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MA DOVE SI VA PUNTANDO SULLA DOMANDA INTERNA"? E ALLORA, PIU' GLOBALIZZAZIONE (SELETTIVA: TTIP) E RIFORME PER TUTTI
http://ourfiniteworld.com/2015/02/05/charts-showing-the-long-term-gdp-energy-tie-part-2-a-new-theory-of-energy-and-the-economy/
1. Oggi si stanno lamentando della crisi dei BRICS che porrebbe in pericolo il meraviglioso mondo della crescita "tumultuosa e maravigliosa" ottenibile, a quanto pare solo con la "globalizzazione".
Almeno così leggiamo: naturalmente, riponendosi somma fiducia nel paradigma liberoscambista - (liberalizzazione dei capitali, accordi tariffari e sulle barriere non tariffarie, adozione del complementare modello "universale" di banca e, naturalmente, banche centrali indipendenti dai governi eletti, si spera, democraticamente)-, si auspica che nei BRICS si facciano più "riforme". E cioè si apra ulteriormente al commercio estero (leggi importazioni in cambio di materie prime), favorendo gli investimenti esteri (leggi mercato del lavoro totalmente liberalizzato e precarizzato e privatizzazioni delle industrie e assets pubblici degli stessi BRICS).
E tutto questo, appunto, affinchè riprenda...la crescita, nei paesi emergenti come anche, appunto, grazie alle esportazioni, nei paesi dell'eurozona e in quelli esportatori di capitali a vario titolo: gli USA, infatti, fanno un gioco a sè, pur essendo importatori di ultima istanza per tutto il mondo.
2. Che, però, ora, vorrebbero legare a sè, e più esattamente al dollaro, attraverso i trattati "ultraoceanici" - TPP e TTIP+ TISA-, che servono essenzialmente a creare una dipendenza finanziaria delle intere aree coinvolte dal dollaro e dalla invasione a tappeto dei grandi istituti finanziari USA sui settori da liberalizzare, lasciando la specializzazione manifatturiera di Giappone e Germania in posizione di preminenza, mentre tutto il resto dei paesi coinvolti sarebbero grosso modo colonizzati, finanziariamente e industrialmente.
Creata questa "dipendenza", tutto ciò che sarebbe al di fuori delle macro-aree liberoscambiste e altamente riformate (con l'appiattimento dei mercati del lavoro e dei welfare sul modello USA, beninteso), sarebbe politicamente costretto a trattare da posizione di minor forza e piegabile a più miti consigli circa l'autonomia dei rispettivi sistemi di sviluppo (in particolare circa l'apertura delle rispettive economia ai grandi gruppi finanziario-industriali, veri e propri oligopoli e monopoli mondiali, rimasti in piedi nelle aree TPP e TTIP).
3. Creerebbe tutto ciò un ritorno alla crescita?
La domanda, riferita alle prospettive future, è retorica e quasi ingenua: si creerebbe un grande sistema di debitori, indubbiamente, sia per flussi di capitali a titolo di investimento di controllo sui paesi indeboliti, dentro e fuori le aree dei nuovi trattati, sia a titolo di afflusso di finanziamento del consumo di beni importati. L'indebitamento sarebbe vieppiù inevitabile, con tutti i cicli di Minsky-Frenkel, che ciò comporta, atteso il sicuro depauperamento del livello salariale di tutte le economie del mondo, in un tale ambiente di liberoscambismo "ineguale" e con Stato inevitabilmente "minimo" (come deve rigorosamente essere fin dai tempi dei trattati imposti con le cannoniere).
Ma quello che risolve l'interrogativo è l'esame del passato della globalizzazione, cioè il concetto di ritorno alla presunta super-crescita dovuta alla globalizzazione. L'assunto è semplicemente falso, perchè questa tumultuosa crescita aggiuntiva, rispetto al passato ("ottusamente" protezionista e statalista) semplicemente non si è verificata.
4. Al riguardo, ci basterà rammentare i dati, nudi e crudi, che si offre Ha-Joon Chang, in "Bad Samaritans" (capitolo 1, "The real history of globalization", pagg.6-14).
Ebbene, già al tempo dei "misfatti" dell'Impero inglese, - che pur ammessi non portano gli storici ad ammettere altrettanto la realtà economica conseguente e induce anzi a continuare a lodare gli effetti positivi "per tutti i paesi coinvolti" della globalizzazione "imperialista" dell'800-, l'Asia, che prima dei trattati aveva paesi al vertice dei PIL mondiali (tipicamente la Cina nella prima parte del secolo) crebbe solamente dello 0,4% all'anno tra il 1870 e il 1913.
L'Africa, il più vantato esempio di civilizzazione e progesso free-trade colonialista, crebbe, nello stesso periodo, dello 0,6%.
Europa e USA crebbero invece, rispettivamente, dell'1,3 e dell1,8% in media negli stessi anni. Notare che i paesi dell'America Latina, che nello stesso periodo recuperarono autonomia tariffaria e di politica economica, crebbero allo stesso livello degli USA! (Tralasciamo gli eventi susseguenti alla crisi del '29, quando i free-traders dominanti, abbandonarono il gold-standard e aumentarono sensibilmente le tariffe alle importazioni, prima nei settori dell'agricoltura e poi in generale nell'industria manifatturiera)
5. Che accadde nel dopoguerra del 1945, quando si verificò il progessivo smantellamento del colonialismo e l'adozione degli Stati interventisti praticamente in tutto il mondo, sviluppato (e in ricostruzione) o in "via di sviluppo" (col tanto deprecato neo-protezionismo, da incentivazione pubblica all'industria nazionale e alla ricerca)?
Riassuntivamente: nei deprecati anni del protezionismo, rigettato come Satana dai vari governatori di tutte le banche centrali del mondo divenute indipendenti, in specie negli anni '60 ne '70, i paesi in via di sviluppo che adottarono le "politiche "sbagliate" del protezionismo, crebbero del 3% in media all'anno. questo dato, sottolinea Chang, è il migliore che, tutt'ora, abbiano mai accumulato.
Ma gli stessi "paesi sviluppati" crebbero, negli stessi decenni, al ritmo di 3,2% medio all'anno.
6. Poi intervenvengono le liberalizzazioni alla circolazione dei capitali e gli accordi tariffari: i paesi sviluppati, già negli anni '80 vedono la crescita media annuale abbattersi al 2,1%.
Anche questi facevano le riforme, e infatti gli effetti di deflazione e rallentamento della crescita si vedono (finanziarizzazione e redistribuzione verso l'alto del reddito crescono a scapito delle invecchiate cemodrazie sociali). Ma le riforme più intense, sono imposte proprio ai paesi in via di sviluppo, tramite il solito FMI: è qui che si registra il calo della crescita più marcato.
I paesi emergenti, infatti, debitamente "riformati" e "aperti" nelle loro economie, vedono la crescita praticamente dimezzarsi dal 3% a circa la metà, negli anni '80-'90, cioè all'1,7 medio annuo.
Ma attenzione: la decrescita "infelice", cioè l'impoverimento neo-colonizzatore, sarebbero ancora più marcati sei escludessero Cina e India. Infatti, nota Chang, questi paesi si imposero progressivamente alla crescita, realizzando un 30% del prodotto globale dei paesi in via di sviluppo già nel 200 (dal 12% degli anni '80): ma India e Cina rifiutarono il Washington Consensus e le "riforme" stile "golden straitjacket tanto propugnate dal noto Thomas Friedman (che abbiamo visto in questo specifico post).
7. La "growth failure" del nuovo delirio free-trade, che tanto oggi si teme possa entrare in crisi per la crescente ri-chiusura delle economie, dovuta alle assurde politiche svolte, naturalmente, a livello "nazionale" (povera Germania che si aspettava di esportare in Cina! Sicut dicunt, appunto cono certezza aristotelica), si sentì proprio in Africa e in America Latina, dove le riforme FMI furono imposte molto più intensamente che in Asia: dal dimezzamento della crescita degli anni interlocutori delle riforme che abbiamo visto, si passa negli anni 2000 (a riforme essenzialmente attuate) allo 0,6 annuo in America Latina, mentre in Africa abbiamo un autentico crollo che coincide con il massiccio arrivo dei "consiglieri" economici FMI e World Bank.
Commento di Chang: "la scarsa crescita registrata sotto la globalizzazione neo-liberale a partire dagli anni '80, è particolarmente imbarazzante. Accelerare la "crescita" - se necessario a costo di aumentare l'ineguaglianza e possibilmente la stessa povertà - era lo scopo proclamato delle riforme neo-liberiste. Avevano ripetuto più volte che si deve anzitutto "creare più ricchezza" prima di poterla distribuire più ampiamente e che il neo-liberismo fosse la via per realizzare ciò. Come esito delle politiche neo-liberiste, la disuguaglianza di reddito è aumentata nella maggior parte dei paesi del mondo come previsto, ma pure la crescita ha effettivamente rallentato significativamente".
8. Naturalmente, tutto questo schema si applica perfettamente all'eurozona. Come?
Per chi lo avesse dimenticato lo abbiamo visto qui...e prima ancora qui.
E quindi, andiamo avanti felici, perchè come dice un espertone oggi in un dotto editoriale "ma dove si va puntando sulla domanda interna?"
Pubblicato da Quarantotto a 11:49 Nessun commento:
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sabato 15 agosto 2015
LA RICRESCITA FENICE ALLA PROVA DELL'€UROPA ORDOLIBERISTA INCATTIVITA
1. La notizia ormai la sapete: il 2° trimestre del 2015 riserva all'Italia-€urofizzata una "crescita" dello 0,2% (provvisoriamente, e sottolineo provvisoriamente) e ci ha accreditato di uno 0,5 di crescita globale sul giugno 2014.
Notate che, a proposito di provvisorietà, la crescita del 1° trimestre è stata in realtà corretta dallo 0,3 allo 0,2, cosa che porta la crescita nei primi sei mesi del 2015 allo 0,4.
Tutto bene, dunque, per realizzare lo 0,8 (o lo 0,7 del DEF) su cui, alla fine, -dopo roboanti previsioni di crescita sopra l'1% più volte annunziate da Confindustria- farebbe conto il governo per "agganciare" la crescita stimolata, a quanto pare, dal QE e dall'andamento ribassista del corso dell'euro rispetto al dollaro?
2. Neanche per sogno: per un'analisi dei drive della crescita rinviamo al buon Maurizio Gustinicchi che evidenzia:
Osservate bene, contributo positivo della componente nazionale al lordo delle scorte, con apporto negativo della componente estera netta!
Ora, noi sappiamo che la FCA (Marchionne) sta producendo a pieno regime, e questo è bene per l’Italia poiché siamo trascinati tutti quanti dalla FCA, ma sappiamo anche che, mediamente, le aziende italiane lavorano sul mercato interno nella misura del 65% e che mancando questo mercato gli imprenditori smettono di investire.
Ad un certo punto Renzi ha dato risposte a Confindustria (art. 18) pretendendo risposte da questi signori e le risposte non sono tardate ad arrivare, le scorte azzerate dal 2011 (cioè dall’arrivo di Monti in poi) hanno cominciato a ricrescere. Eppure Squinzi ieri era molto preoccupato...
Se si investe in scorte, riempiendo i magazzini, arriva il momento in cui se nessuno compra che gli imprenditori rallentano la propria spinta propulsiva (FCA a parte che piazza tutti i Renegade in USA).

E questo è normale, in Italia non c’è più mercato per nessun bene (pensate che neanche i negozi dei cinesi vendono più); paradossalmente, la valuta forte (€) e il rallentamento del commercio mondiale, stanno mettendo in crisi anche la componente estera netta. A chi vendiamo? Ed infatti, mentre USA e UK, dove sono molto più Keynesiani che da noi nonostante Cameron sia di destra e i Repubblicani in USA siano maggioranza in parlamento contro Obama, la crescita è notevole:

Mentre da noi, da quando Monti ha pesantemente introdotto l’austerità espansiva, la stagnazione economica la fa da padrone e ciò si trasforma poi, al massimo, in una curva del PIL piatta:

Se non si ha un mercato a cui vendere, come pensiate sia possibile per gli Squinzi di turno investire costantemente in scorte di magazzino o investire?"
2. Il sito Bankitalia preannuncia il Bollettino relativo ai dati aggiornati della bilancia dei pagamenti al giugno 2015 (SCADENZA DEL 2° TRIMESTRE) per il 19 agosto. Intanto, prendiamo a riferimento il dato disponibile nel mese di luglio, riferito al mese di maggio del 2015.
Ebbene, il saldo del conto corrente è risultato pari a 36,120 miliardi, contro un saldo a maggio 2014 di 21,587.
Supponiamo un miglioramento del saldo di giugno 2015 in linea con quello maggio 2014-giugno 2015, cioè una differenza positiva (tutta da riscontrare nella realtà) di circa (quasi) 15 miliardi: vorrebbe dire che i conti commerciali con l'estero avrebbero apportato un +0,9 punti di PIL.
Invece, il dato che abbiamo di fronte, nel periodo maggio 2014-maggio 2015 (e che ipotizziamo grosso modo omogeneo un mese dopo, a giugno 2015), è di una crescita di +0,5.
Ergo, al netto dell'andamento dei conti con l'estero - appunto favoriti da corso dell'euro, immaginifico QE e prezzo del dollaro (e in generale delle materie prime), la politica economico-fiscale del governo ha complessivamente determinato una variazione negativa del PIL pari a -0,4 punti di PIL (cioè la domanda interna ha "mangiato" in tale misura la crescita della domanda estera).
Tradotto in termini di saldi settoriali, ciò significa che, nel periodo considerato (a cavallo di due diversi esercizi fiscali annuali), l'intervento pubblico, che poi altro non è che la politica €uroimposta, ha prodotto una riduzione del PIL per quasi 28 miliardi (1,75 punti di PIL): se infatti si sottrae al saldo delle partite correnti di maggio (sull'intero anno precedente), pari al già visto dato di 36,120 miliardi, la somma di 28 miliardi, ne risulta una crescita residua, tutta realizzata in esportazioni, di circa 0,5 punti.
In realtà, questa ipotesi potrebbe essere corrispondente al vero, come ci illustra l'analisi di Maurizio sopra riportata: investimenti e consumi interni sono al palo, anzi, proseguono in misura negativa e l'unico traino è la domanda estera.
Ancora una volta, la crescita del prodotto è essenzialmente dovuta alla crescita delle scorte, cioè all'accumulo di magazzino in vista di una futura ed eventuale vendita.
Se questa però si realizza solo (o essenzialmente) all'estero, per condizioni valutarie e di commodities eccezionalmente favorevoli, e non durevoli in modo prolungato e consistente - come ci mostra la svalutazione a sua volta già intrapresa dalla Cina-, vorrà dire che gli investimenti lordi sono appena "di sopravvivenza dell'esistente" e che gli investimenti netti, cioè i nuovi impianti per nuovi posti di lavoro, una mera chimera fuori da ogni realtà ragionevole.
3. Il punto, che ci fornisce sufficienti certezze al riguardo, è che l'austerità proseguirà: nel precedente post, lo diciamo subito, ci eravamo sbagliati perchè troppo ottimisti.
In realtà, il target di deficit che la Commissione spulcerà a ottobre, in relazione alla legge di stabilità, non sarà sopra il 2%, con possibilità di accomodamenti per "riforme strutturali" ovvero per la presunta cumulabilità della clausola degli investimenti, prevista dall'art.126 del TFUE e rimasta praticamente disapplicata, con buona pace delle speranze di Padoan e dei giornaloni che ce la stanno rivendendo.
Il target del deficit "dovrebbe" essere di 1,4 (!), proprio 1,4: ciò è il frutto del "recupero" imposto dal primo anno di gestione dell'attuale governo, che avrebbe dovuto tagliare di circa 0,6 punti il deficit di 2,6 realizzato dal governo Letta a fine 2013 (portandolo così intorno al 2%) e che, invece, risultò (appunto alla fine del 2014, complici gli 80 euro elargiti alla vigilia delle elezioni europee), in un tondo 3%.
La conseguenza, a considerare attentamente le regole del fiscal compact sugli obiettivi intermedi di pareggio strutturale di bilancio, è che non solo ci si trova a recuperare quel punto di PIL di sforamento, ma, ad esso, è da aggiungere la quota di un ulteriore 0,6 di taglio relativo al 2016: risultato, il deficit €uro-imposto dovrebbe a rigore essere del predetto 1,4 (il calcolo viene lo stesso se il doppio 0,6, cioè 1,2, venga sottratto al deficit previsto per il 2015, pari a 2,65 - ma grazie alla concessa flessibilità).
Ci siamo?
Ora, all'1,8 si arriverebbe proprio grazie alla fatidica riforma strutturale della preannunziata contrattazione aziendale (che completa il jobs act, ragione della tolleranza lasciata per il 2015) nonchè della maggior licenziabilità di dirigenti e dipendenti pubblici, contenuta nella legge-delega detta di "riforma della pubblica amministrazione" (approvata pochi giorni fa e da completare coi relativi decreti delegati).
Pertanto, il consolidamento imposto per il 2016 sarà piuttosto consistente...a meno che non sia mitigato per arrivare ad un target "solo" del 2% di deficit grazie alla suddetta "fantomatica" clausola degli investimenti.
Un inasprimento di tasse e tagli alla spesa pubblica di tale misura, porterà una diminuzione del PIL, nonostante la "illusione finanziaria" di qualche sgravio fiscale rigorosamente finanziato con altre tassi o con tagli dei servizi (quelli sanitari in testa), di circa 1,8 punti di PIL.
Forse più, se si faranno prendere la mano da privatizzazioni, cioè da privazioni delle entrate pubbliche da "utili" realizzate dalle imprese pubbliche privatizzate (v. ad es; Poste Italiane), e dalla revisione delle rendite catastali in base a prezzi di mercato del tutto superati ed irrealistici.
Questo ci dà fin da ora la certezza che la crescita del PIL nel 2016 non sarà, come viene venduto fin da ora, di 1 punto e qualche decimale ("dicono" 1,4!).
Anche ammettendo la tenuta dei conti con l'estero (in assenza ormai molto prolungata di investimenti netti e persino di quelli "veri" lordi che non siano riversati nelle scorte), sui ritmi attuali, cioè ipotizzando il mantenimento della svalutazione dell'euro e dei bassi prezzi del petrolio, la crescita più ottimisticamente realizzabile nel 2016 sarebbe di pochi decimali: diciamo uno 0,4%. E stiamo già facendo calcoli che sono costretti a scontare uno scenario discretamente ottimistico.
4. Ma non è finita: cosa succederà ancora nel 2015?
Allo 0,4 fin qui accumulato (provvisorio, perchè abbiamo già visto che il dato del primo trimestre è stato poi rivisto al ribasso da 0,3 a 0,2, e, pur essendo un decimale, costituisce un terzo della crescita relativa), seguirà un secondo semstre con una crescita simmetrica, raggiungendo, più o meno, lo 0,7 annuale programmatico del DEF?
Beh questo dipenderà da alcune ipotetiche condizioni:
a) che il consuntivo dei conti alla fine dell'anno, diciamo all'aggiornamento del DEF di settembre, sia in linea col dato €uro-imposto di 2,65 di deficit pubblico: se così non sarà e, come pare probabile, il dato sarà superiore, bisognerà mettere mano ad una tipica manovrina correttiva di aumenti delle accise, bolli e aliquote speciali, che prepara la vera e propria manovra per il 2016 nella seconda parte dell'anno, nelle italiche usanze di epoca €uropea;
b) che, poi, la manovra di tagli e tasse per il 2015 stesso non abbia un effetto posticipato più incidente nel secondo trimestre, nel senso che potrebbe risultare che le misure già adottate debbano ancora dispiegare i loro principali effetti, programmati per la parte dell'anno successiva a quella..in cui si è votato.
Avevamo infatti stimato, tra mille difficoltà di individuazione delle misure di consolidamento e specialmente di "spending review" intrecciate negli ultimi anni, che l'impatto depressivo del PIL per il 2015, di origine fiscale, fosse di circa 1,9/2 punti di PIL (dovremmo già includerci l'effetto pro-rata dell'inasprimento sul fronte sanitario circa la rimborsabilità di 180 prestazioni diagnostiche e specialistiche);
c) che, infine, la domanda estera tenga nonostante tutto. Un punto non affatto scontato e che potremo vedere verificato nelle prossime settimane e che, oltretutto, ci fornirà la misura della verosimiglianza della crescita (minima) prevista per il 2016.
5. Non ci rimane che rammentare:
"...ci pare più "produttivo" rammentare gli "ostacoli" (culturali) profondi ed esiziali che, inalterati rispetto a quanto evidenziato un anno fa, si frappongono all'adozione di corrette politiche di salvezza nazionale:
- l'ordoliberismo che, - per ammissione non ufficiosa degli stessi massimi organi di governance UEM, oltre che per espressa previsione delle norme fondamentali dei trattati-, è (nelle intenzioni irremovibili di tale governance) destinato a solidificarsi nell'area UEM, è una costruzione ormai altamente instabile.
- Essa, nella rigidità delle intenzioni programmatiche confermate dopo le recenti elezioni (contro ogni evidenza dei suoi risultati), implica un modello deflattivo salariale accelerato che passa per il mantenimento di un'alto tasso di disoccupazione, con una meramente formale lotta contro la deflazione - irrealisticamente curata dalle nuove misure di Draghi, volte in realtà alla difficilissima costrizione della Germania alla reflazione-, e il perseguimento prioritario delle riforme liberalizzatrici "finali" del lavoro (sostanzialmente totale liberalizzazione del licenziamento in ogni settore, voluta dagli USA anche come precondizione essenziale del futuro Ttip, cioè dell'area di liberoscambio USA-UE);
- poichè tale complesso di misure, - sempre ambiguamente rilevabili tra le righe, dovendo l'ordoliberismo per sua natura esprimersi in modo tattico e dissimulato dai media-, ha come effetto l'acuirsi nel tempo dei problemi di caduta della domanda interna nell'area UEM, e (semmai) lo stabilizzarsi di un surplus commerciale complessivo dell'area stessa, le stesse misure sono destinate ad un fallimento estremamente doloroso per i popoli europei.
- Fallimento doloroso in particolare per il nostro, che essendo fortemente patrimonializzato (almeno nelle valutazioni dello "ieri") e (l'unico) super-fedele nella realizzazione dei vincoli fiscali, va sicuramente incontro a fasi di recessione alternata a stagnazione, per un lungo e insostenibile periodo, cui sarà inevitabilmente accompagnata la svendita dei suoi, sempre più svalorizzati, asset patrimoniali pubblici e privati, resi convenienti per i paesi creditori e gli investitori finanziari esteri, secondo la logica del "tacchino da spennare" (inutile sottolineare l'enfasi che, anche oggi, personaggi come Fortis o Prodi, pongono sugli IDE come presunto sistema di rilancio della nostra economia e persino dell'occupazione!);
- dovendo considerare la compatta ortodossia delle forze politiche italiane a questo modello, prima di dichiarare fallimento, c'è il rischio concreto che passino degli anni e che l'Italia sia perciò, in tale breve periodo, ridotta a "fabbrica cacciavite" e a hub turistico a controllo estero (naturalmente), subendo una deindustrializzazione irreversibile che non le consentirà più di riprendersi il suo posto tra le maggiori potenze industriali europee e mondiali.
- Nondimeno, il costo del fallimento ineluttabile del modello deflazionistico-mercantilistico imposto dall'UEM, quand'anche scontassimo le pressioni USA sulla correzione reflattiva del surplus della Germania (comunque contraddittorie rispetto alla ripresa della domanda interna, essendo affidate alla sola politica monetaria ed irremovibile sul problema del costo del lavoro), rispondendo a calcoli e terapie già rivelatesi sbagliate su entrambe le sponde dell'Atlantico, condurrà la Germania a prendere atto dell'eccessivo rischio di intervento, ancorchè indiretto, a sostegno finanziario degli altri maggiori paesi, in particolare della Francia.
- Quest'ultima, a sua volta, essendo già soggetta a forti tensioni politiche interne, non potrà ancora a lungo gradire un sistema che comunque non le consentirebbe di correggere a sufficienza la propria competitività extra-UEM (dato il corso dell'euro rispetto al dollaro, non mitigabile realisticamente con le politiche intraprese dalla BCE), per finire sotto l'influenza finanziaria dominante della Germania, secondo un'inesorabile proiezione, quale ci ha evidenziato Brigitte Granville.
- Risultato: l'Italia ha la altissima probabilità di finire nella situazione sintetizzata da Churchill alla vigilia della seconda guerra mondiale ("potevate scegliere tra la guerra e il disonore: avete scelto il disonore e avrete la guerra"). Cioè sarà ridotta a manifatturiero "cacciavite", espropriata del controllo dei principali gruppi industriali, costretta a livelli di reddito irrecuperabili rispetto al periodo ante-entrata nella moneta unica, e DOVRA' COMUNQUE FRONTEGGIARE L'EURO-BREAK, innescato dalla Germania o dalla stessa Francia!
Appunto, la Francia (per dire...).
Pubblicato da Quarantotto a 20:10 8 commenti:
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giovedì 13 agosto 2015


http://ourfiniteworld.com/2015/02/05/charts-showing-the-long-term-gdp-energy-tie-part-2-a-new-theory-of-energy-and-the-economy/
1. Oggi si stanno lamentando della crisi dei BRICS che porrebbe in pericolo il meraviglioso mondo della crescita "tumultuosa e maravigliosa" ottenibile, a quanto pare solo con la "globalizzazione".
Almeno così leggiamo: naturalmente, riponendosi somma fiducia nel paradigma liberoscambista - (liberalizzazione dei capitali, accordi tariffari e sulle barriere non tariffarie, adozione del complementare modello "universale" di banca e, naturalmente, banche centrali indipendenti dai governi eletti, si spera, democraticamente)-, si auspica che nei BRICS si facciano più "riforme". E cioè si apra ulteriormente al commercio estero (leggi importazioni in cambio di materie prime), favorendo gli investimenti esteri (leggi mercato del lavoro totalmente liberalizzato e precarizzato e privatizzazioni delle industrie e assets pubblici degli stessi BRICS).
E tutto questo, appunto, affinchè riprenda...la crescita, nei paesi emergenti come anche, appunto, grazie alle esportazioni, nei paesi dell'eurozona e in quelli esportatori di capitali a vario titolo: gli USA, infatti, fanno un gioco a sè, pur essendo importatori di ultima istanza per tutto il mondo.
2. Che, però, ora, vorrebbero legare a sè, e più esattamente al dollaro, attraverso i trattati "ultraoceanici" - TPP e TTIP+ TISA-, che servono essenzialmente a creare una dipendenza finanziaria delle intere aree coinvolte dal dollaro e dalla invasione a tappeto dei grandi istituti finanziari USA sui settori da liberalizzare, lasciando la specializzazione manifatturiera di Giappone e Germania in posizione di preminenza, mentre tutto il resto dei paesi coinvolti sarebbero grosso modo colonizzati, finanziariamente e industrialmente.
Creata questa "dipendenza", tutto ciò che sarebbe al di fuori delle macro-aree liberoscambiste e altamente riformate (con l'appiattimento dei mercati del lavoro e dei welfare sul modello USA, beninteso), sarebbe politicamente costretto a trattare da posizione di minor forza e piegabile a più miti consigli circa l'autonomia dei rispettivi sistemi di sviluppo (in particolare circa l'apertura delle rispettive economia ai grandi gruppi finanziario-industriali, veri e propri oligopoli e monopoli mondiali, rimasti in piedi nelle aree TPP e TTIP).
3. Creerebbe tutto ciò un ritorno alla crescita?
La domanda, riferita alle prospettive future, è retorica e quasi ingenua: si creerebbe un grande sistema di debitori, indubbiamente, sia per flussi di capitali a titolo di investimento di controllo sui paesi indeboliti, dentro e fuori le aree dei nuovi trattati, sia a titolo di afflusso di finanziamento del consumo di beni importati. L'indebitamento sarebbe vieppiù inevitabile, con tutti i cicli di Minsky-Frenkel, che ciò comporta, atteso il sicuro depauperamento del livello salariale di tutte le economie del mondo, in un tale ambiente di liberoscambismo "ineguale" e con Stato inevitabilmente "minimo" (come deve rigorosamente essere fin dai tempi dei trattati imposti con le cannoniere).
Ma quello che risolve l'interrogativo è l'esame del passato della globalizzazione, cioè il concetto di ritorno alla presunta super-crescita dovuta alla globalizzazione. L'assunto è semplicemente falso, perchè questa tumultuosa crescita aggiuntiva, rispetto al passato ("ottusamente" protezionista e statalista) semplicemente non si è verificata.
4. Al riguardo, ci basterà rammentare i dati, nudi e crudi, che si offre Ha-Joon Chang, in "Bad Samaritans" (capitolo 1, "The real history of globalization", pagg.6-14).
Ebbene, già al tempo dei "misfatti" dell'Impero inglese, - che pur ammessi non portano gli storici ad ammettere altrettanto la realtà economica conseguente e induce anzi a continuare a lodare gli effetti positivi "per tutti i paesi coinvolti" della globalizzazione "imperialista" dell'800-, l'Asia, che prima dei trattati aveva paesi al vertice dei PIL mondiali (tipicamente la Cina nella prima parte del secolo) crebbe solamente dello 0,4% all'anno tra il 1870 e il 1913.
L'Africa, il più vantato esempio di civilizzazione e progesso free-trade colonialista, crebbe, nello stesso periodo, dello 0,6%.
Europa e USA crebbero invece, rispettivamente, dell'1,3 e dell1,8% in media negli stessi anni. Notare che i paesi dell'America Latina, che nello stesso periodo recuperarono autonomia tariffaria e di politica economica, crebbero allo stesso livello degli USA! (Tralasciamo gli eventi susseguenti alla crisi del '29, quando i free-traders dominanti, abbandonarono il gold-standard e aumentarono sensibilmente le tariffe alle importazioni, prima nei settori dell'agricoltura e poi in generale nell'industria manifatturiera)
5. Che accadde nel dopoguerra del 1945, quando si verificò il progessivo smantellamento del colonialismo e l'adozione degli Stati interventisti praticamente in tutto il mondo, sviluppato (e in ricostruzione) o in "via di sviluppo" (col tanto deprecato neo-protezionismo, da incentivazione pubblica all'industria nazionale e alla ricerca)?
Riassuntivamente: nei deprecati anni del protezionismo, rigettato come Satana dai vari governatori di tutte le banche centrali del mondo divenute indipendenti, in specie negli anni '60 ne '70, i paesi in via di sviluppo che adottarono le "politiche "sbagliate" del protezionismo, crebbero del 3% in media all'anno. questo dato, sottolinea Chang, è il migliore che, tutt'ora, abbiano mai accumulato.
Ma gli stessi "paesi sviluppati" crebbero, negli stessi decenni, al ritmo di 3,2% medio all'anno.
6. Poi intervenvengono le liberalizzazioni alla circolazione dei capitali e gli accordi tariffari: i paesi sviluppati, già negli anni '80 vedono la crescita media annuale abbattersi al 2,1%.
Anche questi facevano le riforme, e infatti gli effetti di deflazione e rallentamento della crescita si vedono (finanziarizzazione e redistribuzione verso l'alto del reddito crescono a scapito delle invecchiate cemodrazie sociali). Ma le riforme più intense, sono imposte proprio ai paesi in via di sviluppo, tramite il solito FMI: è qui che si registra il calo della crescita più marcato.
I paesi emergenti, infatti, debitamente "riformati" e "aperti" nelle loro economie, vedono la crescita praticamente dimezzarsi dal 3% a circa la metà, negli anni '80-'90, cioè all'1,7 medio annuo.
Ma attenzione: la decrescita "infelice", cioè l'impoverimento neo-colonizzatore, sarebbero ancora più marcati sei escludessero Cina e India. Infatti, nota Chang, questi paesi si imposero progressivamente alla crescita, realizzando un 30% del prodotto globale dei paesi in via di sviluppo già nel 200 (dal 12% degli anni '80): ma India e Cina rifiutarono il Washington Consensus e le "riforme" stile "golden straitjacket tanto propugnate dal noto Thomas Friedman (che abbiamo visto in questo specifico post).
7. La "growth failure" del nuovo delirio free-trade, che tanto oggi si teme possa entrare in crisi per la crescente ri-chiusura delle economie, dovuta alle assurde politiche svolte, naturalmente, a livello "nazionale" (povera Germania che si aspettava di esportare in Cina! Sicut dicunt, appunto cono certezza aristotelica), si sentì proprio in Africa e in America Latina, dove le riforme FMI furono imposte molto più intensamente che in Asia: dal dimezzamento della crescita degli anni interlocutori delle riforme che abbiamo visto, si passa negli anni 2000 (a riforme essenzialmente attuate) allo 0,6 annuo in America Latina, mentre in Africa abbiamo un autentico crollo che coincide con il massiccio arrivo dei "consiglieri" economici FMI e World Bank.
Commento di Chang: "la scarsa crescita registrata sotto la globalizzazione neo-liberale a partire dagli anni '80, è particolarmente imbarazzante. Accelerare la "crescita" - se necessario a costo di aumentare l'ineguaglianza e possibilmente la stessa povertà - era lo scopo proclamato delle riforme neo-liberiste. Avevano ripetuto più volte che si deve anzitutto "creare più ricchezza" prima di poterla distribuire più ampiamente e che il neo-liberismo fosse la via per realizzare ciò. Come esito delle politiche neo-liberiste, la disuguaglianza di reddito è aumentata nella maggior parte dei paesi del mondo come previsto, ma pure la crescita ha effettivamente rallentato significativamente".
8. Naturalmente, tutto questo schema si applica perfettamente all'eurozona. Come?
Per chi lo avesse dimenticato lo abbiamo visto qui...e prima ancora qui.
E quindi, andiamo avanti felici, perchè come dice un espertone oggi in un dotto editoriale "ma dove si va puntando sulla domanda interna?"
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sabato 15 agosto 2015
LA RICRESCITA FENICE ALLA PROVA DELL'€UROPA ORDOLIBERISTA INCATTIVITA

1. La notizia ormai la sapete: il 2° trimestre del 2015 riserva all'Italia-€urofizzata una "crescita" dello 0,2% (provvisoriamente, e sottolineo provvisoriamente) e ci ha accreditato di uno 0,5 di crescita globale sul giugno 2014.
Notate che, a proposito di provvisorietà, la crescita del 1° trimestre è stata in realtà corretta dallo 0,3 allo 0,2, cosa che porta la crescita nei primi sei mesi del 2015 allo 0,4.
Tutto bene, dunque, per realizzare lo 0,8 (o lo 0,7 del DEF) su cui, alla fine, -dopo roboanti previsioni di crescita sopra l'1% più volte annunziate da Confindustria- farebbe conto il governo per "agganciare" la crescita stimolata, a quanto pare, dal QE e dall'andamento ribassista del corso dell'euro rispetto al dollaro?
2. Neanche per sogno: per un'analisi dei drive della crescita rinviamo al buon Maurizio Gustinicchi che evidenzia:

Osservate bene, contributo positivo della componente nazionale al lordo delle scorte, con apporto negativo della componente estera netta!
Ora, noi sappiamo che la FCA (Marchionne) sta producendo a pieno regime, e questo è bene per l’Italia poiché siamo trascinati tutti quanti dalla FCA, ma sappiamo anche che, mediamente, le aziende italiane lavorano sul mercato interno nella misura del 65% e che mancando questo mercato gli imprenditori smettono di investire.
Ad un certo punto Renzi ha dato risposte a Confindustria (art. 18) pretendendo risposte da questi signori e le risposte non sono tardate ad arrivare, le scorte azzerate dal 2011 (cioè dall’arrivo di Monti in poi) hanno cominciato a ricrescere. Eppure Squinzi ieri era molto preoccupato...
Se si investe in scorte, riempiendo i magazzini, arriva il momento in cui se nessuno compra che gli imprenditori rallentano la propria spinta propulsiva (FCA a parte che piazza tutti i Renegade in USA).

E questo è normale, in Italia non c’è più mercato per nessun bene (pensate che neanche i negozi dei cinesi vendono più); paradossalmente, la valuta forte (€) e il rallentamento del commercio mondiale, stanno mettendo in crisi anche la componente estera netta. A chi vendiamo? Ed infatti, mentre USA e UK, dove sono molto più Keynesiani che da noi nonostante Cameron sia di destra e i Repubblicani in USA siano maggioranza in parlamento contro Obama, la crescita è notevole:

Mentre da noi, da quando Monti ha pesantemente introdotto l’austerità espansiva, la stagnazione economica la fa da padrone e ciò si trasforma poi, al massimo, in una curva del PIL piatta:

Se non si ha un mercato a cui vendere, come pensiate sia possibile per gli Squinzi di turno investire costantemente in scorte di magazzino o investire?"
2. Il sito Bankitalia preannuncia il Bollettino relativo ai dati aggiornati della bilancia dei pagamenti al giugno 2015 (SCADENZA DEL 2° TRIMESTRE) per il 19 agosto. Intanto, prendiamo a riferimento il dato disponibile nel mese di luglio, riferito al mese di maggio del 2015.
Ebbene, il saldo del conto corrente è risultato pari a 36,120 miliardi, contro un saldo a maggio 2014 di 21,587.
Supponiamo un miglioramento del saldo di giugno 2015 in linea con quello maggio 2014-giugno 2015, cioè una differenza positiva (tutta da riscontrare nella realtà) di circa (quasi) 15 miliardi: vorrebbe dire che i conti commerciali con l'estero avrebbero apportato un +0,9 punti di PIL.
Invece, il dato che abbiamo di fronte, nel periodo maggio 2014-maggio 2015 (e che ipotizziamo grosso modo omogeneo un mese dopo, a giugno 2015), è di una crescita di +0,5.
Ergo, al netto dell'andamento dei conti con l'estero - appunto favoriti da corso dell'euro, immaginifico QE e prezzo del dollaro (e in generale delle materie prime), la politica economico-fiscale del governo ha complessivamente determinato una variazione negativa del PIL pari a -0,4 punti di PIL (cioè la domanda interna ha "mangiato" in tale misura la crescita della domanda estera).
Tradotto in termini di saldi settoriali, ciò significa che, nel periodo considerato (a cavallo di due diversi esercizi fiscali annuali), l'intervento pubblico, che poi altro non è che la politica €uroimposta, ha prodotto una riduzione del PIL per quasi 28 miliardi (1,75 punti di PIL): se infatti si sottrae al saldo delle partite correnti di maggio (sull'intero anno precedente), pari al già visto dato di 36,120 miliardi, la somma di 28 miliardi, ne risulta una crescita residua, tutta realizzata in esportazioni, di circa 0,5 punti.
In realtà, questa ipotesi potrebbe essere corrispondente al vero, come ci illustra l'analisi di Maurizio sopra riportata: investimenti e consumi interni sono al palo, anzi, proseguono in misura negativa e l'unico traino è la domanda estera.
Ancora una volta, la crescita del prodotto è essenzialmente dovuta alla crescita delle scorte, cioè all'accumulo di magazzino in vista di una futura ed eventuale vendita.
Se questa però si realizza solo (o essenzialmente) all'estero, per condizioni valutarie e di commodities eccezionalmente favorevoli, e non durevoli in modo prolungato e consistente - come ci mostra la svalutazione a sua volta già intrapresa dalla Cina-, vorrà dire che gli investimenti lordi sono appena "di sopravvivenza dell'esistente" e che gli investimenti netti, cioè i nuovi impianti per nuovi posti di lavoro, una mera chimera fuori da ogni realtà ragionevole.

3. Il punto, che ci fornisce sufficienti certezze al riguardo, è che l'austerità proseguirà: nel precedente post, lo diciamo subito, ci eravamo sbagliati perchè troppo ottimisti.
In realtà, il target di deficit che la Commissione spulcerà a ottobre, in relazione alla legge di stabilità, non sarà sopra il 2%, con possibilità di accomodamenti per "riforme strutturali" ovvero per la presunta cumulabilità della clausola degli investimenti, prevista dall'art.126 del TFUE e rimasta praticamente disapplicata, con buona pace delle speranze di Padoan e dei giornaloni che ce la stanno rivendendo.
Il target del deficit "dovrebbe" essere di 1,4 (!), proprio 1,4: ciò è il frutto del "recupero" imposto dal primo anno di gestione dell'attuale governo, che avrebbe dovuto tagliare di circa 0,6 punti il deficit di 2,6 realizzato dal governo Letta a fine 2013 (portandolo così intorno al 2%) e che, invece, risultò (appunto alla fine del 2014, complici gli 80 euro elargiti alla vigilia delle elezioni europee), in un tondo 3%.
La conseguenza, a considerare attentamente le regole del fiscal compact sugli obiettivi intermedi di pareggio strutturale di bilancio, è che non solo ci si trova a recuperare quel punto di PIL di sforamento, ma, ad esso, è da aggiungere la quota di un ulteriore 0,6 di taglio relativo al 2016: risultato, il deficit €uro-imposto dovrebbe a rigore essere del predetto 1,4 (il calcolo viene lo stesso se il doppio 0,6, cioè 1,2, venga sottratto al deficit previsto per il 2015, pari a 2,65 - ma grazie alla concessa flessibilità).
Ci siamo?
Ora, all'1,8 si arriverebbe proprio grazie alla fatidica riforma strutturale della preannunziata contrattazione aziendale (che completa il jobs act, ragione della tolleranza lasciata per il 2015) nonchè della maggior licenziabilità di dirigenti e dipendenti pubblici, contenuta nella legge-delega detta di "riforma della pubblica amministrazione" (approvata pochi giorni fa e da completare coi relativi decreti delegati).
Pertanto, il consolidamento imposto per il 2016 sarà piuttosto consistente...a meno che non sia mitigato per arrivare ad un target "solo" del 2% di deficit grazie alla suddetta "fantomatica" clausola degli investimenti.
Un inasprimento di tasse e tagli alla spesa pubblica di tale misura, porterà una diminuzione del PIL, nonostante la "illusione finanziaria" di qualche sgravio fiscale rigorosamente finanziato con altre tassi o con tagli dei servizi (quelli sanitari in testa), di circa 1,8 punti di PIL.
Forse più, se si faranno prendere la mano da privatizzazioni, cioè da privazioni delle entrate pubbliche da "utili" realizzate dalle imprese pubbliche privatizzate (v. ad es; Poste Italiane), e dalla revisione delle rendite catastali in base a prezzi di mercato del tutto superati ed irrealistici.
Questo ci dà fin da ora la certezza che la crescita del PIL nel 2016 non sarà, come viene venduto fin da ora, di 1 punto e qualche decimale ("dicono" 1,4!).
Anche ammettendo la tenuta dei conti con l'estero (in assenza ormai molto prolungata di investimenti netti e persino di quelli "veri" lordi che non siano riversati nelle scorte), sui ritmi attuali, cioè ipotizzando il mantenimento della svalutazione dell'euro e dei bassi prezzi del petrolio, la crescita più ottimisticamente realizzabile nel 2016 sarebbe di pochi decimali: diciamo uno 0,4%. E stiamo già facendo calcoli che sono costretti a scontare uno scenario discretamente ottimistico.
4. Ma non è finita: cosa succederà ancora nel 2015?
Allo 0,4 fin qui accumulato (provvisorio, perchè abbiamo già visto che il dato del primo trimestre è stato poi rivisto al ribasso da 0,3 a 0,2, e, pur essendo un decimale, costituisce un terzo della crescita relativa), seguirà un secondo semstre con una crescita simmetrica, raggiungendo, più o meno, lo 0,7 annuale programmatico del DEF?
Beh questo dipenderà da alcune ipotetiche condizioni:
a) che il consuntivo dei conti alla fine dell'anno, diciamo all'aggiornamento del DEF di settembre, sia in linea col dato €uro-imposto di 2,65 di deficit pubblico: se così non sarà e, come pare probabile, il dato sarà superiore, bisognerà mettere mano ad una tipica manovrina correttiva di aumenti delle accise, bolli e aliquote speciali, che prepara la vera e propria manovra per il 2016 nella seconda parte dell'anno, nelle italiche usanze di epoca €uropea;
b) che, poi, la manovra di tagli e tasse per il 2015 stesso non abbia un effetto posticipato più incidente nel secondo trimestre, nel senso che potrebbe risultare che le misure già adottate debbano ancora dispiegare i loro principali effetti, programmati per la parte dell'anno successiva a quella..in cui si è votato.
Avevamo infatti stimato, tra mille difficoltà di individuazione delle misure di consolidamento e specialmente di "spending review" intrecciate negli ultimi anni, che l'impatto depressivo del PIL per il 2015, di origine fiscale, fosse di circa 1,9/2 punti di PIL (dovremmo già includerci l'effetto pro-rata dell'inasprimento sul fronte sanitario circa la rimborsabilità di 180 prestazioni diagnostiche e specialistiche);
c) che, infine, la domanda estera tenga nonostante tutto. Un punto non affatto scontato e che potremo vedere verificato nelle prossime settimane e che, oltretutto, ci fornirà la misura della verosimiglianza della crescita (minima) prevista per il 2016.
5. Non ci rimane che rammentare:
"...ci pare più "produttivo" rammentare gli "ostacoli" (culturali) profondi ed esiziali che, inalterati rispetto a quanto evidenziato un anno fa, si frappongono all'adozione di corrette politiche di salvezza nazionale:
- l'ordoliberismo che, - per ammissione non ufficiosa degli stessi massimi organi di governance UEM, oltre che per espressa previsione delle norme fondamentali dei trattati-, è (nelle intenzioni irremovibili di tale governance) destinato a solidificarsi nell'area UEM, è una costruzione ormai altamente instabile.
- Essa, nella rigidità delle intenzioni programmatiche confermate dopo le recenti elezioni (contro ogni evidenza dei suoi risultati), implica un modello deflattivo salariale accelerato che passa per il mantenimento di un'alto tasso di disoccupazione, con una meramente formale lotta contro la deflazione - irrealisticamente curata dalle nuove misure di Draghi, volte in realtà alla difficilissima costrizione della Germania alla reflazione-, e il perseguimento prioritario delle riforme liberalizzatrici "finali" del lavoro (sostanzialmente totale liberalizzazione del licenziamento in ogni settore, voluta dagli USA anche come precondizione essenziale del futuro Ttip, cioè dell'area di liberoscambio USA-UE);
- poichè tale complesso di misure, - sempre ambiguamente rilevabili tra le righe, dovendo l'ordoliberismo per sua natura esprimersi in modo tattico e dissimulato dai media-, ha come effetto l'acuirsi nel tempo dei problemi di caduta della domanda interna nell'area UEM, e (semmai) lo stabilizzarsi di un surplus commerciale complessivo dell'area stessa, le stesse misure sono destinate ad un fallimento estremamente doloroso per i popoli europei.
- Fallimento doloroso in particolare per il nostro, che essendo fortemente patrimonializzato (almeno nelle valutazioni dello "ieri") e (l'unico) super-fedele nella realizzazione dei vincoli fiscali, va sicuramente incontro a fasi di recessione alternata a stagnazione, per un lungo e insostenibile periodo, cui sarà inevitabilmente accompagnata la svendita dei suoi, sempre più svalorizzati, asset patrimoniali pubblici e privati, resi convenienti per i paesi creditori e gli investitori finanziari esteri, secondo la logica del "tacchino da spennare" (inutile sottolineare l'enfasi che, anche oggi, personaggi come Fortis o Prodi, pongono sugli IDE come presunto sistema di rilancio della nostra economia e persino dell'occupazione!);
- dovendo considerare la compatta ortodossia delle forze politiche italiane a questo modello, prima di dichiarare fallimento, c'è il rischio concreto che passino degli anni e che l'Italia sia perciò, in tale breve periodo, ridotta a "fabbrica cacciavite" e a hub turistico a controllo estero (naturalmente), subendo una deindustrializzazione irreversibile che non le consentirà più di riprendersi il suo posto tra le maggiori potenze industriali europee e mondiali.
- Nondimeno, il costo del fallimento ineluttabile del modello deflazionistico-mercantilistico imposto dall'UEM, quand'anche scontassimo le pressioni USA sulla correzione reflattiva del surplus della Germania (comunque contraddittorie rispetto alla ripresa della domanda interna, essendo affidate alla sola politica monetaria ed irremovibile sul problema del costo del lavoro), rispondendo a calcoli e terapie già rivelatesi sbagliate su entrambe le sponde dell'Atlantico, condurrà la Germania a prendere atto dell'eccessivo rischio di intervento, ancorchè indiretto, a sostegno finanziario degli altri maggiori paesi, in particolare della Francia.
- Quest'ultima, a sua volta, essendo già soggetta a forti tensioni politiche interne, non potrà ancora a lungo gradire un sistema che comunque non le consentirebbe di correggere a sufficienza la propria competitività extra-UEM (dato il corso dell'euro rispetto al dollaro, non mitigabile realisticamente con le politiche intraprese dalla BCE), per finire sotto l'influenza finanziaria dominante della Germania, secondo un'inesorabile proiezione, quale ci ha evidenziato Brigitte Granville.
- Risultato: l'Italia ha la altissima probabilità di finire nella situazione sintetizzata da Churchill alla vigilia della seconda guerra mondiale ("potevate scegliere tra la guerra e il disonore: avete scelto il disonore e avrete la guerra"). Cioè sarà ridotta a manifatturiero "cacciavite", espropriata del controllo dei principali gruppi industriali, costretta a livelli di reddito irrecuperabili rispetto al periodo ante-entrata nella moneta unica, e DOVRA' COMUNQUE FRONTEGGIARE L'EURO-BREAK, innescato dalla Germania o dalla stessa Francia!
Appunto, la Francia (per dire...).
Pubblicato da Quarantotto a 20:10 8 commenti:

giovedì 13 agosto 2015