Pil italiano, non un petardo.
C'è quindi chi azzarda anche la previsione del comparto che esploderà per primo:
Secondo la molti esperti, tra gli ultimi Lagarde, partirà dal mercato obbligazionario: ha superato i 100.000 miliardi di dollari (erano 70.000 miliardi nel 2007). Un mercato dalle dimensioni colossali, 50 volte il debito pubblico italiano, che sta consentendo alle grandi società statunitensi di scaricare il proprio debito in Europa, dove il costo del denaro è più basso. La prossima bolla a esplodere sarà quella dei bond.
Titoli di stato, ovvero debito pubblico, cioé il canale di scambio tra capitale multinazionale finanziario privato e possibilità di rifinanziamento del debito pubblico degli Stati. Vien quasi da ridere pensando con quale seriosità, per esempio, Schaeuble e Merkel continuano a bacchettare la Grecia mentre sotto le loro auguste poltrone è caricata una bomba nucleare da 100.000 miliardi...
Tratto da:InvestireOggi - La guida agli investimenti finanziari e di Borsa
 
Dal ducato... all'euro: riflessioni sul sistema monetario delle Due Sicilie
Pubblicato su 12 Aprile 2015 da FRONTE DI LIBERAZIONE DAI BANCHIERI - CM in IPHARRA
[FONT=timesnewroman,times,serif]Il sistema monetario del Regno delle Due Sicilie[FONT=timesnewroman,times,serif]. A seguito della unificazione dei Regni di Napoli e di Sicilia nel Regno delle Due Sicilie, Ferdinando I di Borbone, con la legge del 20 aprile 1818 nr. 1176, emanò alcune direttive che uniformarono il sistema monetario nei territori continentale ed insulare dello Stato.[/FONT][FONT=timesnewroman,times,serif] La normativa in questione apportò le necessarie modifiche per ottenere una monetazione decimale e, nel contempo, soppresse il rapporto legale di cambio fra le monete coniate nei tre metalli (oro, argento e rame), imperniando l’intero sistema su di un monometallismo argenteo puro. Tale riforma fu definita da Lorenzo Bianchini, [/FONT][FONT=timesnewroman,times,serif] [/FONT][/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]nella sua «Storia delle Finanze del regno di Napoli», come «la prima migliore legge che su tale obbietto si facesse in Europa, talché venne ovunque lodata ed in vari Stati imitata».
[FONT=timesnewroman,times,serif]Puntualizziamo subito un aspetto importantissimo.[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]Nel Regno delle Due Sicilie non circolavano banconote, cioè quella carta-moneta stampata ed emessa da una Banca Centrale privata (come all’epoca già avveniva nell’indebitato e fallimentare Regno di Piemonte e come avviene oggi in Italia – e non solo in Italia – con la conseguente illecita cessione della Sovranità Monetaria popolare, da parte degli Stati, a dei soggetti privati), bensì solo monete metalliche aventi un proprio valore intrinseco, il cui conio e la cui emissione venivano curate esclusivamente dalla Reale Zecca dello Stato borbonico.[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]L’unica eccezione era costituita dalle cc.dd. Fedi (o Polizzini) di Credito, documenti cartacei utilizzati in particolare per le grosse transazioni. La «Fede di Credito» era un titolo nominativo, rilasciato dai Banchi «pubblici» delle Due Sicilie (Banco di Napoli e Banco di Sicilia), pagabile a vista presso qualunque filiale del Banco, emesso a madre e figlia. Aveva la struttura del vaglia cambiario ordinario ed attestava l’avvenuto deposito di numerario da parte di enti o di privati.[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]La Fede di Credito circolava mediante «girata» e la particolarità di questo titolo risiedeva nel fatto che il girante poteva anche indicare la «causale» del pagamento (ad es. una fornitura di merci) e le «condizioni» alle quali il pagamento era subordinato. In tal caso, la condizione sospendeva il pagamento da parte del Banco, finché non fosse stato dimostrato il suo adempimento. Nessun interesse veniva pagato sulle somme depositate, né alcuna imposta di bollo era dovuta allo Stato (come, purtroppo, avviene oggigiorno in Italia) per l’emissione dello stesso titolo.[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]All’atto della riscossione di una Fede di Credito veniva seguita una rigorosa procedura che poneva il debitore, il creditore e l’istituto bancario al riparo da frodi di sorta, garantendo in toto la legittimità, la correttezza e la regolarità contabile dell’operazione. A tal fine, il cliente doveva presentarsi all'ufficio ruota con la fede sottoscritta. L'ufficiale addetto alla pandetta (grande rubrica che conteneva i nomi di tutti i clienti, con il numero dei fogli del libro maggiore ove erano accesi i conti) cercava il numero del conto del cliente in questo libro (la c.d. pandetta) e lo trascriveva sulla fede, che passava al pandettario, un impiegato, con funzioni notarili che, dopo aver verificato l'autenticità del titolo e l'adempimento delle eventuali condizioni, apponeva sulla Fede un «visto» e la inviava al libro maggiore. Qui, l’impiegato addetto verificava se sul conto del cliente c'era capienza (ossia credito) e addebitava il conto, scrivendo la parola «bona» sulla Fede, che tornava al pandettario. Qualora, nel corso dell’intera procedura, non fosse stata riscontrata alcuna irregolarità, il pandettario vi riportava la dizione: «pagate ducati ________», la datava e la consegnava al portiere della ruota che la portava al cassiere. Infine, quest’ultimo pagava, tracciava sulla fede due freghi, vi annotava la somma pagata ed infilzava il documento in uno spago con punteruolo.[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]Grazie a questa rigorosa procedura, fu smascherata la falsità della Fede di Credito (il cui importo originario di 14 ducati era stato alterato nella cifra e modificato in 14.000 ducati) esibita, per la riscossione presso il Banco di Napoli, dal generale Francesco Landi e che lo stesso ufficiale borbonico aveva ricevuto da Giuseppe Garibaldi quale prezzo del suo tradimento nella battaglia di Calatafimi.[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]A parte la descritta eccezione delle Fedi di Credito, per i nostri antenati, tanto l’uso della moneta cartacea, quanto il fatto che le banconote potessero venire stampate ed emesse da una banca privata, nonché da questa prestate allo Stato (peraltro gravate da interessi annui), sarebbero stati un qualcosa di assolutamente inconcepibile. Infatti, fra il denaro che circolava nel Regno delle Due Sicilie e le banconote attualmente circolanti in Italia (e nell’eurozona), la differenza non è solo formale (metallo da un lato e carta filigranata dall’altro), bensì principalmente sostanziale. Innanzitutto perché, mentre una moneta in lega pregiata (ad es. in oro con titolo 996 millesimi) possedeva un «valore intrinseco» pressoché corrispondente al «valore nominale» della divisa medesima, un biglietto cartaceo, a fronte di un costo di produzione veramente irrisorio (una qualsiasi banconota costa, alla Banca di emissione, appena 30 centesimi di euro), reca stampigliato un truffaldino valore facciale! Si consideri inoltre che, mentre nel Regno delle Due Sicilie il possessore, ad esempio, di una moneta da 30 ducati ne era al tempo stesso «proprietario» e, pertanto, era esente dal dover pagare un qualsivoglia «interesse per l’uso» (da qui deriva etimologicamente il vocabolo «usura») della medesima moneta, oggi chi possiede una banconota, ad esempio, da 500 euro è, ipso facto, «debitore» della stessa verso la Banca di emissione (B.C.E.), nonché destinatario di tutte le conseguenze che un debito comporta.[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]Sono questi i motivi per cui i nostri bisnonni avrebbero considerato la c.d. «moneta-debito» una vera e propria assurdità, una colossale truffa, una cosa per gli imbecilli![/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]A quei tempi, la moneta più solida d’Italia era quella borbonica. Essa veniva coniata, prima che intervenisse la menzionata riforma ferdinandea, nei pezzi aurei da 3 - 4 - 6 - 15 e 30 ducati; in seguito, come si vedrà, furono emesse solo le divise da 3 - 15 e 30 ducati.[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]Il ducato era suddiviso in 10 carlini ed, a sua volta, il carlino equivaleva a 10 grani. [/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]Il carlino, che deve il suo nome al re Carlo I d'Angiò, era una moneta che veniva coniata a Napoli, sia in argento che in oro, fin dal 1278. In epoca borbonica era d’argento e costituiva la decima parte di un ducato napoletano, ovverosia il decuplo del grano.[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]Il grano (detto anche soldo) era una moneta d'argento nata in epoca aragonese e, fino al 1814, si divideva in 12 cavalli o in 2 tornesi. Nel 1814 fu introdotta la divisione in10 cavalli.[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]Il cavallo (o callo) era una moneta coniata in rame dal 1472 al 1815 (quando fu sostituito dal tornese); essa era la dodicesima parte di un grano napoletano, ma come già detto, dal 1814 essa passò, invece, a rappresentarne la decima parte. Il tornese, quindi, assunse il valore di 5 cavalli.[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]Oltre al grano, venivano coniati in rame il ½ grano, detto anche tornese, il 2 grani e ½, detto cinquina, nonché il 5 grani, coniato sia in rame che in argento. Sotto il profilo lessicale, come plurale di grano era indifferentemente usato anche il termine grana.[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]Lo Statuto monetario di Ferdinando I, in particolare, decretò quanto segue: «Premettendo che la moneta costituisce la misura dei prezzi relativi ad ogni contrattazione, si stabilisce che un solo metallo debba costituire materia per il conio delle monete e si determina che la moneta unitaria, a cui i prezzi ed ogni valutazione debbono riportarsi in numerario, sia il “Ducato”, un pezzo in argento di 515 acini napoletani, cioè pari a grammi 22 e 943 millesimi, coniato con una lega di 833 e ½ di millesimo di argento puro e 166 e 2/5 di millesimo di lega. Quindi, il Ducato ha 5/6 di argento puro ed 1/6 di lega. Il Ducato verrà diviso in cento centesimi o grani per i Napoletani e baiocchi per i Siciliani. Il centesimo, a sua volta, verrà diviso in decimi, chiamati a Napoli calli o cavalli e piccioli in Sicilia. Ciascun grano sarà coniato in rame del peso di 140 acini, vale a dire grammi 6,237, stabilendosi che tali monete in rame saranno adoperate, come moneta di scambio, nelle piccole contrattazioni e che, comunque, il valore del suo numerario verrà garantito dallo Stato. In oro saranno coniate le oncette del peso di grammi 3,786, alle quali sarà assegnato un valore corrente di tre Ducati; le doppie, pari a grammi 18,933, per un valore corrente di quindici Ducati; le decuple, del peso di grammi 37,867, valevoli trenta Ducati».[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]La nuova monetazione venne, quindi, così articolata:[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]1 ducato = 10 carlini = 100 grani (a Napoli) o baiocchi (in Sicilia).[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]1 grano = 2 tornesi = 10 cavalli (a Napoli) o piccioli (in Sicilia)[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]In Sicilia, oltre al grano di Napoli, anche la moneta estera in genere era chiamata baiocco e, quindi, il ducato napoletano era pari a 100 baiocchi. Sempre nell’Isola, erano poi necessari 3 ducati napoletani per fare un’onza siciliana (1 onza = 30 tarì di Sicilia), che era quindi la moneta avente il più alto valore unitario nell’intero Regno.[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]Tuttavia, al fine di evitare errori contabili nella Pubblica Amministrazione, con decreto nr. 1908 del 6 marzo 1820, entrato in vigore il 1° gennaio 1821, il sistema monetario venne definitivamente unificato in tutti i territori del Regno delle Due Sicilie, con l’abolizione della monetazione siciliana in onze e tarì.[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]Le monete venivano coniate in oro, argento e rame presso la Regia Zecca a S. Agostino Maggiore (Napoli).[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]Oltre al conio delle tre monete auree da 3 - 15 e 30 ducati, ricordiamo anche quello delle monete d’argento da 10 (chiamata anche carlino) - 20 (chiamata anche tarì di Napoli) - 60 (chiamata anche ½ piastra) e 120 (chiamata anche piastra) grani, nonché quello delle monete di rame da ½ - 1 - 1 e ½ - 2 - 3 - 5 e 10 tornesi. Per la Sicilia venivano coniate anche le monete di rame da ½ - 1 - 2 - 5 e 10 grani.[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]Rapportato alla valuta odierna, si stima che 1 ducato napoletano avesse il potere di acquisto di circa 50 euro (in base alle quotazioni mantenute dall’oro negli ultimi tempi: es. nel maggio 2012 l’oro nuovo costava circa 40 euro al grammo, la moneta aurea da 30 ducati - 37,867 grammi di oro con titolo millesimi 996 - aveva un valore intrinseco di circa 1.500 euro; pertanto, possiamo ritenere che 1 ducato del Regno delle Due Sicilie avesse il potere d’acquisto di circa 50 euro attuali), mentre il corrispondente valore approssimativo in euro delle altre monete borboniche lo si può evincere dalla seguente tabella sinottica.[/FONT]

[FONT=timesnewroman,times,serif]1 Ducato = 50,00 €[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]1 Carlino = 5,00 €[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]1 Grano = 0,50 €[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]1 Tornese = 0,25 €[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]1 Cavallo = 0,05 €[/FONT]

[FONT=timesnewroman,times,serif]I valori in tabella (riferiti all’anno 2012) sono da ritenersi abbastanza congrui rispetto a quelli delle attuali monete metalliche, anche in considerazione del fatto che, oramai, il pezzo di minor valore attualmente in circolazione è rimasto quello da 5 centesimi di euro, essendo quasi del tutto inutilizzati i pezzi da 1 e da 2 centesimi; peraltro, queste ultime due monetine non vengono nemmeno più coniate, poiché i relativi costi di produzione ed emissione sono superiori, fino a quattro volte, al valore facciale delle stesse, determinando il c.d. «signoraggio negativo» per lo Stato.[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]In epoca borbonica, era previsto che la Zecca di Napoli potesse coniare monete sia per conto di privati che di Stati esteri, previa fornitura da parte di questi di verghe d’argento puro, convertite poi in monete aventi la caratteristica prevista dalla legge monetaria. Nel 1851 affluì presso la Zecca di Napoli una enorme quantità di verghe d’argento per la coniazione di monete estere, i cui Stati si servivano dei torchi napoletani, data la loro pregevolissima fattura. I nostri maestri incisori erano così rinomati in Europa, per la bellezza delle realizzazioni, che i saggi di conio (prototipi di nuove monete) dell’istituto d’emissione inglese venivano spesso inviati a Napoli per un parere tecnico. La moneta napoletana divenne richiestissima su tutti i mercati d’Europa, essendo ritenuta molto pregiata negli scambi internazionali, per cui fu necessario accelerarne la produzione della divisa. Se fino al 1851 la produzione monetaria annuale della Zecca napoletana si era aggirata intorno al milione di ducati, nel 1852 essa salì alla cifra iperbolica di 32.380.775 ducati, concretando un notevole guadagno per la Zecca che, naturalmente, aveva dovuto provvedere anche all’incremento dei posti di lavoro. Grazie a ciò, aumentò la circolazione monetaria, i prezzi di mercato subirono un rialzo e calarono gli interessi; aumentò la proprietà privata (il danaro fu investito in immobili, poiché era diventato più semplice ottenere prestiti bancari a bassissimo interesse) ed accrebbero le attività industriali, col conseguente aumento dei posti di lavoro anche in quest’ultimo settore.[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]Inoltre, grazie agli altri numerosissimi suoi primati (cfr. Gennaro De Crescenzo, «Le Industrie del Regno di Napoli», Grimaldi & C. Editori, Napoli, 2012 - v. elenco di 50 primati in appendice; nonché: http://www.realcasadiborbone.it/ita/archiviostorico/primati_01.htm), il Regno delle Due Sicilie si collocò fra le più grandi Potenze europee dell’Ottocento.[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]Nel Regno delle Due Sicilie il costo della vita era più basso rispetto a quello degli altri Stati preunitari e lo si può dimostrare paragonando i salari, che pure non erano certo elevati, con il costo dei generi di prima necessità. La giornata lavorativa di un contadino era pagata 15 ÷ 20 grani (7,50 ÷ 10 €), quella degli operai generici dai 20 ai 40 grani (10,00 ÷ 20,00 €), 55 grani (27,50 €) per quelli specializzati; 80 grani (40,00 €) spettavano ai maestri d’opera; a tali retribuzioni veniva aggiunto un soprassoldo giornaliero di 10 ÷ 15 grani (5,00 ÷ 7,50) per il vitto; un impiegato statale percepiva 15 ducati (750 €) al mese, un tenente di fanteria 23 ducati (1.150 €), un colonnello di fanteria 105 ducati (5.250). È bene sapere che si trattava di retribuzioni nette, poiché nel Regno non esisteva alcuna imposta sul reddito delle persone fisiche. Di contro, un rotolo di pane (890 grammi) costava 6 grani (3,00 €), un equivalente di maccheroni 8 (4,00 €) grani, di carne bovina 16 grani (8,00 €); un litro di vino 3 grani (1,50 €), tre pizze 2 grani (1,00 €).[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]Presso le Seterie di San Leucio, una famiglia (in seno alla quale, oltre ai genitori, lavorasse anche qualche figlio adulto che fosse un buon artiere) poteva giungere a percepire un reddito netto fra i 10 ed i 12 carlini al giorno (50 ÷ 60 € giornalieri), garantendo alla famiglia stessa un potere di acquisto fino agli attuali 1.250 ÷ 1.500 € mensili.[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]Al momento dell’unità d’Italia, la ricchezza dello Stato meridionale, costituita dai depositi aurei esistenti presso le banche delle Due Sicilie, era di poco inferiore al mezzo miliardo di lire-oro ed in quantità doppia rispetto a quella di tutti gli altri Stati italiani messi assieme (cfr. Francesco Saverio Nitti, uomo politico ed economista liberale, nonché Presidente del Consiglio del Regno d’Italia dal 23 giugno 1919 al 15 giugno 1920, Scienze delle Finanze”, Pierro Editore, 1903, pag. 292). A questo si aggiungeva la solidità della stessa moneta circolante, tutta in metallo pregiato (niente carta) che, per il suo valore intrinseco, non si era mai svalutata (quindi, l’inflazione era un fenomeno sconosciuto!) nei 126 anni in cui regnò la dinastia borbonica.[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]Dopo l’unificazione italiana, precisamente nel 1863, un testimone insospettabile, il capitano italo-piemontese conte Alessandro Bianco di Saint-Jorioz scriverà che: «...iI 1860 trovò questo popolo [delle Due Sicilie, n.d.r.] del 1859 vestito, calzato, industre, con riserve economiche. Il contadino possedeva una moneta. Egli comperava e vendeva animali; corrispondeva esattamente gli affitti; con poco alimentava la famiglia, tutti, in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato materiale». Questa è un’eloquente risposta ai tanti denigratori di professione e non, che per oltre 150 anni hanno descritto il Regno delle Due Sicilie come un paese retrogrado e chiuso ad ogni forma di progresso; costoro dovrebbero studiare per bene le leggi, i decreti ed i vari provvedimenti dei re Borbone, per capirne la ratio moderna e liberale e che, a parere di chi scrive, sono un valido esempio di buona amministrazione da imitare. La medesima cosa dovrebbero fare i nostri economisti, politici ed amministratori, locali e nazionali.[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]Al patrimonio dello Stato napoletano si aggiungeva poi il patrimonio privato, in denaro, ori e preziosi, della famiglia reale borbonica, fra le più ricche d’Europa, unica ad avere ben quattro Regge (Napoli, Capodimonte, Portici e Caserta); ed a queste ricchezze i re molto spesso attingevano per la realizzazione di opere pubbliche. Alla morte di Ferdinando II nel 1859, il patrimonio dei Borbone fu quantificato in 6.000.795 ducati, pari a circa 300 milioni di euro. Dopo l’arrivo degli invasori del nord, di tale denaro non si è saputo più nulla![/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]Bastarono, infatti, appena sessanta giorni di dittatura garibaldina per distruggere le floride finanze e l’economia del Paese; nel giro di due mesi, infatti, le casse dello Stato napoletano vennero vuotate. Mai nel corso della sua millenaria storia, l’Italia aveva «veduto ladrocini simili a quelli che si ebbero a Napoli durante il periodo garibaldino... Nella capitale del Sud l’eroe dei due mondi, o dei due milioni, trovò denaro in abbondanza, e lo usò in modo sconsiderato, mentre i suoi seguaci si appropriarono indebitamente delle consistenti ricchezze personali di Francesco II e della dote di Maria Sofia. [...] Furono rubati tutti denari depositati nelle banche, tutti i preziosi custoditi nei musei, le opere d’arte nei palazzi reali e nobiliari, le armi negli arsenali e finanche beni personali nelle private residenze di molti cittadini».[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]A quest’ultimo riguardo, ascoltiamo anche due incontrovertibili testimonianze: quella di Vittorio Emanuele II, il quale, subito dopo l’incontro di Teano, così scrisse a Cavour: «...come avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi, sebbene – siatene certo – questo personaggio non è affatto docile, né così onesto come lo si dipinge e come voi stesso ritenete. Il suo talento militare è molto modesto, come prova l’affare di Capua, e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il danaro dell’erario, è da attribuirsi interamente a lui che s’è circondato di canaglie, ne ha eseguito i cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese in una situazione spaventosa...»; e quella di Francesco Guglianetti, segretario generale presso il ministero dell’Interno piemontese, il quale, riferendosi ai garibaldini che avevano approfittato della situazione, scrisse a Farini di aver saputo «da persona autorevole che parecchi, partiti miserabili, sono ritornati colla camicia rossa e colle tasche piene di biglietti da mille lire».[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]Purtroppo, le prove documentali contabili di tutti quegli orrendi sperperi, di tutti i soldi rubati ai Borbone ed al popolo delle Due Sicilie, e poi scialacquati in modo vergognoso ed inetto, finirono nelle profondità del mare delle Bocche di Capri, insieme al piroscafo Ercole ed al povero, ma onesto, poeta ed amministratore dei «Mille», il colonnello garibaldino Ippolito Nievo. Si trattò del primo «delitto di stato» perpetrato nella nuova Italia risorta.[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]Ma questa è tutta un’altra storia.[/FONT]
[FONT=timesnewroman,times,serif]Ubaldo Sterlicchio[/FONT]
[/FONT]

[FONT=timesnewroman,times,serif]Tratto da: http://www.neoborbonici.it/[/FONT]

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Tratto da “La banca, la moneta e l’usura – La Costituzione tradita”, di Bruno Tarquini
[*], già Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello dell’Aquila (ed. Controcorrente, Napoli 2001)
“Le anomalie di un bilancio […] la Banca d’Italia, nei propri bilanci, iscrive tra le poste passive la moneta che immette in circolazione. Questo ritiene di poter fare in virtù di un mero gioco di parole, che si risolve in definitiva in una presa in giro del popolo, sfruttando in modo truffaldino la formula che ancora si trova scritta sulle banconote (“Lire centomila – pagabili a vista al portatore” – firmato “Il Governatore”) e che, oggi, non avrebbe più alcuna ragione di essere, perché non significa nulla [1].

Infatti si tratta di un’obbligazione che l’istituto bancario si assumeva nel passato (nel tempo, cioè, in cui vigeva la convertibilità del biglietto di banca in oro) di convertire appunto la carta moneta nel metallo prezioso che ne costituiva la garanzia (base aurea).

Nei tempi attuali, in cui quella convertibilità è stata abolita ed è stato imposto il corso forzoso della moneta cartacea, quella “promessa di pagamento a vista” ha perduto ogni contenuto e non può, quindi, avere alcun valore. Tuttavia la Banca d’Italia ritiene ancora di potersene avvalere, confidando che la mera apparenza, che ancor oggi conservano i biglietti di banca, di cambiali a vista, e quindi formalmente di debito, le possa consentire legittimamente di considerare la moneta immessa in circolazione come una propria passività da iscrivere in bilancio tra le poste passive. Ed è noto come l’aumento artificioso del passivo, in un bilancio societario, determini un illecito annullamento dell’attivo [2].

Quindi l’Istituto di Emissione immette in circolazione banconote che sono non solo prive di alcuna copertura (neanche parziale) o garanzia, ma anche strutturate come false cambiali, che da un lato offrono una parvenza di legalità alla loro iscrizione nel passivo dell’azienda, dall’altro costituiscono un “debito inesigibile”, come affermano le stesse autorità monetarie, inventando una fattispecie giuridica di cui facilmente si può misurare l’assurdità. A parte, infatti, che la inesigibilità non può che riguardare il credito (perché è questo che, caso mai, non può essere esatto), con la formula del “debitore inesigibile” si fa decidere allo stesso debitore di non pagare il debito.

Una cosa è dire che “il credito” è inesigibile perché il debitore non può pagare, altra cosa è invece dire che esso è inesigibile perché il debitore (la Banca Centrale) per legge ha la garanzia di non dover pagare.

Riassumendo, delle due l’una: o la Banca d’Italia non è proprietaria della moneta al momento dell’emissione (come hanno affermato i rappresentanti del governo rispondendo alle interrogazioni parlamentari) ed allora appare del tutto ingiustificato che ne tragga un utile, tanto più che la banca stessa assume di essere debitrice dei simboli monetari emessi, così da iscriverli come posta passiva nel proprio bilancio; oppure la Banca Centrale (contrariamente a quanto dichiarato dai due Sottosegretari di Stato) è proprietaria di quella moneta e con giustificazione (solo apparente) ne ritrae un utile dal suo prestito al sistema economico nazionale, ma allora assume i contorni di un fatto illecito far figurare come poste passive operazioni che sono invece indubbiamente attive.”
Note:

[*] Bruno Tarquini è nato ad Avezzano (L’Aquila) nel 1927. Laureatosi in giurisprudenza nel 1948 presso l’Università di Roma, è entrato giovanissimo in magistratura, percorrendone tutti i gradi. è stato pretore a Roma e, dal 1955, al Tribunale di Teramo, prima come giudice, poi come presidente; nel 1986 è stato trasferito alla Corte d’Appello dell’Aquila, dove ha svolto le funzioni di presidente della sezione penale e della Corte d’Assise di secondo grado, infine, nel 1994, è stato nominato Procuratore Generale della Repubblica presso la stessa Corte d’Appello. Gli studi giuridici e l’attività professionale non gli hanno impedito di alimentare le sue curiosità intellettuali, con particolare riguardo alla storia.
[1] Provi il cittadino a presentarsi ad uno sportello qualsiasi della Banca d’Italia, esibisca una banconota contenente quella (ormai inutile) promessa di pagamento e chieda di essere “pagato a vista”. è probabile che venga preso per matto!
[2] Sarebbe di certo giuridicamente infondato sostenere la legittimità della indicazione nel passivo della moneta al momento della emissione (ed a maggior ragione durante la sua circolazione), facendo ricorso a quanto stabilisce l’art.2424 del codice civile, secondo il quale il bilancio delle società per azioni deve indicare nel passivo (tra l’altro) anche “il capitale sociale al suo valore nominale…”, poiché non vi è alcun dubbio che nella massa di moneta creata e messa in circolazione dalla Banca Centrale non può sicuramente identificarsi il capitale sottoscritto e depositato dagli azionisti (“partecipanti”), dei quali costituisce un credito e, quindi, per la società un debito. Quella moneta la stessa Banca d’Italia – come si dirà più oltre – la definisce “merce
 
USTICA E BOLOGNA: DUE STRAGI DI STATI ALLEATI





Kfir israeliano, simile al caccia precipitato sulla Sila il 27 giugno 1980, poi fatto sparire e sostituito con un Mig 23




di Gianni Lannes



Non si è trattato di incidenti, bensì di morti deliberate e strazianti. Ben 166 persone, tra adulti e bambini, compresi alcuni neonati. Senza annoverare i testimoni assassinati in seguito anche dal Sismi. Il nome del ministro Antonio Bisaglia vi dice niente? Questi due tragici eventi sono strettamente interconnessi. Anche in questo caso il sistema di potere occulto, non è riuscito a cancellare tutte le prove indicibili. Altro che Libia, Gheddafi e i Palestinesi (un comodo capro espiatorio). Nel corso dell'inchiesta giornalistica sono emersi, indizi, riscontri e prove sul nesso tra i due eccidi. Ad esempio, il 22 giugno 1993 il capo della Polizia Vincenzo Parisi, già direttore del Sisde dal 1984 al 1987, dichiara:



«In una mia audizione in questa sede e in un' audizione da parte del giudice Priore assistito dal pubblico ministero Salvi, da un punto di vista qualitativo non avevo escluso che l' episodio dell' abbattimento dell' aereo di Ustica potesse rappresentare un segnale non percepito. Quando i messaggi non sono percepiti vengono replicati e reiterati finché non si capisce. Quindi, quella del 2 agosto potrebbe essere stata una tragica replica stragista del 27 giugno».




vittime della strage di Bologna
La strage di Bologna, dopo il fallimento di quella compiuta a Milano il 30 luglio dello stesso anno, fu realizzata (simile a quella fallita della stazione di Verona nel 1970) per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalla strage di Ustica (con movente nucleare alla base) vale a dire per ritardare ed inquinare le indagini con i soliti depistaggi, e per depotenziare l’azione politica dell’opposizione comunista. Non a caso Cia e Mossad, con il favore del governo Cossiga (sostenitore dello scoppio accidentale di una caldaia) utilizzando il Sismi dei piduisti Santovito, Pazienza, Musumeci e Michael Leeden (attuale consulente internazionale di Matteo Renzi), nonché dello stesso Licio Gelli, affidarono il lavoro sporco alla manovalanza criminale italidiota, presto sgravata anche dagli ergastoli.


riferimenti:




http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/171013.pdf



https://www.senato.it/documenti/repository/leggi_e_documenti/raccoltenormative/30%20-%20stragi/AVVIO.pdf



http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/57861.pdf



http://legislature.camera.it/_dati/leg11/lavori/Bollet/40570_15.pdf

http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/search?q=USTICA

http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/search?q=BOLOGNA

http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/2015/04/nucleare-e-strage-di-ustica-le.html

http://sulatestagiannilannes.blogspot
 
Approvato il DEF di Renzi: +10mld Tasse nel 2015, +41 nel 2016 e +104 nel 2019
Pubblicato su 12 Aprile 2015 da FRONTE DI LIBERAZIONE DAI BANCHIERI - CM in ECONOMIA
E’ stato appena approvato il DEF di Renzi.

QUI lo trovate in versione PDF.

Qui sotto trovate alcuni estratti, con indicazione e calcolo di:

- Entrate Fiscali: salgono di 9,5 mld nel 2015, di 41,3 mld nel 2016, fino a quasi +105 mld nel 2019
- La Pressione Fiscale attualmente elevatissima, al 43,5% del PIL, salira’ in modo deciso nel 2016 al 44,1%
- Le Entrate Fiscali oggi al valore record del 48,1% saliranno al 48,5% nel 2016



Qui mostriamo meglio i calcoli:


Per la cronaca, le entrate fiscali sopra in aumento, si devono leggere unitamente al grafico sottostante che mostra l’aumento record delle Entrate (delle Tasse) negli ultimi 10 anni



Renzi ha dichiarato:

“Non ci sono nuove tasse. I sacrifici non li devono fare più i cittadini, piuttosto li faccia qualche politico o qualche amministratore”.



Vediamo se nel DEF non c’e’ realmente traccia di nuove tasse?

Ebbene il Ministero dell’Economia e delle Finanze nel DEF cui Renzi ha dato l’OK prevede:

- Un incremento delle Entrate fiscali e contributive di 9,5 mld nel 2015, di 41,3 mld nel 2016

- Ci spiega che l’effetto della Legge di Stabilita’ prevede interventi per maggiori entrate per 12,3 mld nel 2015, di 28,1 mld nel 2016

Ovviamente vi sono anche interventi per minori entrate, ma nel complesso hanno un “peso” inferiore alle nuove entrate (nel 2016 le “maggiori entrate” superano le “minori entrate” per 6,6 mld, e cio’ conferma la forte crescita nel 2016 delle entrate, nonche’ della pressione fiscale in rapporto al PIL).

Date uno sguardo a tutte le Maggiori Entrate nel DEF, elencate minuziosamente, che si sommano a quelle approvate l’anno scorso dal governo Renzi stesso. Tra l’altro e’ messo a bilancio anche un’incremento record dell’IVA e delle Accise.




Guardando al DEF viene spontaneo pensare che si basi su previsioni di andamento del PIL nominale quanto meno “ottimistiche”




L’ammontare assoluto delle entrate dello stato, dopo l’aumento record degli anni scorsi, prevede ulteriori aumenti signifivativi




Ma anche il peso delle Entrate fiscali sul PIL, aumentato negli ultimi 9 anni dal 43% al 48% (specialmente sotto i governi Prodi e Monti), e’ previsto aumentare ulteriormente al livello record del 48,5% nel 2016


GPG
GPG
Tratto da: http://scenarieconomici.it/approvato-il-def-di-renzi-10mld-tasse-nel-2015-41-nel-2016-e-104-nel-2019/



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