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Centro Studi Monetari: Proposta di legge sui biglietti di Stato
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giovedì 30 aprile 2015
Appello a Papa Francesco per una banca onesta (video)
Le slide della presentazione:
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lunedì 6 aprile 2015
TTIP, TPP e analoghe porcherie

TTIP e TPP: tutto il potere alle multinazionali
di Carlo Formenti
La pubblicazione di alcuni contenuti del trattato TPP (Trans Pacific Partnership), che vede impegnate da qualche anno dodici nazioni in negoziazioni segrete per definire un accordo su misure di liberalizzazione commerciale, ha provocato un duro dibattito negli Stati Uniti, contribuendo a ridimensionare ulteriormente, ove possibile, il consenso e la fiducia nei confronti del ruolo “progressista” del presidente Obama.
A rendere pubblico l’accordo ha provveduto il New York Times che è venuto in possesso dei relativi documenti grazie a Wikileaks. Se e quando l’accordo entrerà in vigore, spiega il giornale, le compagnie multinazionali operanti nell’America del Nord e del Sud, oltre che in Asia, potranno fare causa al governo degli Stati Uniti (come a quelli degli altri Paesi aderenti al trattato) per ottenere l’annullamento di quelle leggi nazionali e di quei regolamenti amministrativi regionali e locali che ritengono lesive delle loro “legittime aspettative di profitto”.
Adesso si capisce, commenta un lungo articolo dell’Huffington Post, perché l’amministrazione Obama, la quale preme per ottenere una corsia preferenziale per una rapida approvazione del trattato da parte di Senato e Camera dei Rappresentanti, ha fatto di tutto per mantenerne segrete le clausole.
Se il pubblico ne fosse stato a conoscenza, si sarebbe scatenata una furiosa reazione – come è infatti avvenuto negli ultimi giorni – da parte degli esponenti della sinistra Democratica, delle organizzazioni sindacali nonché delle associazioni ambientaliste e dei consumatori.
Il punto non è solo che l’accordo regala alle multinazionali l’opportunità di neutralizzare le decisioni democratiche degli stati aderenti al trattato in tema di diritti del lavoro, tutela ambientale e ogni altro “impedimento” che possa danneggiarne gli interessi. A colpire ancora di più è il fatto che i “tribunali” internazionali organizzati dalla Banca Mondiale e dall’Onu e chiamati a dirimere le eventuali controversie fra stati e imprese sarebbero formati da “esperti legali” che, nella maggior parte dei casi, svolgono già attività di consulenza per le stesse multinazionali, sollevando un clamoroso caso di conflitto di interessi.
Non basta: dalla trattativa sono stati esclusi tutti i soggetti (rappresentanti di lavoratori, consumatori e movimenti ambientalisti) che avrebbero potuto bilanciare gli interessi privati delle imprese con quelli del bene comune. Questo spiega perché è escluso a priori che davanti a quei tribunali possano essere sollevate questioni che riguardino diritti del lavoro e tutela ambientale, a meno che ciò non avvenga per iniziativa e con il consenso degli stati interessati (cioè gli stessi stati che hanno svenduto gli interessi dei cittadini a quelli del mercato!).
L’unica nota stonata, in questa meritevole campagna per difendere il potere decisionale delle istituzioni democratiche statunitensi dall’invadenza del mercato globale, sono i toni nazionalistici con cui si condanna la resa dello stato americano agli interessi delle imprese straniere. Stona perché il trattato regala analoghi poteri alle multinazionali americane nei confronti degli stati di altri paesi (discorso che ci tocca da vicino, visto che il TTIP, il trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti che dovrebbe essere siglato fra Stati Uniti e la Ue e i cui negoziati procedono con la stessa opacità con cui sono stati condotti quelli per il TPP, avrebbe analoghi effetti).
Questo riflesso nazionalistico rispecchia l’illusione di poter ancora rivendicare i privilegi “imperiali” del popolo americano nei confronti del resto del mondo: più diritti, più libertà e più reddito pagati dall’altrui oppressione e povertà. Ma oggi quei privilegi imperiali spettano solo alle multinazionali (americane e non) e vengono pagati da tutti i popoli del mondo (ivi compreso quello americano). Prima se ne renderanno conto meglio sarà ai fini di una lotta comune contro TTIP, TPP e analoghe porcherie.
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TTIP, TPP e analoghe porcherie

TTIP e TPP: tutto il potere alle multinazionali
di Carlo Formenti
La pubblicazione di alcuni contenuti del trattato TPP (Trans Pacific Partnership), che vede impegnate da qualche anno dodici nazioni in negoziazioni segrete per definire un accordo su misure di liberalizzazione commerciale, ha provocato un duro dibattito negli Stati Uniti, contribuendo a ridimensionare ulteriormente, ove possibile, il consenso e la fiducia nei confronti del ruolo “progressista” del presidente Obama.
A rendere pubblico l’accordo ha provveduto il New York Times che è venuto in possesso dei relativi documenti grazie a Wikileaks. Se e quando l’accordo entrerà in vigore, spiega il giornale, le compagnie multinazionali operanti nell’America del Nord e del Sud, oltre che in Asia, potranno fare causa al governo degli Stati Uniti (come a quelli degli altri Paesi aderenti al trattato) per ottenere l’annullamento di quelle leggi nazionali e di quei regolamenti amministrativi regionali e locali che ritengono lesive delle loro “legittime aspettative di profitto”.
Adesso si capisce, commenta un lungo articolo dell’Huffington Post, perché l’amministrazione Obama, la quale preme per ottenere una corsia preferenziale per una rapida approvazione del trattato da parte di Senato e Camera dei Rappresentanti, ha fatto di tutto per mantenerne segrete le clausole.
Se il pubblico ne fosse stato a conoscenza, si sarebbe scatenata una furiosa reazione – come è infatti avvenuto negli ultimi giorni – da parte degli esponenti della sinistra Democratica, delle organizzazioni sindacali nonché delle associazioni ambientaliste e dei consumatori.
Il punto non è solo che l’accordo regala alle multinazionali l’opportunità di neutralizzare le decisioni democratiche degli stati aderenti al trattato in tema di diritti del lavoro, tutela ambientale e ogni altro “impedimento” che possa danneggiarne gli interessi. A colpire ancora di più è il fatto che i “tribunali” internazionali organizzati dalla Banca Mondiale e dall’Onu e chiamati a dirimere le eventuali controversie fra stati e imprese sarebbero formati da “esperti legali” che, nella maggior parte dei casi, svolgono già attività di consulenza per le stesse multinazionali, sollevando un clamoroso caso di conflitto di interessi.
Non basta: dalla trattativa sono stati esclusi tutti i soggetti (rappresentanti di lavoratori, consumatori e movimenti ambientalisti) che avrebbero potuto bilanciare gli interessi privati delle imprese con quelli del bene comune. Questo spiega perché è escluso a priori che davanti a quei tribunali possano essere sollevate questioni che riguardino diritti del lavoro e tutela ambientale, a meno che ciò non avvenga per iniziativa e con il consenso degli stati interessati (cioè gli stessi stati che hanno svenduto gli interessi dei cittadini a quelli del mercato!).
L’unica nota stonata, in questa meritevole campagna per difendere il potere decisionale delle istituzioni democratiche statunitensi dall’invadenza del mercato globale, sono i toni nazionalistici con cui si condanna la resa dello stato americano agli interessi delle imprese straniere. Stona perché il trattato regala analoghi poteri alle multinazionali americane nei confronti degli stati di altri paesi (discorso che ci tocca da vicino, visto che il TTIP, il trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti che dovrebbe essere siglato fra Stati Uniti e la Ue e i cui negoziati procedono con la stessa opacità con cui sono stati condotti quelli per il TPP, avrebbe analoghi effetti).
Questo riflesso nazionalistico rispecchia l’illusione di poter ancora rivendicare i privilegi “imperiali” del popolo americano nei confronti del resto del mondo: più diritti, più libertà e più reddito pagati dall’altrui oppressione e povertà. Ma oggi quei privilegi imperiali spettano solo alle multinazionali (americane e non) e vengono pagati da tutti i popoli del mondo (ivi compreso quello americano). Prima se ne renderanno conto meglio sarà ai fini di una lotta comune contro TTIP, TPP e analoghe porcherie.
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sabato 4 aprile 2015
€xit e ridenominazione
Sabato 28 Marzo 2015 21:07

€xit e ridenominazione
di Gennaro Zezza
http://gennaro.zezza.it/?p=1583
Mi ha colpito un passaggio dell’intervento di Vincenzo Visco “Fuori dall’euro?”, pubblicato su Economia e politica come contributo al dibattito originato dall’articolo di Realfonzo e Viscione.
Sembra che Visco sia meglio informato (certamente meglio informato di me!) sugli accordi siglati dai nostri governi in sede internazionale. Riporta infatti che
nel 2012 in occasione della costituzione del ESM gli stati membri dell’eurogruppo hanno concordato che una eventuale trasformazione in altra valuta delle emissioni di titoli pubblici in euro di durata superiore ai 12 mesi, possa essere impedita da una minoranza di detentori pari al 25% dei sottoscrittori
Verificare questa affermazione non è affatto facile. Il testo del trattato che istituisce l’ESM dovrebbe essere disponibile qui
http://www.european-council.europa.eu/media/582311/05-tesm2.en12.pdf
come riportato nella pagina della Commissione Europea sull’argomento, ma il Consiglio Europeo ha pensato bene di spostarlo, e trovarlo tramite il loro motore di ricerca interno è un’impresa. Dalle scarne informazioni si desume che il Trattato che istituisce l’ESM, modificato nel 2012, ha richiesto ai governi di inserire delle clausole (CAC, Collective Action Clauses) nelle emissioni di tutti i titoli con scadenza superiore a 12 mesi, a partire dal 2013. Dei dettagli tecnici legali sono – ad esempio – qui: http://www.linklaters.com/pdfs/mkt/london/A14950441_0_11_120508_CAC_client_memo_MND.pdf
Queste CAC tutelano i creditori, stabiliscono le priorità su chi viene rimborsato per primo, ecc.
Non sono riuscito a verificare, in una mezza giornata di lavoro, se Visco abbia ragione, ma supponiamo che sia vero. La prima conseguenza è che, nella totale mancanza di informazione, i nostri governi continuano ad assegnare tutele e diritti ai creditori – soprattutto ai creditori esteri – a scapito dei diritti e delle tutele degli italiani.
Amici più esperti di me nel diritto internazionale mi dicono però che questi Trattati, qualora siano in contrasto con gli interessi nazionali, non verrebbero applicati. In ogni caso, aver sottoscritto queste clausole renderà più complesso il processo di eventuale uscita dall’euro.
Visco aggiunge anche
i 140 mld che la Banca d’Italia acquisterà con i finanziamenti QE da parte della BCE (…) saranno per definizione di diritto estero
Questa affermazione è senz’altro errata, perché la Banca d’Italia acquisterà i titoli sul mercato secondario, e quindi sotto legislazione italiana. Ci sono però delle clausole di compartecipazione al rischio nel caso di default, e presumo che una ridenominazione in “nuove lire” dei titoli sia assimilata ad un default. In ogni caso, sembra più credibile quanto discusso qui, dove si afferma che i titoli pubblici acquistati nel programma QE sarebbero “de facto” fuori dalla giurisdizione italiana.
Si veda anche questo documento della Banca d’Italia.
Ma allora, posto che il QE si tradurrà in una iniezione di liquidità per le banche italiane, che la utilizzeranno per acquistare attività finanziarie in giro per il mondo – e non certo per finanziare le PMI italiane – se il costo da pagare è trasformare debito pubblico italiano in debito estero, ne vale la pena?
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giovedì 30 aprile 2015
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lunedì 6 aprile 2015
TTIP, TPP e analoghe porcherie

TTIP e TPP: tutto il potere alle multinazionali
di Carlo Formenti
La pubblicazione di alcuni contenuti del trattato TPP (Trans Pacific Partnership), che vede impegnate da qualche anno dodici nazioni in negoziazioni segrete per definire un accordo su misure di liberalizzazione commerciale, ha provocato un duro dibattito negli Stati Uniti, contribuendo a ridimensionare ulteriormente, ove possibile, il consenso e la fiducia nei confronti del ruolo “progressista” del presidente Obama.
A rendere pubblico l’accordo ha provveduto il New York Times che è venuto in possesso dei relativi documenti grazie a Wikileaks. Se e quando l’accordo entrerà in vigore, spiega il giornale, le compagnie multinazionali operanti nell’America del Nord e del Sud, oltre che in Asia, potranno fare causa al governo degli Stati Uniti (come a quelli degli altri Paesi aderenti al trattato) per ottenere l’annullamento di quelle leggi nazionali e di quei regolamenti amministrativi regionali e locali che ritengono lesive delle loro “legittime aspettative di profitto”.
Adesso si capisce, commenta un lungo articolo dell’Huffington Post, perché l’amministrazione Obama, la quale preme per ottenere una corsia preferenziale per una rapida approvazione del trattato da parte di Senato e Camera dei Rappresentanti, ha fatto di tutto per mantenerne segrete le clausole.
Se il pubblico ne fosse stato a conoscenza, si sarebbe scatenata una furiosa reazione – come è infatti avvenuto negli ultimi giorni – da parte degli esponenti della sinistra Democratica, delle organizzazioni sindacali nonché delle associazioni ambientaliste e dei consumatori.
Il punto non è solo che l’accordo regala alle multinazionali l’opportunità di neutralizzare le decisioni democratiche degli stati aderenti al trattato in tema di diritti del lavoro, tutela ambientale e ogni altro “impedimento” che possa danneggiarne gli interessi. A colpire ancora di più è il fatto che i “tribunali” internazionali organizzati dalla Banca Mondiale e dall’Onu e chiamati a dirimere le eventuali controversie fra stati e imprese sarebbero formati da “esperti legali” che, nella maggior parte dei casi, svolgono già attività di consulenza per le stesse multinazionali, sollevando un clamoroso caso di conflitto di interessi.
Non basta: dalla trattativa sono stati esclusi tutti i soggetti (rappresentanti di lavoratori, consumatori e movimenti ambientalisti) che avrebbero potuto bilanciare gli interessi privati delle imprese con quelli del bene comune. Questo spiega perché è escluso a priori che davanti a quei tribunali possano essere sollevate questioni che riguardino diritti del lavoro e tutela ambientale, a meno che ciò non avvenga per iniziativa e con il consenso degli stati interessati (cioè gli stessi stati che hanno svenduto gli interessi dei cittadini a quelli del mercato!).
L’unica nota stonata, in questa meritevole campagna per difendere il potere decisionale delle istituzioni democratiche statunitensi dall’invadenza del mercato globale, sono i toni nazionalistici con cui si condanna la resa dello stato americano agli interessi delle imprese straniere. Stona perché il trattato regala analoghi poteri alle multinazionali americane nei confronti degli stati di altri paesi (discorso che ci tocca da vicino, visto che il TTIP, il trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti che dovrebbe essere siglato fra Stati Uniti e la Ue e i cui negoziati procedono con la stessa opacità con cui sono stati condotti quelli per il TPP, avrebbe analoghi effetti).
Questo riflesso nazionalistico rispecchia l’illusione di poter ancora rivendicare i privilegi “imperiali” del popolo americano nei confronti del resto del mondo: più diritti, più libertà e più reddito pagati dall’altrui oppressione e povertà. Ma oggi quei privilegi imperiali spettano solo alle multinazionali (americane e non) e vengono pagati da tutti i popoli del mondo (ivi compreso quello americano). Prima se ne renderanno conto meglio sarà ai fini di una lotta comune contro TTIP, TPP e analoghe porcherie.
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TTIP e TPP: tutto il potere alle multinazionali
di Carlo Formenti
La pubblicazione di alcuni contenuti del trattato TPP (Trans Pacific Partnership), che vede impegnate da qualche anno dodici nazioni in negoziazioni segrete per definire un accordo su misure di liberalizzazione commerciale, ha provocato un duro dibattito negli Stati Uniti, contribuendo a ridimensionare ulteriormente, ove possibile, il consenso e la fiducia nei confronti del ruolo “progressista” del presidente Obama.
A rendere pubblico l’accordo ha provveduto il New York Times che è venuto in possesso dei relativi documenti grazie a Wikileaks. Se e quando l’accordo entrerà in vigore, spiega il giornale, le compagnie multinazionali operanti nell’America del Nord e del Sud, oltre che in Asia, potranno fare causa al governo degli Stati Uniti (come a quelli degli altri Paesi aderenti al trattato) per ottenere l’annullamento di quelle leggi nazionali e di quei regolamenti amministrativi regionali e locali che ritengono lesive delle loro “legittime aspettative di profitto”.
Adesso si capisce, commenta un lungo articolo dell’Huffington Post, perché l’amministrazione Obama, la quale preme per ottenere una corsia preferenziale per una rapida approvazione del trattato da parte di Senato e Camera dei Rappresentanti, ha fatto di tutto per mantenerne segrete le clausole.
Se il pubblico ne fosse stato a conoscenza, si sarebbe scatenata una furiosa reazione – come è infatti avvenuto negli ultimi giorni – da parte degli esponenti della sinistra Democratica, delle organizzazioni sindacali nonché delle associazioni ambientaliste e dei consumatori.
Il punto non è solo che l’accordo regala alle multinazionali l’opportunità di neutralizzare le decisioni democratiche degli stati aderenti al trattato in tema di diritti del lavoro, tutela ambientale e ogni altro “impedimento” che possa danneggiarne gli interessi. A colpire ancora di più è il fatto che i “tribunali” internazionali organizzati dalla Banca Mondiale e dall’Onu e chiamati a dirimere le eventuali controversie fra stati e imprese sarebbero formati da “esperti legali” che, nella maggior parte dei casi, svolgono già attività di consulenza per le stesse multinazionali, sollevando un clamoroso caso di conflitto di interessi.
Non basta: dalla trattativa sono stati esclusi tutti i soggetti (rappresentanti di lavoratori, consumatori e movimenti ambientalisti) che avrebbero potuto bilanciare gli interessi privati delle imprese con quelli del bene comune. Questo spiega perché è escluso a priori che davanti a quei tribunali possano essere sollevate questioni che riguardino diritti del lavoro e tutela ambientale, a meno che ciò non avvenga per iniziativa e con il consenso degli stati interessati (cioè gli stessi stati che hanno svenduto gli interessi dei cittadini a quelli del mercato!).
L’unica nota stonata, in questa meritevole campagna per difendere il potere decisionale delle istituzioni democratiche statunitensi dall’invadenza del mercato globale, sono i toni nazionalistici con cui si condanna la resa dello stato americano agli interessi delle imprese straniere. Stona perché il trattato regala analoghi poteri alle multinazionali americane nei confronti degli stati di altri paesi (discorso che ci tocca da vicino, visto che il TTIP, il trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti che dovrebbe essere siglato fra Stati Uniti e la Ue e i cui negoziati procedono con la stessa opacità con cui sono stati condotti quelli per il TPP, avrebbe analoghi effetti).
Questo riflesso nazionalistico rispecchia l’illusione di poter ancora rivendicare i privilegi “imperiali” del popolo americano nei confronti del resto del mondo: più diritti, più libertà e più reddito pagati dall’altrui oppressione e povertà. Ma oggi quei privilegi imperiali spettano solo alle multinazionali (americane e non) e vengono pagati da tutti i popoli del mondo (ivi compreso quello americano). Prima se ne renderanno conto meglio sarà ai fini di una lotta comune contro TTIP, TPP e analoghe porcherie.
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sabato 4 aprile 2015
€xit e ridenominazione
Sabato 28 Marzo 2015 21:07

€xit e ridenominazione
di Gennaro Zezza
http://gennaro.zezza.it/?p=1583
Mi ha colpito un passaggio dell’intervento di Vincenzo Visco “Fuori dall’euro?”, pubblicato su Economia e politica come contributo al dibattito originato dall’articolo di Realfonzo e Viscione.
Sembra che Visco sia meglio informato (certamente meglio informato di me!) sugli accordi siglati dai nostri governi in sede internazionale. Riporta infatti che
nel 2012 in occasione della costituzione del ESM gli stati membri dell’eurogruppo hanno concordato che una eventuale trasformazione in altra valuta delle emissioni di titoli pubblici in euro di durata superiore ai 12 mesi, possa essere impedita da una minoranza di detentori pari al 25% dei sottoscrittori
Verificare questa affermazione non è affatto facile. Il testo del trattato che istituisce l’ESM dovrebbe essere disponibile qui
http://www.european-council.europa.eu/media/582311/05-tesm2.en12.pdf
come riportato nella pagina della Commissione Europea sull’argomento, ma il Consiglio Europeo ha pensato bene di spostarlo, e trovarlo tramite il loro motore di ricerca interno è un’impresa. Dalle scarne informazioni si desume che il Trattato che istituisce l’ESM, modificato nel 2012, ha richiesto ai governi di inserire delle clausole (CAC, Collective Action Clauses) nelle emissioni di tutti i titoli con scadenza superiore a 12 mesi, a partire dal 2013. Dei dettagli tecnici legali sono – ad esempio – qui: http://www.linklaters.com/pdfs/mkt/london/A14950441_0_11_120508_CAC_client_memo_MND.pdf
Queste CAC tutelano i creditori, stabiliscono le priorità su chi viene rimborsato per primo, ecc.
Non sono riuscito a verificare, in una mezza giornata di lavoro, se Visco abbia ragione, ma supponiamo che sia vero. La prima conseguenza è che, nella totale mancanza di informazione, i nostri governi continuano ad assegnare tutele e diritti ai creditori – soprattutto ai creditori esteri – a scapito dei diritti e delle tutele degli italiani.
Amici più esperti di me nel diritto internazionale mi dicono però che questi Trattati, qualora siano in contrasto con gli interessi nazionali, non verrebbero applicati. In ogni caso, aver sottoscritto queste clausole renderà più complesso il processo di eventuale uscita dall’euro.
Visco aggiunge anche
i 140 mld che la Banca d’Italia acquisterà con i finanziamenti QE da parte della BCE (…) saranno per definizione di diritto estero
Questa affermazione è senz’altro errata, perché la Banca d’Italia acquisterà i titoli sul mercato secondario, e quindi sotto legislazione italiana. Ci sono però delle clausole di compartecipazione al rischio nel caso di default, e presumo che una ridenominazione in “nuove lire” dei titoli sia assimilata ad un default. In ogni caso, sembra più credibile quanto discusso qui, dove si afferma che i titoli pubblici acquistati nel programma QE sarebbero “de facto” fuori dalla giurisdizione italiana.
Si veda anche questo documento della Banca d’Italia.
Ma allora, posto che il QE si tradurrà in una iniezione di liquidità per le banche italiane, che la utilizzeranno per acquistare attività finanziarie in giro per il mondo – e non certo per finanziare le PMI italiane – se il costo da pagare è trasformare debito pubblico italiano in debito estero, ne vale la pena?
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