News, Dati, Eventi finanziari amico caro, te lo dico da amico, fatti li.... qui e' tutta malvivenza

un genio assoluto ................. da mettere al cern di Ginevra.....:D sicuramente un nobel di rara intelligenza:D attendiamo vedere..........che i ciuchi decollino sullo shuttle,e le anatre fare esperimenti di fisica quantistica,,poi siamo a posto.......................

Ciao A.,
gli volevo "rispondere", ma riflettendoci un attimo, ho realizzato che non merita nemmeno un commento,
diciamo, solamente, (con una GRANDE dose, di "buonismo"),..... la "pochezza", risulta IMBARAZZANTE!!.................:nnoo:
 
Italia meridione d′Europa: la nostra storia già scritta 150 anni fa
Medici Alberto | 21-05-2015 Categoria: Politica



Nella mia recente trasferta in Sicilia ho conosciuto persone interessanti che mi hanno parlato di una realtà, quella meridionale, che da buon nordico “polentone” conoscevo superficialmente, in parte per sentito dire, in parte per letture (mitica la Pellicciari, che consiglio a tutti), in parte per luoghi comuni. E una delle cose che mi hanno un po’ stupito, e l’ho espresso al mio ottimo ospite, era il recriminare per una situazione che ormai è acqua passata. Per carità, la verità va sempre denunciata, e non passa mai di moda, per cui
bene dire che quella che viene spacciata nei libri di testo come “Unità d’Italia” è stata in realtà una annessione con la forza;
bene dire che non ci fu alcuna insurrezione popolare, e se non fosse stato per il supporto della massoneria inglese Garibaldi coi suoi famosi 1.000 avrebbe avuto ben diverso esito;
bene dire che il Regno delle due Sicilie era uno stato fra i più avanzati, con industrie, infrastrutture, senza praticamente debito pubblico, ecc., e che in seguito all’annessione è stato pesantemente impoverito;
bene dire e ricordare che fu attuata una pesante politica di discriminazione contro la popolazione locale, e che subito dopo l’annessione del Regno borbonico allo Stato sabaudo, in tutto il sud furono tenute chiuse le scuole per circa 15 anni, in modo da ottenere un’intera generazione di analfabeti;
bene dire che lo stesso Cavour dovette leggere il suo primo discorso in parlamento, visto che doveva essere in italiano, e lui l’italiano non lo parlava, ma parlava in francese!
ma mi domandavo: “Ok, tutto questo è sicuramente vero, ma ormai questa è acqua passata, no? Guardiamo avanti e rimbocchiamoci le maniche, no?
A questo punto il mio ospite mi ha fatto capire che il problema non è (soltanto) il passato, ma principalmente il presente: la politica centrale che non investe in infrastrutture sul territorio, che lascia andare in malora l’economia, che privilegia gli agricoltori nordafricani o d’oltre oceano costringendo alla fame gli agricoltori locali, e così via. Un esempio per tutti: la tratta Palermo – Catania: il treno ci metteva 8 ore per fare un percorso di 200km. Dopo il crollo del cavalcavia autostradale, in pochi giorni la percorrenza ferroviaria è stata portata a due ore. E allora? Non si poteva fare prima?
Vivendo al nord, e vedendo la progressiva desertificazione indutriale, anche nella mia zona, quel mitico nordest che negli anni ’90 era considerata la locomotiva d’Italia, dove sto assistendo, da alcuni anni, ad una progressiva emigrazione delle industrie, e al dissolversi di un sistema economico soprattutto in seguito a precise (e suicide) scelte di politca economica, comincio a pensare che quanto successo 150 anni fa, con la forza, nel sud d’Italia, stia per ripetersi oggi, su scala maggiore, per tutta l’Italia, in maniera più soft, con scelte politiche dettate da una agenda estera: la distruzione del tessuto economico-industriale e la riduzione a stato vassallo, innocuo ed inoffensivo per la concorrenza della grande industria germanica, della logistica francese, della manifattura cinese, del software indiano.
Se sapremo impararare dalla storia forse riusciremo ad invertire questa tendenza. Sempre che lo capiamo, e ci sappiamo liberare da politici che leggono la loro agenda scritta da Bruxelles.


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POVERA GRECIA. ESEMPIO DI COME L’€URO NON PUO’ FUNZIONARE (di Giuseppe PALMA)
Pubblicato su 21 Maggio 2015 da FRONTE DI LIBERAZIONE DAI BANCHIERI - CM in ECONOMIA
Ricordate quando scrissi che se l’Italia uscisse dall’Euro non vi sarebbero preoccupanti ripercussioni sul nostro debito pubblico? Bene, ve lo confermo, infatti attraverso un’applicazione nell’interesse nazionale del principio della LEX MONETAE (combinato disposto degli artt. 1277, 1278 e 1281 del codice civile), e grazie all’aspetto fondamentale che il nostro debito pubblico – benché espresso in Euro – è ancora sotto giurisdizione italiana (circa il 97% dello stesso), il passaggio dall’Euro alla Nuova Lira non creerebbe quella situazione di drammaticità finanziaria cui fanno leva i ciechi sostenitori dell’Euro. Un ripassino non fa male, quindi rileggete questo mio articolo: LA LEX MONETAE. COME USCIRE DALL?EURO SENZA FARSI ALCUN MALE (di Giuseppe PALMA) | Scenarieconomici.itScenarieconomici.it
La situazione della Grecia, invece, è totalmente diversa da quella italiana. Il debito pubblico greco è infatti per tre/quarti sottratto alla giurisdizione nazionale, quindi un suo eventuale ritorno alla sovranità monetaria produrrebbe sicuramente quegli effetti drammatici che gli euristi – a torto – sostengono possano verificarsi nel caso di un €uroexit dell’Italia.
Il debito pubblico greco, pur ammontante ad appena circa 330 miliardi di Euro (una bazzecola rispetto a quello italiano), è per il 72% sotto giurisdizione “straniera”. Nello specifico: il 60% è in mano all’Unione Europea attraverso il fondo di stabilità europeo (EFSF e MES), mentre il 12% è in mano al Fondo Monetario Internazionale (FMI). Poi c’è un 8% in mano alla BCE (Banca Centrale Europea) e il 15% è rappresentato da Titoli di debito già in circolazione (cioè trattabili sul mercato secondario, dove si forma il famigerato spread).
Questa situazione, cioè il fatto che il debito pubblico di uno Stato sia regolato da giurisdizione diversa da quella nazionale, rende ovviamente drammatica la decisione di un eventuale ritorno alla sovranità monetaria.
A questo punto non posso sottrarmi dall’evidenziare che la responsabilità è tutta dell’Unione Europea. Con la creazione della moneta unica è stata istituita anche una Banca Centrale Europea (BCE), la quale – per espressa previsione del suo Statuto (e non è un caso, credetemi) – non può finanziare i debiti pubblici degli Stati dell’Eurozona. Appare evidente, quindi, che chi ha costruito l’intera struttura dell’Euro aveva ben in mente i gravissimi danni sociali, economici e finanziari cui conduceva questa moneta unica.
I meccanismi del fondo di stabilità europeo (EFSF e MES), a differenza di ciò che avveniva in passato quando ciascuno Stato poteva creare moneta dal nulla e rendersi garante del proprio debito pubblico senza dover massacrare i cittadini, producono una situazione di vero e proprio STROZZINAGGIO legalizzato. Questi strumenti (come ad esempio il MES), che dovevano servire ad aiutare finanziariamente gli Stati in difficoltà, hanno assunto le vesti (e questo era il vero obiettivo dell’apparato eurocratico) di veri e propri cappi al collo dei Paesi che ne avrebbero fatto ricorso, come appunto la Grecia!
Un esempio evidente è costituito proprio dal MES, Meccanismo Europeo di Stabilità (o altrimenti detto Fondo salva-Stati): istituito nel marzo 2011 dalle modifiche al Trattato di Lisbona, nasce come fondo finanziario europeo per la stabilità finanziaria della zona euro. La sua entrata in vigore, prevista inizialmente per la metà del 2013, fu anticipata dal Consiglio Europeo del 9 dicembre 2011 al luglio 2012. Il fondo è stato creato sia per emettere prestiti sia per acquistare titoli sul mercato finanziario primario (ma anche su quello secondario) in favore dei Paesi che si trovino in maggiori difficoltà, con il fine di assicurare loro assistenza finanziaria. Il tutto a condizioni severissime e forcaiole tali da esautorare quasi del tutto la sovranità degli Stati che ne facciano richiesta, infatti i prestiti o gli acquisti dei Titoli non avvengono gratuitamente ma vanno integralmente restituiti (con gli interessi!). Il MES ha chiesto agli Stati membri di versare un anticipo complessivo di 80 miliardi di euro, partecipandovi ciascuno in base alla propria quota parte. La nostra è del 17,91%, già interamente versata.
Se non avete compreso il crimine, ve lo rispiego con parole più semplici:
Prima dell’introduzione della moneta unica ciascuno Stato poteva garantire senza alcun problema il proprio debito pubblico attraverso il Tesoro o la Banca Centrale, creando moneta dal nulla e senza alcun massacro sociale! Oggi, con l’Euro, non è più così. Dovendo ciascuno Stato dell’Eurozona andarsi a cercare la moneta (chiedendola in prestito ai mercati dei capitali privati – ai quali va restituita con gli interessi – oppure tassando i cittadini e/o tagliando le voci di spesa pubblica più sensibili), nel momento in cui i mercati dei capitali privati (es. banche private) “chiudono i rubinetti” per presunta mancanza di affidabilità finanziaria (scusate la semplificazione), ecco che lo Stato in difficoltà può fare ricorso ai meccanismi di stabilità creati dall’apparato eurocratico, il quale non regala soldi a nessuno ma ne pretende la puntuale restituzione con gli interessi. Peggio degli strozzini!
La Grecia, essendo stata costretta a fare ricorso ai meccanismi sopra menzionati, ha determinato la sua condanna a morte come Nazione sovrana. Una parte del suo debito pubblico, infatti, è in mano all’Unione Europea (ut supra), quindi un’eventuale uscita dall’Euro da parte della più antica democrazia del mondo rappresenterebbe per la stessa una situazione drammatica dal punto di vista finanziario.
L’UE è tenuta sotto scacco da parte di ciascuno degli Stati membri fino a quando questi mantengono piena giurisdizione sul proprio debito pubblico, mentre, in caso contrario, la situazione è destinata a mutare drammaticamente!
La situazione greca, pertanto, è veramente compromessa. A meno che Tsipras non decida di rifiutarsi di pagare! L’UE, la BCE e il FMI non hanno strumenti efficaci per recuperare effettivamente quanto “prestato”. Cosa possono fare l’Europa o il FMI se la Grecia esce dall’Euro e smette di pagare i debiti? Mica possono invaderla? Mica possono mandare i carri armati? Visto che il Fondo salva-Stati è costituito dalla quota parte di ciascuno Stato membro, è ovvio che a perderci sarebbe anche l’Italia, la quale – come abbiamo visto – vi ha partecipato al pari di tutti gli altri ed ha complessivamente nei confronti della Grecia un “credito” di circa 40 miliardi di Euro (scusate l’ennesima terminologia semplificata).
Ciò detto, dobbiamo tuttavia cercare di ragionare in chiave non egoistica e decidere se stare dalla parte dei diritti e della democrazia oppure dei mercati e dell’economia.
Tutto ciò premesso, fossi in Tsipras me ne fregherei altamente dell’UE, del FMI e dell’obbligo di restituzione dei prestiti. Il popolo greco sta morendo, quindi occorre un uomo di Stato che persegua esclusivamente gli interessi dei suoi concittadini. Fossi al posto del premier greco tornerei immediatamente alla piena sovranità monetaria e porrei in essere un concreto progetto di piena occupazione, realizzando in tal modo gli interessi esclusivi del mio popolo e della democrazia!
E’ dunque giunta l’ora che la DEMOCRAZIA si riprenda il primato assoluto sull’economia e sul mercato.
Se così fosse, non saranno più gli altri a “spezzare le reni alla Grecia” ma sarà semmai questa a porre fine al crimine UE-Euro, liberando se stessa ed il Vecchio Continente dalla dittatura eurocratica!
E chissà se questa rivoluzione, scherzo beffardo del destino, possa partire proprio dalla più antica democrazia del mondo!
Giuseppe PALMA
Tratto da:http://scenarieconomici.it/povera-grecia-esempio-di-come-leuro-non-puo-funzionare-di-giuseppe-palma/

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TOTALE...O LA FINZIONE NON PUO' PIU' CONTINUARE? (NON POTEVO RESISTERE-2)



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1. Dato che mi serve per il libro e che mia capacità di "resistenza" a stare lontano da qui (per ora) è bassissima, provo a commentare sinteticamente un interessante articolo di Enrico De Mita, illustre professore di diritto tributario, quale segnalatomi da Lorenzo Carnimeo in questo commento (con prima risposta).
Vi preannunzio che l'articolo, al di là delle precisazioni a commento che seguiranno, conferma che il "redde rationem" italiano rispetto all'€uro-costruzione passa inevitabilmente per quella potente cartina di tornasole che è la Corte costituzionale; questo perchè non solo anche il prof. De Mita coglie la polarizzazione "da ultima spiaggia" tra le due sentenze n.10 (quella sulla Robin tax che non consente la restituzione "retroattiva", conseguente alla declaratoria di illegittimità costituzionale del tributo) e n.75 del 2015 (quella "famosa" oggi sull'adeguamento pensionistico), ma inevitabilmente anche il suo ragionamento si imbatte, (per quanto cautamente, circa la soluzione), nella conseguenza del conflitto insanabile tra Costituzione e trattati.

2. Qua, nel post sul 1° maggio, avevamo anticipato i corni del dilemma, come pure la strada su cui la Corte, anche "tornando indietro" sui suoi passi, si troverà comunque, in un senso o nell'altro, a segnare il destino della Costituzione come fonte di diritti fondamentali che caratterizzano la sovranità nazionale:
"...invito i più attenti lettori di questo blog a riflettere su un "trovate le differenze" tra la sentenza in questione (n.70/2015) e quella sulla Robin Tax, n.10 dell'11 febbraio 2015.
Mi limito a suggerire una direzione di indagine: - è più "equo" accorgersi degli effetti di restituzione retroattiva delle sentenze della Corte in vigenza dell'art.81 Cost.- cioè del pareggio di bilancio- per impedire una successiva redistribuzione punitiva derivante dalle esigenze di costante copertura appunto in pareggio di bilancio (caso della sentenza n.10), ovvero "ignorare" che, vigendo l'art.81 Cost. attuale, e il fiscal compact, qualcuno dovrà comunque pagare quella apparente restituzione e, dunque, l'intero sistema economico subire (per via fiscale) una equivalente contrazione (esattamente compensativa di quella dichiarata incostituzionale) di consumi, investimenti e occupazione?"


3. Evidentemente, messa in questi termini, il nodo che la Corte deve inevitabilmente sciogliere è un altro, dovendosi logicamente e giuridicamente ritenere inaccettabile una continua riduzione dei diritti costituzionali, ancorati a norme inderogabili (in teoria, fino ad oggi), a mere pretese a tutela eventuale (se non "casuale"); vale a dire, a posizioni soggettive organicamente affievolite dall'adesione all'Unione monetaria europea, in quanto aventi una tutela effettiva che sia soggetta;
a) nel suo complesso alla prevalenza del pareggio di bilancio stabilito dal "nuovo" art.81 Cost. (che equivale a dire alla prevalenza del c.d. fiscal compact), secondo un automatismo che svuota praticamente di contenuto tutelabile (cioè reintegrabile) l'intera gamma dei diritti costituzionali;
b) in alternativa, ad una discrezionalità della Corte, non prevista dalla Costituzione (intesa in senso sistematico), nel riscontrare i presupposti di questa prevalenza: una discrezionalità giuridicamente "imprevidibile", perchè operante su una molto opinabile gerachia fra i diritti costituzionali non più interpretati, appunto, sistematicamente, ma isolatamente considerati, e perciò ben difficilmente motivabile con coerenza.
Altrettanto sistematica, infatti, dovrebbe essere la considerazione, da parte della Corte, dell'effetto complessivo, e reiterato costantemente nel tempo, delle manovre finanziarie che includono le singole norme devolute al suo sindacato: queste manovre, infatti, rientrano complessivamente nel tipo di correzione del sistema e del ciclo economico che, imposta dai vincoli europei, tende univocamente a stabilizzare un elevato livello di disoccupazione strutturale, - pari al 10,5%- in funzione dell'inflazione considerata nell'UEM come di equilibrio "di pieno impiego" ; un obiettivo strutturale che rende ingiustificabili le stesse manovre alla luce del principio lavoristico a cui è informata l'intera Costituzione.


Una discrezionalità di questo tipo non riguarderebbe la, sempre possibile, incerta previsione sulla esatta interpretazione delle norme costituzionali nel caso concreto, cioè la naturale possibilità di scelta interpretativa in funzione delle vicende socio-economiche in evoluzione nel tempo, ma la fase successiva alla declaratoria di illegittimità costituzionale; quella conseguenziale "necessitata",- secondo l'art.136 Cost. e secondo il principio di rigidità dellaCostituzione (art.138) e persino di non revisionabilità della stessa (art.139)-, di reintegra del diritto affermato e dunque "tecnico-finanziaria a valle".
Parliamo quindi delle conseguenze ripristinatorie che la Costituzione prevede come effetto necessario della tutela costituzionale già accordata (art.136 Cost.; ciò ovviamente concerne, spero sia chiaro, l'applicabilità delle norme dichiarate illegittime nei rapporti pendenti, certamente non esauriti, e controversi di fronte ai giudici "ordinari" che hanno rimesso la questione alla Corte).
E' chiaro che la stessa Corte, di fronte al sistematico riproporsi di questa esigenza tecnico-finanziaria, si troverebbe nell'alternativa, molto pratica:
i) o, (per evitare il protrarsi di questa prolungata incertezza sulla effettività dei principi costituzionali), di rinunciare progressivamente a interpretare le norme costituzionali in senso incompatibile con la radice €uropea di questa linea di politica economico-fiscale, accettando de facto la novazione del principio fondamentale unificante della Costituzione: il che significa una novazione da quello lavoristico e quello della conservazione "ad ogni costo" della moneta unica, così come ratificato nel fiscal compact-pareggio di bilancio. Con ciò, però, rinuncerebbe al ruolo che la stessa Costituzione le ha assegnato, divenendo un giudice del tutto soggetto alla superiorità incondizionata dell'intero diritto europeo;
ii) ovvero, di prendere una posizione che ribadisca il filtro dell'art.11 e dell'art.139 Cost. - da lei stessa affermato in più pronunce- confermando il paradigma della Repubblica fondata sul lavoro (artt. 1, 3 e 4 della Costituzione); ma questo solo affrontando il "cuore del problema":

"...cioè il legame tra:
- livello del bilancio fiscale, ridotto col "consolidamento" (quantomeno nelle intenzioni dichiarate, poichè i risultati, a causa dello strutturarsi di un elevato livello di disoccupazione, sono in pratica opposti o incongruenti, come prova l'aumento del rapporto debito su PIL e il costante mancato verificarsi della riduzione del deficit annuale programmato nelle stesse manovre finanziarie);
- vincolo a monte del consolidamento, cioè il pareggio di bilancio (in tutte le sue forme, comunque riduttive dell'indebitamento annuo);
- e disoccupazione-livello delle retribuzioni (e quindi anche del successivo trattamento pensionistico);
..."dovendo" chiarire, a se stessa e alla comunità sociale intera, coinvolta nella tutela costituzionale, il perchè si sia adottato il paradigma del pareggio di bilancio, e comunque (da decenni, in un crescendo, niente affatto casuale ed estraneo al meccanismo prevedibile della moneta unica) della riduzione/compressione del deficit pubblico; cioè una politica fiscale che non promuove certo la crescita, l'occupazione e la tutela reale del reddito da lavoro".


4. Questo l'articolo del professor De Mita, tratto dal Sole 24 ore (in corsivo il testo, inframezzato dal commento):
"Per inquadrare correttamente nella giurisprudenza costituzionale la sentenza della Corte 70/2015 sul blocco della rivalutazione delle pensioni occorre partire da alcune considerazioni di carattere generale sulle quali ha richiamato l’attenzione Sabino Cassese nel suo originale libro «Dentro la Corte». Le questioni della Corte sono filtrate attraverso il diritto; non si affronta direttamente il problema politico. La Corte è davvero un organo giudiziario che riconduce i conflitti politici o costituzionali ai criteri di razionalità logica, alla coerenza. Molti casi hanno implicazioni politiche o costituiscono decisioni politiche sia pure a seguito di analisi tecnico-giuridica e sulla base di elementi di razionalità riconducibili alla ragionevolezza. La Corte “motiva ma non spiega”.
Ecco perché le sentenze della Corte difficilmente sono capite dall’esterno. E tuttavia il peso della Corte dipende dalla forza con la quale i poteri dello Stato la sorreggono. Tutte le sentenze della Corte sono fondate sul precedente. La sentenza 70/2015 è frutto di una concatenazione di precedenti, di riferimenti a decisioni già prese sicchè non è agevole comprendere il decisum che viene formulato alla fine della decisione. Lo sforzo delle sentenze, la motivazione, è la dimostrazione della coerenza decisione con il precedente.
Le sentenze vengono istruite sulla base di una collaborazione degli assistenti dei giudici che sono giudici e professionalmente tendono a non vedere la questione costituzioni e politiche.
I riferimenti al diritto comune sono fatti con l’adeguamento al “diritto vivente”, alla giurisprudenza dei giudici ordinari, il che può essere un limite alla impostazione in termini costituzionalmente rilevanti della questione. Complessivamente si può dire che c’è una certa autoreferenzialità, che rende la Corte prigioniera di se stessa."
Qui si manifesta una questione generalissima di civiltà giuridica: non è a rigore corretto definire autoreferenziale un organo giurisdizionale che sia naturalmente coerente coi propri precedenti, trattandosi oltretutto di giurisdizione di legittimità costituzionale; la Costituzione, nata per durare nel tempo secondo il suo ruolo di direttrice fondamentale della vita socio-economica, esige un continuo e omogeneo svolgimento della certezza e del significato delle sue previsioni.
Se si guarda all'esperienza delle Corti giurisdizionali di tutto il mondo, specie quelle anglosassoni di common law che applicano lo "stare decisis" (cioè la vincolatività, creatrice di diritto, del precedente giurisprudenziale), e di quelle costituzionali in particolare, non ce ne sarà una che non sia, e correttamente, "autoreferenziale": lo è la stessa Corte di giustizia dell'Unione Europea, proprio perchè la prevalente esigenza di certezza del diritto, per quanto si tenga conto di una storicità adeguatrice, non dà alternative al funzionamento fisiologico di ogni organo giurisdizionale.
La verità è un'altra: la questione nasce perchè esiste una norma come il pareggio di bilancio che è estranea alla sostanza ordinatrice delle norme della Costituzione del 1948, cioè agli interessi fondamentali che questa intendeva realizzare e tutelare: tale norma, in realtà, è il portato di un modello socio-economico diverso e incompatibile con quello del 1948.
I giuristi e la Corte dovrebbero quanto prima, se non altro per poter dire senza reticenze la verità, rendersene conto.
L'art.81 Cost attuale, di per sè stesso, è norma di sistema, cioè di ridisegno della funzione dello Stato, e come tale è destinato, per sempre (almeno finchè permarrà nella Costituzione) a influire su ogni singola norma della originaria Costituzione.
Più di ogni altra, assegna un nuovo ruolo al mercato del lavoro, e quindi alla tutela del lavoro, alla moneta ed al risparmio, e quindi a tutte quelle proiezioni di risparmio e moneta che la Costituzione voleva legate a "accesso all'abitazione" in generale alla "proprietà" per "tutti" (artt.42 2 47 Cost.), allo stesso risparmio "diffuso" (artt.47 Cost.), in generale alla intraprese nell'attività agricola (art.47) e industriale-artigianale di piccola dimensione (art.46 Cost): cioè ai fondamenti di quella democrazia del lavoro, in ogni sua forma, che era voluta dai Costituenti.


5. "Le critiche alla sentenza 70/2015 sono di carattere esterno e riguardano il rapporto con gli altri poteri dello Stato. La motivazione è semplicistica: la Corte non può fare cose riconducibili al potere politico. E’ una tesi che prova troppo. Allora bisogna chiedersi (come disse il presidente Ambrosini nel 1992) che cosa ci stia a fare la Corte se non può stabilire i limiti che incontra il parlamento nella sua discrezionalità politica, che pure è un altro punto fermo della giurisprudenza costituzionale: il parlamento può fare tutto ciò che non viola la Costituzione. La sentenza 70/2015 non può essere capita dall’esterno se la critica è così radicale. La ragione è che la Corte non ha saputo spiegare in termini semplici e chiari che non esisteva il vincolo di bilancio.
Nella sentenza 10/2015 il riferimento al principio di bilancio fu un modo come un altro per giustificare la deroga alla retroattività della decisione presa. La sentenza 70/2015 appare un po’ frettolosa, anche se, a parer mio, giuridicamente corretta".


Questa parte è molto interessante: la sentenza della Robin Tax (la 10 del 1975), sarebbe il frutto di un "modo come un altro" per giustificare la deroga alla retroattività; eppure, a leggere la stessa sentenza, l'enunciato della Corte non appare essere in questi termini.
La sensazione, molto forte, quindi, è che la Corte abbia inteso porre un principio "da qui in poi": proprio quello della "fine" della retroattività delle restituzioni in presenza dei vincoli di bilancio derivanti dall'appartenenza all'eurozona.
In realtà il problema si poneva in identici termini, solo quantitativamente "minori", in relazione alla misura del 3% del deficit, consentendo alla Corte di evitare affermazioni troppo decise e affidandosi alla maggior elasticità fiscale (non molto maggiore, in concreto, data la fissità del vincolo ed il modo in cui è stato intesa dalle istituzioni europee in applicazione consolidata dell'art.126 TFUE), in precedenza lasciata dall'Europa.
Solo che, data la natura espressamente non solidaristica dei trattati (artt. 123-125 Cost.), quella maggior elasticità è "morta" insieme con il manifestarsi inevitabile degli squilibri commerciali tra paesi appartenenti alla moneta unica: la conseguenza, di cui la Corte non pare ancora essersi resa conto, è che la svalutazione del lavoro mediante deflazione salariale si è resa indispensabile come strumento unico di correzione degli squilibri commerciali, e di recupero della competitività delle esportazioni.
In questi termini, appare evidente che, da un lato, il pareggio di bilancio serve solo a "salvare l'euro", dall'altro che esso è diretto a reindirizzare lo Stato verso politiche deflattive del lavoro, tradendo tutti gli articoli più importanti inseriti nei diritti fondamentali della Costituzione. Cioè, in testa, il diritto al lavoro (artt. 1 e 4 Cost.), nonchè alla stessa retribuzione adeguata ad una vita libera e dignitosa (artt.35 e 36 Cost.), corollari inscindibilmente collegati allo stesso diritto al lavoro (che è una pretesa inderogabile, - accordata ad ogni cittadino dalla Costituzione-, a politiche di pieno impiego da parte di governo e parlamento).


6. "Sta nascendo in Italia un orientamento che non solo critica la Corte ma rischia di produrre come osserva Cassese, un arretramento di due secoli nella configurazione dei rapporti della Corte con gli altri poteri. Le Corti costituzionali esistono in quasi tutti i paesi democratici a cominciare dalla Corte federale degli U.S.A. I limiti alla competenza delle Corti possono essere indagati dalla comparazione degli orientamenti delle diverse Corti e la Corte italiana non è certo ultima nell’apprestare una giurisprudenza soddisfacente. Ma si sostiene che la Corte e tutti gli altri giudici in specie il TAR sono un grosso impedimento alla responsabilità politica. Si critica “il peso sempre maggiore che le decisioni delle varie branche della giurisdizione hanno sull’attività di governo".
E non si manca di rilevare che c’è un potere giudiziario anche in America.
E in soccorso di tale disinvolta teoria viene aggiunto il corollario “il modo in cui è stato esercitata l’azione penale in modo persecutorio”. Il che la dice lunga sui limiti auspicati delle diverse giurisdizioni."
Anche qui occorre intendersi: i giudici che sindacano l'attività normativa (leggi o regolamenti) sono vincolati a farlo da norme costituzionali. Per governo e parlamento incontrare la censura giurisdizionale, prevista dalla Costituzione, alle scelte normative effettuate, non è "deresponsabilizzazione", ma esattamente parte della responsabilità che è insita nella loro legittimazione democratica: cioè si tratta della necessaria continuità dello "Stato di diritto", ormai plurisecolare conquista della civiltà occidentale. Stato di diritto è quello per cui ogni atto, di ogni pubblica autorità, è regolato da norme preventivamente note e non violabili neppure nell'esercizio della pubblica funzione normativa; la sua conseguenza inscindibile è che ci debba essere "un giudice a Berlino" che ne accerti la violazione anche nei confronti dei detentori delle massime funzioni di governo (cioè quelle normative).
Direi dunque che è piuttosto vero l'opposto: sono gli automatismi, come il pareggio di bilancio, non ben compresi dai cittadini e neanche dagli organi dello Stato, a deresponsabilizzare la "politica", consentendole di richiamarsi a un principio superiore, esterno al processo democratico costituzionale e fondativo della sovranità, per imputare la responsabilità di ogni scelta fondamentale a tale sorta di "pilota automatico" (per usare le parole di Draghi) sovranazionale.


7. "Tornando alla sentenza 70/2015 essa è sostanzialmente corretta. Forse si poteva guadagnare tempo aspettando che la Corte fosse al completo o ricorrere a qualche manipolazione con una sentenza additiva. Ma l’isolamento della Corte e l’aspirazione alla vanificazione della sua giurisprudenza, in nome del primato della politica, sono tentazioni pericolose.
Come ha osservato giustamente Gustavo Zagrebelskj l’equilibrio di bilancio non deve diventare un automatico lasciapassare al libero arbitrio della politica. Il legislatore deve sempre tener presente “l’eguaglianza nella giustizia”. Il riferimento ai conti conformi della richiesta dell’Europa non deve diventare una super norma costituzionale. Ma non c’è dubbio che il rispetto degli accordi nella Comunità pone problemi che se oggi non possono essere risolti non con accorgimenti sbrigativi, va affrontato dagli stati con normative che ancora non esistono.
Ma all’esterno è stato rivendicato “il primato della politica”. Sembra di sentire Togliatti quando non capiva come ci potesse essere un altro organo dello Stato che fosse al di sopra del parlamento. Ora la Corte non è al di sopra del parlamento, ma giudica della costituzionalità delle leggi. I rapporti tra poteri non possono essere configurati se non come correttezza della propria competenza. E il parlamento ha tutti gli strumenti nella legge costituzionale per dimostrare la costituzionalità delle leggi di spesa. Semmai la Corte può chiedere al parlamento e al governo chiarimenti sulle questioni dubbie. Qui diventa rilevante il ruolo dell’Avvocatura di Stato che difendendo la legge ha l’onere di illustrare come essa non violi il principio dell’equilibrio di bilancio".


Alla luce di quanto abbiamo cercato di illustrare finora, la vanificazione delle sentenze della Corte in nome del primato della politica è in realtà una fenomenologia che non è riconoscibile nel caso concreto.
La realtà è che si vuol negare il primato della Costituzione e denominare "primato della politica" l'applicazione del pilota automatico dell'euro, senza voler dire che esso determina l'applicazione di un modello socio-economico diverso da quello costituzionale.
In tal modo, se si affermasse la prevalenza del pareggio di bilancio nei termini incondizionati sopradetti, e persino se solo la Corte si vedesse costretta a esercitare quella imprevedibile discrezionalità relativa alla fase delle restituzioni, si sarebbe al fine modificato l'art.139 Cost., ("La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale"): ma si sarebbe, per ciò solo, aperta la via alla abrogazione per incompatibilità di tutte le possibili previsioni costituzionali in nome del vincolo esterno.
Insomma, le norme che affrontano il problema dei possibile rispetto degli "accordi nella Comunità" esistono già e sono necessariamente quelle della Costituzione: gli artt. 11 e 139 Cost.
Se non altro perchè la stessa adesione alla Comunità o Unione europea su di essi si fonda e sul loro rispetto va commisurata, arrivandosi altrimenti al dissolvimento, dichiarato, della stessa originaria legittimità costituzionale della scelta negoziale compiuta aderendo al trattato, che presuppone necessariamente un aderente che sia uno Stato "sovrano": e rinunciare ad esserlo, gli sottrae la stessa qualità di parte del trattato, facendo venire meno, unilateralmente, quella stessa legittimazione che le altre parti contraenti, invece, mantengono e fanno valere, come dimostrano le prese di posizione che paesi come la Germania, o la Francia, o il Regno Unito, costantemente assumono sull'applicazione delle norme dei trattati.


8. Non bisogna infatti dimenticare che, come avvertimmo fin dai primissimi post, secondo Mortati:
la "forma repubblicana, considerata nel sistema della costituzione, non è solo una soprastruttura formale, ma invece elemento coessenziale al regime (democratico ndr) che, per essere basato su una "democrazia del lavoro", non tollera nessuna forma di privilegio nè attribuzioni di funzioni non collegate a meriti individuali, quali sono quelle che provengono da trasmissione ereditaria del potere...".
Lo stesso massimo costituzionalista italiano, con riguardo ai rapporti tra ordinamento (allora) comunitario e Costituzione aveva affermato - in linea con sostanziali affermazioni della Corte costituzionale nello stesso senso - , in specie sui c.d. "controlimiti" interni alla "prevalenza" del diritto europeo:
"Passando all'esame dei limiti (di questa prevalenza ndr)...è da ritenere che essi debbano ritrovarsi in tutti i principi fondamentali, sia organizzativi che materiali, o scritti o impliciti, della costituzione: sicchè la sottrazione dell'esercizio di alcune competenze costituzionalmente spettanti al parlamento, al governo, alla giurisdizione,...deve essere tale da non indurre alterazioni del nostro stato come stato di diritto democratico e sociale (il che renderebbe fortemente dubbia la stessa ratificabilità del trattato di Maastricht e poi di Lisbona, ndr).
Non è possibile distinguere, fra le disposizioni costituzionali, quelle che riguardino i diritti e i doveri dei cittadini e le altre attinenti all'organizzazione, poichè vi è tutta una serie di diritti rispetto a cui le norme organizzative si presentano come strumentali alla loro tutela (rappresentatività delle assembleee legiferanti; precostituzione del giudice, organizzazione della giurisdizione tale da assicurare la pienezza del diritto di difesa ecc.). Pertanto il trasferimento di competenze dagli organi interni a quelli comunitari in tanto deve ritenersi ammissibile in quanto appaia sussistente, non già un'identità di struttura tra gli uni e gli altri, ma il loro sostanziale informarsi ad analoghi criteri in modo che risultino soddisfatte le esigenze caratterizzanti il nostro tipo di stato".


Pubblicato da Quarantotto a 10:12 24 commenti:
 

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