"ANDRA' TUTTO BENE" E' GIA' STATO DETTO?

Non solo gli oligarchi russi.

Anche il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha un tesoro nascoso in Italia.

Ne parla il Fatto Quotidiano, che spiega come si tratti di una

"villa di lusso a Forte dei Marmi,

nel centro balneare preferito dai russi che amano la Versilia.

Sei camere da letto, quindici stanze e una grande piscina nel giardino.

L’acquisto portato a termine due anni fa, per 3,8 milioni di euro, da Volodymyr Zelensky

non è l’unico bene detenuto all’estero dal presidente ucraino".


Non solo.

Continua il Fatto:

"Oltreconfine, in posti fiscalmente molto più vantaggiosi dell’Italia,

l’uomo che Vladimir Putin ha individuato come nemico pubblico numero uno

ha parecchie altre attività.

O almeno le aveva, sicuramente fino a poco prima di essere eletto, nel 2019, a capo del Paese.

Quattro società offshore, per la precisione, di cui solo tre dichiarate pubblicamente una volta eletto".



Per quanto riguarda il tesoro italiano, Il Fatto Quotidiano spiega che

"la villa in Toscana di Zelensky sarebbe in affitto a 12 mila euro al mese,

anche se qualcuno dice che la proprietà è stata messa in vendita.

Più chiara la situazione delle fortune offshore dell’ex attore comico diventato leader politico dell’Uc ra i n a .

Descritta per la prima volta nei dettagli nell’ottobre del 2021 dal consorzio di giornalismo investigativo Icij,

l’architettura societaria messa in piedi da Zelensky è emersa grazie a una mole impressionante (2,9 terabyte)

di documenti interni provenienti da 13 società specializzate nella creazione di società offshore".
 
Non ne può più.

Semplice, facile da capire per tutti, chiaro, lapalissiano.

Mario Draghi è stanco, stanchissimo della sua maggioranza perennemente litigiosa,
come è accaduto ancora una volta ieri in Commissione Finanze della Camera sulla riforma del catasto.

Il presidente del Consiglio, spiegano fonti parlamentari sia di Centrosinistra sia di Centrodestra,
sta cercando l'incidente parlamentare per salutare tutti.

E' ovvio che la situazione internazionale e la guerra di Vladimir Putin contro il popolo ucraino spinge alla stabilità,
ma la maggioranza che sostiene l'esecutivo di larghe intese voluto da Sergio Mattarella è una pentola a pressione pronta a esplodere.

Ma l'attenzione delle chiacchiere in Transatlantico si sofferma in particolare sul ruolo del premier.

Prima di tutto Draghi è deluso e amareggiato per il mancato sostegno da parte dei partiti del suo governo
alla sua volontà di trasferirsi al Quirinale e diventare presidente della Repubblica.

Un ferita che brucia, ancora aperta, per il "nonno a disposizione dell'Italia"
.


E poi c'è la convinzione di Palazzo Chigi che così non si può assolutamente andare avanti.

La grande preoccupazione di Draghi è quella per la Legge di Bilancio per il prossimo anno.


"Con le elezioni alle porte sarà praticamente impossibile scrivere e soprattutto far approvare la manovra per il 2023",
sottolinea un deputato del Pd di lungo corso.

Il timore del presidente del Consiglio è quello che più resta alla guida di questo esecutivo litigioso e diviso su tutto
e più la sua immagine, sia tra gli italiani sia sul piano europeo e internazionale, viene scalfita.


Meglio, quindi, cercare al più presto un incidente parlamentare e mandare tutti a casa.



E' per questo che, assicurano fonti di maggioranza,
Palazzo Chigi alzerà il livello dello scontro su ogni provvedimento
(come ha fatto sul catasto frenando il compromesso)
proprio per avere a una clamorosa frattura tra i partiti di governo.


Se si arrivasse alla crisi, spiegano molti parlamentari,
l'unico sbocco sarebbero le elezioni politiche anticipate, o già a giugno,
se la situazione precipita nonostante la guerra in Ucraina,
o dopo l'estate (probabilmente a fine settembre).

E Draghi? Nessun problema. "Un lavoro me lo trovo da solo",
ha detto il premier qualche settimana fa rispondendo stizzito ai parlamentari
che già lo candidano nuovamente come premier dopo le prossime elezioni.

otrebbe stare anche sei mesi in panchina aspettando l'evoluzione degli eventi.


Se le urne consegnassero un nuovo parcheggio,
i partiti, escluse le ali estreme, potrebbero tornare con il cappello in mano
a supplicare Draghi di fare il premier per cinque anni.


Oppure c'è anche l'ipotesi di attendere che si liberino la poltrona della Banca Mondiale o della Commissione europea.
 
È come al solito scoppiettante e lucidissima l’intervista rilasciata da Massimo Cacciari
a Tommaso Rodano per Il Fatto Quotidiano.

Soprattutto all’inizio, quando dice al giornalista:

“Lo scriva così come glielo dico: Gianni Riotta è un coglione”.


Quando gli viene chiesta una considerazione sul fatto che Repubblica
l’abbia inserito nella listarella infame degli amici italiani di Putin Cacciari sbotta:

“Come sarebbe a dire? Io? Non ne so nulla, non leggo più i giornali”.


Rodano gli legge quindi il passaggio dell’articolo di Riotta
che lo cita tra i simpatizzanti di Putin nostrani per una sua vecchia considerazione sull’annessione della Crimea.


Cacciari rincara: “Si è bevuto il cervello”.


E sulla questione Ucraina sostiene:

“Guardi che il pensiero unico è una cosa seria.

A sostenere che bisognasse muoversi verso il pensiero unico erano grandi filosofi, ironicamente anche russi.

Una cattiva utopia che sta clamorosamente fallendo.

Qui non siamo al pensiero unico, ma al pensiero demenziale.


Viviamo un’epoca di emergenza perenne, nella quale è tutto bianco o tutto nero.

Provare a discernere è sempre più rischioso.

In certi paesi si finisce in galera,

in altri, se ci si avventura oltre l’opinione comune, ci si becca un Riotta.


Malgrado sia completamente disperato, io continuo a cercare di farlo.


Vale per il Covid e per le vere tragedie, come quella che osserviamo in Ucraina”



Per Cacciari

“tra Ucraina e Russia sono passati fiumi di sangue nel corso dei secoli, la situazione è delicatissima.

Penso sia chiaro a chi è dotato di memoria storica che queste sciagure

– come quelle in ex Jugoslavia e Cecenia, ormai ignorate –

derivano dal fatto che l’Occidente e l’Europa abbiano rinunciato ad avere una strategia dopo la vittoria della Guerra Fredda.


Invece di limitarsi a osservare il disgregamento dell’Unione Sovietica,

occorreva allora un’azione diplomatica, politica e culturale per governare questo processo,

che riguardava e riguarda l’Europa da molto vicino.


Non abbiamo fatto assolutamente niente.


Anzi sì: abbiamo bombardato Belgrado”.
 
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Ieri le autorità belghe hanno deciso di passare alla situazione “Codice Giallo” dal punto di vista dell’epidemia.

Questo significa che

cadono tutti i limiti nel settore della ristorazione e ospitalità,
compreso quello di mostrare il pass vaccinale.

Cadono tutti i limiti di capienza dei locali.

L’obbligo ella mascherina cade,
ma il suo uso resta consigliato nei mezzi pubblici dove non sia possibile il distanziamento.


Il governo inoltre elimina il Passanger Locator Form,
cioè l’obbligo di identificare i passeggeri e conoscerne lo stato nei confronti del covid-19,
tranne che per alcuni paesi dove è ancora presente e fortemente virulenta l’infezione.


Ricordiamo che in Belgio la vaccinazione non è mai stata obbligatoria per lavorare,
e, in alcune situazioni, era richiesto il Pass che comunque era ottenibile anche con i test.


Quindi l’Italia che obbliga ancora fare il PLF e che mantiene il Green pass attivo ,

così come gli obblighi vaccinali,

si rivela la retroguardia in Europa e nel Mondo,

perfino in confronto di un popolo estremamente cauto, ligio e burocratico come i belgi.


Un governo comandato dal CTS, che teme di essere mandato a casa,

e del peggior ministro della storia recente della Repubblica, Speranza,

non è in grado neanche di togliere vincoli e limiti.



Auguriamoci che non sparendo gli obblighi, sparisca il governo.
 
Parliamoci chiaramente:

  • il PNRR o Recovery Fund si rivela, ogni giorno di più, per quello che è,
  • cioè una chimera che non porterà nulla di positivo per l’Italia.
  • Eppure lui, su ordine dell’Europa e presidenziale, lo ha messo come “Fine ultimo” del suo mandato;

  • la seconda missione, la revisione dei vincoli europei, è stata fallimentare.
  • Il padrone tedesco ha fatto ben capire che non vuole rivederli,
  • e se ci saranno modifiche sarà dovuto all’emergenza ucraina;

  • non è riuscito a gestire una exit strategy seria dall’emergenza Covid-19.
  • Mentre tutta Europa ha messo fine alle restrizioni per il Covid-19,
  • lui resta schiavo del CTS e di Speranza.
  • Una posizione poco lucida e non coraggiosa;

  • la crisi ucraina ha rivelato la sua totale insussistenza sul vero piano internazionale.
  • Putin ha telefonato più volte a Macron e Scholz, mai a Draghi.
  • Le figuracce di Di Maio sicuramente non lo hanno aiutato.
  • L’Italia conta poco, e lui conta anche meno.

Alla fine si è visto che Draghi non è il salvatore della Patria,
ma una persona che desiderava diventare Presidente della Repubblica
e che, non riuscendoci, non ha grosso interesse nell’amministrare l’Italia.

Alla faccia del “Nonno in missione”,
alla fine si è rivelato una persona giustamente ambiziosa,
che lavorava pro domo sua,
e che, tolta la possibilità della Presidenza della Repubblica, non ha interessi nell’Italia.




Inoltre quello che sta succedendo ora lo mostra come leader burocratico, poco elastico, poco unificante.

La recentissima vicenda della revisione del catasto lo ha mostrato come un dispotico esecutore degli ordini della sinistra e della UE,
o di quelli che lui ritiene gli ordini della UE, senza un grande senso della situazione.

La crisi Ucraina mette l’Italia di fronte a importanti scelte di politica energetica ed estera,
e lui, invece che unificare, di cercare il più ampio consenso davanti a una strategia industriale ed energetica condivisa,
ha agito in modo partigiano a favore di una sinistra sempre meno interessata agli italiani.



Se darà le dimissioni non sarà un dramma.

Non lo è la morte di un Papa, che gode di una nomina ben superiore.


Si farà un altro Presidente del Consiglio, magari meno deludente.
 
Milioni di italiani sono stati vessati, discriminati, vilipesi, derisi, sbeffeggiati,

ridotti financo allo stremo dalla privazione del lavoro e della dignità

per aver osato fare una scelta razionale, logica, giusta e libera:

rifiutare un farmaco, impropriamente definito vaccino, per evitare la sorte delle cavie.


Una sorte buona o cattiva a seconda degli imponderabili capricci del destino.


Questi milioni di soggetti sono stati trattati ed hanno sperimentato sulla propria pelle

un trattamento tale da derubricare persino la Russia di Putin a paradiso della democrazia e della libertà.



Però mancava un tassello per rendere più eclatante la loro umiliazione.

Mancava una prova, foss’anche indiretta, della malafede di chi li ha umiliati.

Diciamo pure, una confessione in piena regola, da parte delle nostre classi dirigenti.

Una presa di posizione pubblica con la quale i nostri governatori, ministri, viceministri
e compagnia belante ammettesse di sapere, di aver sempre saputo.


Per la precisione, di sapere, e di aver sempre saputo, che le misure di rigore prese,

contro i renitenti alla vaccinazione, erano solo pastoie burocratiche senza alcun fondamento scientifico.



Lo so che gli umiliati e offesi lo sanno, e lo hanno sempre saputo.

E so anche che gli umiliatori e gli offensori lo sanno, e lo hanno sempre saputo.

E so pure che i primi lo hanno sempre denunciato.

Mentre i secondi lo hanno sempre negato o taciuto.


Proprio per questo, il riconoscimento inequivocabile della irrilevanza delle misure adottate è importante, soprattutto a futura memoria.

Perché esso rappresenta la pistola fumante delle cattive intenzioni

di chi ha osato negare e conculcare diritti incomprimibili in nome di una sbandierata, ma farlocca,

“necessità” indifferibile di “salute pubblica”.


Bene, la prova ora c’è, la pistola fumante pure.


Un Governatore ha testualmente dichiarato che bisogna por fine a tutte le “scartoffie” di divieti e super green pass di fronte ai profughi ucraini.

Il vice ministro Sileri ha aggiunto che agli ucraini non vanno imposti obblighi, ma solo abbracci.


Abbracci, capite?

Roba che, in Italia, l’anno scorso rischiavi di finire dentro per assembramento non consentito.

Ma adesso tutto si può verso i “fratelli” ucraini.

Due su tre dei quali, tra parentesi, sono pure convinti no-vax.



Il che dimostra, inconfutabilmente, non solo che i milioni di italiani da cui siamo partiti
sono stati rinchiusi nel “ghetto” fisico, professionale, ideologico dei “no-pass” per niente
(nella migliore delle ipotesi, per agevolare l’ingordigia delle case di produzione farmaceutiche, nella migliore…),
ma che ciò è avvenuto nella piena consapevolezza dei supremi decisori.

I quali sapevano che erano solo “scartoffie”.

Ma hanno accettato lo stesso di negare ai cittadini il lavoro e il salario, in nome di quelle scartoffie.


Hanno impedito ai bambini di giocare all’aperto

ed ai vecchi di ritirare la pensione, in nome di quelle scartoffie.


Hanno fatto fallire centinaia di migliaia di piccole imprese

sapendo che si trattava, dopotutto e solo, di “scartoffie”.


Ed adesso si scoprono un cuore di panna grande così per “abbracciare” gli ucraini.


Agli ucraini verranno garantiti, a quanto si legge,

una casa,

un posto di lavoro,

corsi di formazione,

sanità gratuita.

Ed, ovviamente, gli abbracci di Sileri, come cadeau.


Evidentemente l’Ucraina è una repubblica fondata sul lavoro dove è salvaguardata la libertà.

Mica come la Russia.

Mica come l’Italia.

Ad ogni buon conto, non importa.

Che sia messo agli atti.


Perché, come diceva Fra’ Cristoforo, “verrà un giorno”.
 
tutti bravi. tutti santi.

Però basta entrare in internet e rileggere quanto scritto nel corso di questi anni :


Una banda di ladri ucraini specializzata in furti di ogni genere, e che operava in tutto il Nord-Italia,
è stata fermata la notte scorsa all'ex valico di Fernetti.
I tre viaggiavano su un furgone a bordo del quale trasportavano ogni genere di refurtiva.
Avevano colpito anche in alcuni appartamenti di Trieste.


Gli inquirenti la considerano una delle più equipaggiate bande di ladri di veicoli leggeri.
Nel capannone di Barlassina arrivavano automezzi rubati non solo il Lombardia, ma anche in Svizzera e Austria.
All'interno dell'edificio operava un vero e proprio stabilimento di smontaggio e rimontaggio,
dotato di attrezzi molto specializzati e perfino di un sistema che schermava i rilevatori satellitari.
Però, questo sistema non è riuscito a bloccare l'emissione di un sistema satellitare, mettendo in allerta i Carabinieri di Seregno.
L'irruzione è avvenuta domenica 1° novembre 2015, ma la banda non faceva festa:
infatti, nel capannone i Carabinieri hanno trovato quattro persone, tre ucraini e un rumeno,
che stavano lavorando intorno ad alcuni veicoli. I militi hanno denunciato anche il proprietario dell'immobile.
Oltre a componenti di decine di furgoni, i Carabinieri hanno trovato anche un camion con targa ucraina
e un rimorchio con targa polacca che caricava un container. Questi due elementi fanno pensare agli inquirenti che la refurtiva era venduta all'Est.



La polizia giudiziaria del Compartimento Polstrada del Friuli Venezia Giulia
ha sgominato due bande composte da italiani, bielorussi e ucraini
dedite al furto, ricettazione, riciclaggio di veicoli di lusso, estorsione e truffa nei confronti di società assicurative.
Il bilancio è di 4 italiani e 3 ucraini arrestati, 28 indagati, una decina di perquisizioni in Lombardia, Lazio ed Emilia Romagna,
21 veicoli individuati, su 52 episodi accertati, e sequestrati per un valore commerciale di circa 1 milione di euro.
Per altre 8 persone residenti all’estero, tra le quali un italiano, verranno attivate le procedure per la cattura internazionale.
L’operazione, denominata ‘New Life’, è scattata circa due anni fa,
coordinata prima dalla Procura di Trieste con il pm Giorgio Milillo,
e poi passata, per competenza territoriale, alla Procura di Milano con il pm Luigi Luzi.


ANGERA Ladri nautici in manette e refurtiva recuperata:
sono stati fermati dai carabinieri i presunti responsabili dei furti avvenuti negli ultimi tempi
ai danni di imbarcazioni attraccate in alcuni cantieri in riva al Lago Maggiore.
Dall'inizio dell'anno, infatti, tra Angera e Sesto Calende si sono registrati qualcosa come una trentina di furti di motori di barche.
I carabinieri di Angera, coordinati dalla Compagnia di Gallarate,
hanno incastrato i presunti colpevoli interrompendo il traffico di propulsori con il mercato dell'Europa Orientale.
I due sono entrambi di nazionalità ucraina: un ventunenne residente a Moltrasio, in provincia di Como,
e un trentaseienne residente a Milano, domiciliato a Pero.
Falegname il comasco, un autotrasportatore il milanese.
Entrambi abilissimi a rimuovere con grande accuratezza componenti meccanici costosi e molto pregiati.
Tanto che i motori rubati variavano da un valore commerciale di tremila euro fino a un massimo di diecimila euro ciascuno


SALERNO - Fermati, dalla polizia, tre cittadini ucraini.
Portati in Questura, sono stati fotosegnalati e sono iniziati i controlli di routine:
nell’autovettura, a bordo della quale i tre sono stati fermati per un controllo tra Matierno e Cappelle,
sono stati trovati arnesi da scasso ma le indagini intendono anche accertare se i tre soggetti
possano avere a che fare o meno con i furti che negli ultimi giorni sono stati perpetrati in alcuni appartamenti dei rioni collinari di Salerno.
I tre stranieri sono stati fermati a un posto di blocco che, in collaborazione con il reparto Prevenzione Crimine Campania,
gli agenti della Sezione Volanti stanno effettuando in varie parti della città.
A quanto pare, i documenti controllati ai tre fermati non erano in regola e, per questo motivo,
è stato necessario portarli negli uffici della Questura per procedere a una sicura identificazione ed effettuare controlli più incisivi.
A insospettire la polizia è stato anche il comportamento dei fermati: era come se avessero qualcosa da nascondere.
 
È mancato ai cosiddetti vivi Antonio Martino.

Dico “cosiddetti” perché molti si sono già addormentati
anche se mangiano, bevono e vestono panni (se pure svegli lo siano mai stati).


Il liberalismo come sta ?

È sotto attacco non solo da parte di Vladimir Vladimirovič Putin,
il quale ha definito sempre la sua una “democrazia illiberale” e antiliberale,

ma, a mio parere, da parte di gente come George Soros,
che, dopo aver conquistato la sua posizione non col produrre beni o servizi
ma con speculazioni finanziarie a danno di capitali privati e pubblici,

usa una sua fondazione con la denominazione di “società aperta”, coniata da Karl Popper,

per fornire d’un ideologia il dominio a non più del due per cento della popolazione mondiale,


a stima del compianto, anche lui, Ralf Dahrendorf, già presidente dell’Internazionale liberale.


Il mercato dovrebbe essere un luogo, nello stesso tempo ideale e reale,

regolato in modo da favorire gli scambi,

non per consolidare il potere di plutocrazie od oligarchie.


Io resto liberale, dubbioso, sempre più conservatore.
 
Tema delicato questo.



Premesso che con l’insediamento a capo del Dap del magistrato Carlo Renoldi, propiziato dalla ministra Marta Cartabia,

non cambieranno significativamente le carceri, ma che, al massimo, si assisterà ad un mero galleggiamento di un relitto,

accompagnato dal liturgico rituale del richiamo alle norme ed ai principi costituzionali e sovranazionali

che dovrebbero ispirare l’azione amministrativa dell’intera amministrazione penitenziaria,


non posso, però, non provare un profondo disagio per quella che sembra essere la reazione di taluni ambienti politici

e perfino di quota parte del sindacalismo della polizia penitenziaria, contrari verso tale innocuo passaggio di testimone.


Davvero mi chiedo come possa considerarsi “inaccettabile” tale designazione a motivo della di lui diversa sensibilità
verso le politiche securitarie e di giustizia che imperano malamente e da troppo tempo, nel nostro sistema “agito” penitenziario.


Si ripropone, ancora una volta, il tradizionale blocco tra giustizialisti, in servizio permanente effettivo,
e sindacalisti, che si rifanno a modelli securitari, degni di un Ancien Régime
tutto sempre da attestare con le ragioni della forza, con quanti, più ragionevoli e dubbiosi,
non mostrano però la forza di sostenere posizioni diverse, temendo riflessi di diversa natura,
compresi quelli che poi li additerebbero quali traditori di uno Stato forte e muscolare,
perché colpevoli di essere più vicini ai diritti delle persone detenute, piuttosto che alla spada di Minerva.

Il paradosso, poi, è che i più arrabbiati e contrari verso un possibile modello umanistico e umanitario del carcere (che non significa affatto “liberi tutti”),
sono spesso quei rappresentanti dei lavoratori che ben si guardano di lavorare all’interno delle carceri, eppure capaci di pontificare.


Tornando alla questione del cambio del vertice del Dap,
la vera svolta poteva esserci se a capo di una tale complessa e articolata organizzazione amministrativa
avessero collocato un vero manager della cosa pubblica (pure proveniente dal mondo delle imprese “private”),
che fosse tenuto ad agire e governare nell’alveo delle leggi e con una espressa attenzione verso i risultati concreti, visibili, misurabili,
semmai annualmente avvalorati da un soggetto verificatore terzo,
al punto di attestarli come marchio di qualità perfino sulla carta intestata della stessa amministrazione.

Un manager che capisse di grandi appalti di beni e servizi;

che sapesse e fosse pratico di contrattazione sindacale nei diversi comparti amministrativi che riguardano il Dap,
governati da una cluster di contratti collettivi nazionali di lavoro differenziati;

che conoscesse tutta la complessità di tematiche assunzionali e del rapporto di lavoro libero-professionale
che pure allignano nell’amministrazione delle carceri, riferiti in particolare al personale esperto non di ruolo (psicologi),
pratico in questioni di cambio di aziende erogatrici di servizi,
ove si pone sempre la problematica della continuità del rapporto di lavoro delle maestranze,
al fine di evitare che vi siano dei licenziamenti o dei vuoti temporali nell’erogazione delle retribuzioni,
solo per citare alcune delle tematiche ricorrenti di maggior rilievo.

Per non parlare di tutte le questioni ed i contenziosi contrattuali che pure occorre anzitutto prevenire
e poi, quando non se ne può, governare e che spesso hanno durata ben maggiore della stessa permanenza dei capi del Dap,
in specie se riferiti a grandi appalti riguardanti la realizzazione di nuove strutture penitenziarie
che, allorquando finalmente, vedranno la luce, dopo gli innumerevoli contenziosi, fallimenti, transazioni, risulteranno già di fatto obsolete;

per non parlare della materia riferita all’acquisto di armi, mezzi, tecnologie.

Insomma, l’organizzazione penitenziaria e i suoi servizi, che costituiscono l’hard del sistema,
mentre le norme ne costituiscono il software, sono amministrazione della cosa pubblica allo stato puro,
non sono né sentenze né requisitorie, ma agere e non ius dicere.

Purtroppo, però rimane, almeno in Italia, il fatto che il sistema penitenziario continui ad essere inteso come un continuum della funzione giurisdizionale,
per molti un terzo tempo del processo ancora da giocare, dopo che si sono esauriti quelli delle indagini di polizia e dei procedimenti penali.



Insomma, si insiste nel non volere comprendere che il carcere deve essere qualcosa di assolutamente diverso rispetto alla funzione giudiziaria,
perché i fini non sono quelli di giustizia in senso teleologico
(che si esaurendosi con la sentenza di condanna, contemplerebbe tutto, sia in termini di pena detentiva applicata che in tema di risarcimenti e pene accessorie),
ma quelli imposti dall’articolo 27 comma 3° della Costituzione, che, attraverso la condanna, esige la rieducazione del condannato.

Quello che ad un capo del Dap deve soprattutto interessare non è nemmeno, a ben guardare,
se l’obiettivo della rieducazione sia stato effettivamente conseguito,
posto che già v’è una folla di organi pubblici e giudiziari che devono, per obblighi del loro ufficio, verificarlo
(direttore del carcere, i funzionari giuridico pedagogici, gli psicologi, i criminologi, il magistrato di sorveglianza, il tribunale di sorveglianza
e, talvolta, le altre autorità giudiziarie nell’ambito dei procedimenti che governano),
ma che, volendo alleggerire il tema, la location carceraria e il capitale umano che in essa operi,
sia per davvero all’altezza del prezzo altissimo che i cittadini pagano.
 

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