"ANDRA' TUTTO BENE" E' GIA' STATO DETTO?

Sull’esplosione alla centrale nucleare di Zaporizhzhya, avvenuta stanotte, Kiev e Mosca si rimpallano le accuse.

Per il governo Ucraino a colpire l’area nucleare sarebbe stato un proiettile russo.

Non la pensa così la Russia, secondo cui sarebbero stati “i nazionalisti del regime di Kiev” a tentare “una mostruosa provocazione”.


Lo ha detto Igor Konashenkov, portavoce del ministero della Difesa russo.

“Il proposito della provocazione è di cercare di accusare la Russia di creare una fonte di contaminazione radioattiva”, ha aggiunto.

I colpevoli, per Mosca, sarebbero “gruppi di sabotatori ucraini con la partecipazione di mercenari stranieri”.


Secondo Mosca il controllo della centrale nucleare lo avrebbe già dal 28 febbraio.

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L’esercito Russo è considerato il secondo migliore al Mondo.

Efficiente, preparato, con mezzi di altissima capacità tecnologica.

Ma in Ucraina il generale Gerasimov ha portato carri vecchi,
tanti soldati giovanissimi e non sta usando quasi affatto l’aviazione.

L’operazione via terra allunga tempi e sconcerto,
dolore e tante perdite anche tra i Russi.


Perchè?

Qual è il vero disegno di Putin?


Da quando è cominciata l’avanzata Russa in Ucraina
più di un osservatore ha espresso qualche dubbio sulla strategia utilizzata da Putin e dai suoi generali,
in particolare Vassjly Gerasimov, il vero ideatore della guerra Ibrida.

Comunicazione, armi d’avanguardia e spionaggio straordinariamente efficace.

Tutti si aspettavano un’ offensiva veloce e capace di risolvere in pochi giorni gli esiti della battaglia.

Quello sarebbe stato “il primo passo logico e ampiamente previsto,
come si è visto in quasi tutti i conflitti militari dal 1938”
,
ha scritto il think tank RUSI a Londra, in un articolo intitolato
“The Mysterious Case of the Missing Russian Air Force”.

Invece, i caccia dell’aeronautica ucraina
stanno ancora effettuando sortite difensive di contrattacco e attacco al suolo a basso livello.



“Ci sono un sacco di cose che stanno facendo che lasciano perplessi”,
ha detto Rob Lee, uno specialista militare russo presso il Foreign Policy Research Institute.

Si pensava che all’inizio della guerra sarebbe stato richiesto “il massimo uso della forza”.

“Perché ogni giorno che va avanti c’è un costo e il rischio aumenta.
Se non lo stanno facendo è davvero difficile da spiegare per qualsiasi motivo realistico”.

La domanda è:

perchè stanno lasciando morire tanti dei loro, quasi tutti giovanissimi, per non usare i tanti mezzi che hanno?
 
Esperti militari hanno riscontrato prove di una mancanza di coordinamento dell’aviazione russa
con le formazioni di truppe di terra, con più colonne di truppe russe inviate oltre la portata della propria copertura di difesa aerea.

Ciò rende i soldati russi vulnerabili agli attacchi delle forze ucraine,
compresi quelli equipaggiati di recente con droni turchi e missili anticarro statunitensi e britannici.

Gli Stati Uniti stimano che la Russia stia utilizzando poco più di 75 aerei nella sua invasione dell’Ucraina,
ha affermato l’alto funzionario statunitense.


Prima dell’invasione,
i funzionari avevano stimato che la Russia avesse potenzialmente preparato
centinaia delle migliaia di aerei della sua forza aerea per una missione in Ucraina.

Tuttavia, martedì l’alto funzionario statunitense
ha rifiutato di stimare quanti aerei da combattimento russi, compresi gli elicotteri d’attacco,
potrebbero essere ancora disponibili e al di fuori dell’Ucraina.

Ma non basta.

Stranamente i russi non stanno impiegando i blindati di nuova generazione.

Ci sono pochi carri armati T-90M.

Si scommette sui carri più anziani, T-72 e T-80, ammodernati.

Ci sono molti ragazzini.


Dov’è tutta la potenza di fuoco Russa?

Per cosa si sta preparando?



Il Global Firepower- l’indice che stabilisce la forza militare dei Paesi del mondo –
ci racconta che la Russia può vantare un esercito addestrato alla guerra sotto ogni aspetto.

Negli ultimi due decenni, la Russia ha investito cospicue risorse economiche:
ogni anno, parliamo di 154 miliardi di dollari per la Difesa, creando un esercito moderno e tecnologico.

  1. Insomma, qual è il vero obiettivo di Putin?
  2. Perchè sta lasciando morire tanti dei suoi allungando il brodo della battaglia più cruenta disorientando l’opinione pubbllica occidentale?
  3. Da cosa vuole distrarci?
  4. Dov’è il suo esercito, la sua aviazione e la sua marina?
  5. Cosa sta per scatenare?


Le Forze Armate della Federazione russa, nate dalle ceneri delle Forze Armate sovietiche,
vedono la luce nel 1992, e si compongono di reparti articolati e ben equipaggiati.

L’ex Ministro della Difesa, Anatoly Serdyukov nel 2008 e l’attuale Ministro, Sergey Shoigu,
hanno portato avanti un vero a proprio restyling dell’esercito russo che oggi consta di 4 distretti militari:

  • Occidentale con quartier generale a San Pietroburgo con 34.000 soldati e circa 300 carri armati;

  • Meridionale con quartier generale a Rostov con 100.000 soldati e circa 2.800 tra carri armati e mezzi blindati;

  • Centrale con quartier generale ad Ekaterinburg con 30.000 soldati e circa 1.200 tra carri armati e mezzi blindati;

  • Orientale con quartier generale a Chabarovsk con oltre 4.500 carri armati;
In totale, le armate sono 11 e i soldati sono complessivamente 280mila.


A questi si aggiungono:

  • 17mila uomini degli Spetsnaz divisi in 7 brigate indipendenti;

  • 45mila truppe aviotrasportate divise a loro volta in due da assalto aereo e quattro brigate con un reggimento per la ricognizione.
Oltre all’esercito addestrato alla guerra, Putin, leader sovietico dal 1999, ha messo a punto un altro tipo di guerra:

quella ibrida, un mix ben congeniato di forza fisica e attacchi informatici mirati,
oltre ad una potentissima macchina per la propaganda al servizio del regime.



In caso di guerra, la Russia può fare affidamento su un armamentario di ultimissima generazione.

Oltre alle forze di terra pari a 1.350.000 uomini dispone di:

  • 4.173 forze aerospaziali;

  • 320 missili e 1.181 testate strategiche;

  • 605 forze navali;

  • 12.420 carri armati.
I carri armati russi, i T-90, sono considerati i mezzi blindati più potenti e forti al mondo.

Non da meno i mille nuovi aerei in dotazione, i SU-35S che sono stati mandati in parte in Bielorussia per le esercitazioni militari congiunte.


Ad oggi, il 92% dei piloti e il 62% dei militari della Marina ha precedenti esperienze in teatri di guerra.


Quando parliamo di Servizi segreti russi ci viene subito in mente il KGB
(traducibile in Comitato per la Sicurezza di Stato).

Nel momento di maggiore fulgore, il KGB vantava 700.000 persone alle sue dipendenze e si occupava di:
  • Spionaggio;
  • Controspionaggio;
  • Protezione dei segreti di Stato;
  • Sicurezza interna (crimini vari, politici, controllo dei cittadini e repressione del dissenso);
  • Controllo dei confini sovietici.
Se il KGB è il più famoso, dalla sua dissoluzione sono nati altri servizi segreti altrettanto importante e validi.

Attualmente vi sono 4 agenzie di sicurezza/spionaggio in Russia:

  • GRU (traducibile in italiano con Direttorato principale per l’informazione) che si occupa anche di spionaggio estero;

  • FSB (Servizio Federale di Sicurezza) che garantisce la sicurezza della Russia con attività di spionaggio, controspionaggio e antiterrorismo e sicurezza interna e si compone di circa 260-270.00 uomini;

  • SVR (Spionaggio Estero Civile). I suoi uomini all’estero risiedono principalmente in ambasciate e consolati, e spesso hanno lo status di personale diplomatico;

  • FSO (Servizio di Protezione Federale). Si occupa della sicurezza presidenziale, di alte personalità e luoghi sensibili, si compone di circa 50.000 elementi.
Il numero relativo al personale impiegato nei servizi segreti è top secret; tuttavia, alcune stime rilevano i dati riportati.


Oltre alle agenzie su citate vi è anche la FAPSI (Agenzia Federale per le Comunicazioni e le Informazioni di Governo)
e si occupa di sicurezza e la crittografia delle comunicazioni istituzionali di “alto livello”,
oltre alle intercettazioni e all’analisi dei segnali, sia tra le persone (radio) che tra le macchine (computer).

È l’equivalente dell’NSA americana da cui ha copiato anche la struttura interna.


Il PowerIndex della Russia è determinato da un importante fattore
cui abbiamo fatto cenno in precedenza:
il numero del personale militare rapportato alla popolazione.

Consapevole di essere meno attrezzata dell’Occidente, da circa un decennio,
la Russia ha avviato una campagna di potenziamento della sua forza militare che l’ha resa, oggi, uno dei paesi più forti al mondo

Il PowerIndex russo è formato da:
  • 142.122.776 popolazione totale;
  • 3.586.128 numero complessivo personale militare in servizio;
  • 4.078 aerei totali;
  • 1.485 aerei da combattimento;
  • 21.932 carri armati;
  • 352 navi tra cui una portaerei;
  • 44 miliardi di dollari per la Difesa;
 
A proposito dell’attacco alla Centrale elettronucleare di Zaporizhzhia (Ucraina)
avvenuto nella notte del 4 marzo 2022 e di altre notizie riguardanti i siti nucleari ucraini.


Non bastasse l’angoscia provocata dall’invasione russa dell’Ucraina e dalla guerra che ne è seguita,
altra se ne aggiunge grazie ad una informazione sensazionalistica
che sembra non risparmiare anche testate giornalistiche solitamente guidate da rigore informativo.


L’argomento specifico riguarda il “panico da nucleare”.

Sulla scia di questo allarme se ne sono aggiunti altri che riguardano il “nucleare di pace”
che nel caso dell’Ucraina è costituito dalla presenza di 15 reattori nucleari,
raggruppati in 4 grandi centrali che producono il 40% dell’elettricità del paese,
oltre al sito di Chernobil che racchiude i resti del reattore esploso nel 1986
e due depositi nucleari attivi, uno per le scorie vere e proprie e l’altro per l’immagazzinamento del combustibile irraggiato.

Questo complesso di attività legate al nucleare è diventato oggetto di reportage che,
pur motivati da una giusta preoccupazione per un eventuale danneggiamento di questi siti,
sono rapidamente scaduti in meri racconti allarmistici.



Tutto è iniziato con l’area di Chernobil di cui si è scritto che era stata bombardata,
comunque attaccata dalle forze russe che, attraversando il terreno contaminato
(confinante con la Bielorussia) avrebbero sollevato radioattività nell’aria.

In proposito, anche a non voler tener conto delle dichiarazioni rilasciate dal comando delle forze armate russe,
bisognerebbe almeno fidarsi di quanto comunicato dal direttore generale dell’IAEA (Agenzia internazionale per l’energia atomica)
massima autorità mondiale in tema di sicurezza nucleare, che in buona sostanza
assicura il regolare funzionamento delle infrastrutture grazie proprio alla presenza di truppe russe che presidiano la zona.



Del resto per quale motivo i russi, che hanno pagato un prezzo enorme con il disastro di Chernobyl,
dovrebbero aggiungere ulteriore impopolarità ad una guerra
che già di per sé non giova a renderli “simpatici” agli occhi dell’opinione pubblica mondiale?

E’ proprio per evitare di essere coinvolti in una seconda Chernobyl, vera o provocata artatamente,
che i russi intendono prendere il controllo di siti come quello della centrale di Zaporizhzhia,
la più grande d’Europa, per garantirne la sicurezza.

Al contrario l’informazione dominante se ne è occupata solo per diffondere un allarme indiscriminato

fino ad evocare un olocausto nucleare, conseguente al bombardamento che avrebbe subito questa centrale.

Ma cosa dicono in proposito le fonti ufficiali?



La SNRIU (State Nuclear Regulatory Inspectorate Ukraine) autorità di sicurezza nucleare ucrain3 afferma che:

Le forze militari della Federazione Russa hanno bombardato il sito della centrale nucleare di Zaporizhzhia,
a seguito del quale è scoppiato un incendio sul sito della ZNPP.”



Non vengono però fornite immagini né del bombardamento, nè dell’incendio,
ma solo un video estratto da una telecamera dell’impianto
dove si vedono globi luminosi, simili a dei bengala, che cadono su un parcheggio.

Sempre secondo la SNRIU l’incendio è stato domato rapidamente dai pompieri dell’impianto,
incendio che secondo la Reuters si sarebbe sviluppato in un edificio esterno all’impianto
adibito ad addestramento del personale,

mentre la TASS accusa esplicitamente gruppi di sabotatori ucraini
di aver attaccato le truppe russe che presidiavano l’impianto provocando l’incendio.


Per quanto riguarda lo stato dei reattori, nel suo comunicato,
la SNRIU rende noto che dei sei reattori nucleari presenti sul sito,
solo l’unità 4 era in funzione ad un livello di potenza di 690 Mw.

Non ci sono vittime e non si registrano variazioni nei livelli di radioattività.

Tutti aspetti confermati da Raphael Grossi, direttore generale dell’IAEA,
nella conferenza stampa tenuta alle 10, 30 del 4 marzo 2022 e nel successivo comunicato.


L’episodio della centrale di Zaporizhzhia rappresenta il culmine di una campagna mediatica

finalizzata a suscitare ulteriore panico al punto che in molti stati europei

si è scatenata una corsa ad acquistare pillole allo iodio per contrastare l’effetto di radiazioni dovute,

o ad una guerra nucleare, oppure ad un disastro tipo Chernobyl provocati entrambi dai russi.



Nè sono valse le rassicurazioni della IAEA

e del rappresentante russo presso l’Agenzia internazionale dell’energia atomica a placare questo febbrile allarmismo.


In un articolo del 3 marzo scorso, ad esempio, apparso sul Manifesto,
non solo si paventavano attacchi alla Centrale di Zaporizhzhia
con abbondanza di allusioni catastrofiche nei riguardi di una Europa totalmente contaminata,
ma si dava spazio all’ipotesi di una “bomba ad orologeria radioattiva” dovuta ad
“un test nucleare sotterraneo del 1979” effettuato nella miniera di carbone di Yunkom (Donbas),
in conseguenza del quale oggi “acque radioattive di basso livello sarebbero già entrate in fonti di acqua potabile
e potrebbero arrivare al Mar d’Azov e nel Mar Nero fino al Mediterraneo.”



L’origine di questa allarmante notizia,

ripresa da blog scandalistici e antirussi come Ukrinfor

che ne addebitano tutte le responsabilità ai separatisti del Donbas,

è quanto di più screditato si possa immaginare:



il sito “Small wars journal”10 fondato e gestito da due ufficiali dell’Intelligence del corpo dei Marines,
Dave Dilegge e Bill Nagle, che si dichiarano orgogliosi di
“perseguire un approccio globale alle Small Wars, integrando le capacità delle forze armate,
alleate e di coalizione, con le agenzie federali o nazionali dei rispettivi governi,
le agenzie non governative e le organizzazioni private.”


In un articolo pubblicato il 25 ottobre del 202011, Small Wars si occupa della miniera di Yunkom,
prendendo a riferimento uno studio effettuato nel 2017 da due ricercatori,
Yevhenii Yakovliev e Sergiy Chumachenko, per conto del Centre of humanitarian dialogue
e l’ambasciata britannica di Kiev, dal titolo “ Minaccia ecologica nel Donbas”.


Lo studio in questione, a cui hanno collaborato l’accademia delle scienze ucraina e la protezione civile,
si occupa, meritoriamente, di fornire un quadro della situazione ecologica della regione del Donbas,
una delle più inquinate al mondo, con particolare riferimento agli effetti che sono derivati nel tempo
dall’attività di circa 900 miniere di carbone e alle connesse attività industriali,
che rappresentano un concentrato di rischi biologici e chimici.


Il rischio nucleare, in quanto tale, non è presente se non per quanto riguarda il radon,

spesso associato al carbone, gas che si sprigiona insieme al metano durante le operazioni di scavo.



Durante il corso degli anni, proprio la presenza del metano,
aveva causato 236 incidenti mortali in molte miniere,
ragion per cui nel 1979 le autorità ucraine avevano concepito di eseguire un test finalizzato
a “ridurre” le sacche di metano attraverso una esplosione nucleare controllata di 0,3 kilotoni
(300 tonnellate di dinamite) posta a 900 metri di profondità, sotto i tunnel di scavo della miniera di Yunkom, in uno strato di arenaria.

Il luogo della camera di esplosione era stato scelto considerando che dopo l’esplosione
l’arenaria avrebbe formato un fuso vitreo insolubile in acqua,
capace di contenente fino al 95% dei prodotti dell’esplosione, cosa che secondo lo studio in questione si è realizzata.

Inoltre, per prevenire la migrazione di gas prodotti dell’esplosione,
la camera di esplosione è stata isolata da paratie in cemento con una larghezza di 6–10 m.


Nonostante l’attuale stato di abbandono conseguente alla guerra,
lo studio di Yakovliev e Chumachenko non individua a breve termine pericoli specifici di contaminazione radioattiva delle acque di superficie,
sostenendo che la miniera di Yunkom, abbandonata, può essere considerata alla stregua di un deposito geologico di scorie radioattive,
raccomandando, per precauzione, di inondare la camera di scoppio con materiali assorbenti come boro e piombo.

In conclusione la situazione ecologica del Donbas descritta in questo studio è gravissima,
ma non per il rischio associato ad una esplosione nucleare che, per quanto assurda e pericolosa,
aveva scopi del tutto diversi da quelli bellici.


Aver trascurato di appurare la vera storia di questo episodio,

prendendo per buone le “narrazioni” dello Small Wars Journal,

è indice di superficialità, tanto più grave se rapportata alla situazione presente in Donbas

(indirettamente si chiamano in causa i separatisti)

e assolutamente ingiustificabile rispetto al clima di terrore mediatico internazionale

che si sovrappone a quello che di per sé già provoca la guerra.




Questa mattina, il presidente Zelenski riferendosi al presunto attacco alla centrale di Zaporizhzhia,
ha scritto questo messaggio:

“Siamo sopravvissuti alla notte che avrebbe potuto fermare la storia. Storia dell’Ucraina. Storia d’Europa.”


E’ un palese tentativo di trascinare con ogni mezzo la Nato

ed il resto del mondo nel conflitto ucraino:

cerchiamo di non alimentare questa frenesia bellica

accreditando notizie non vere su argomenti, come quello nucleare,

che già in tempi di pace dovrebbe essere trattato con il massimo rigore informativo.
 
Uno + Uno + Uno + Uno......in merda andremo.
LIBERTA' ... utopia per la generazione dei giovani d'oggi.



<Stiamo pensando ad una piattaforma per l’erogazione di tutti i benefici sociali, il nome provvisorio è IDPay, tutto direttamente in digitale>.



Ma quant’è smart e moderno il ministro Vittorio Colao,
l’uomo atterrato nel governo dei Migliori dalla plancia di comando della Vodafone,
azienda dove cominciò (dopo una formazione in Morgan Stanley e poi in McKinsey)
quando ancora si chiamava Omnitel.

Da Ivrea a Londra, posizione dopo posizione.


Insomma, chi più di un uomo che si è formato tra finanza e telecomunicazioni
(ultimo incarico in Verizon e parentesi in Rcs)
può accompagnare gli italiani nei servizi smart, comodi, moderni,
dove basta poggiare la retina per non avere più scocciature.


Oh, finalmente anche la Pubblica Amministrazione, anzi lo Stato,
si mette alla pari con i protagonisti di Big Tech.


E se già lo facciamo per Apple e compagnia,
perché non farlo quando è il governo per conto dello Stato a chiedertelo?


Semplice, perché abbiamo già visto con il Green Pass cosa succede

e cosa potrà succedere da qui a poco, se non si cancella

e si distrugge il protocollo della ID europea matrice del lasciapassare.


Accade che il tuo nome,

la tua carta d’identità,

persino i tuoi diritti fondamentali

e le tue libertà

sono assoggettata alla esibizione continua di un qr code.


E se non sei in regola,

ecco che scattano le sanzioni (quelle pecuniarie, prelevate immediatamente),

le privazioni della libertà,

le restrizioni dei diritti
(dalle cure mediche al ritiro della pensione in posta).



Ciò che le Big Company non possono (ancora?) fare, lo Stato lo fa:

usare le forze dell’ordine se ti opponi, se contesti, se hai un capello fuori posto.


Esempio:
lo Stato ti contesta il mancato pagamento del bollo auto o di una tassa di dieci anni fa;
tu sai di averla pagata ma non hai la ricevuta,
così devi impazzire per dimostrare – inversione dell’onere della prova – di non essere un evasore.

Lo Stato intanto, che ha la tua identità digitale, ti blocca tutto,
esattamente come sta bloccando chi non ha i green pass.

Poi accade che tu la ricevuta la trovi e chiedi il ripristino della situazione.

A quel punto, lo Stato si prende il suo tempo perché
<Sa com’è fatta la burocrazia in Italia, signora mia>
e bisogna compilare moduli su moduli.


Insomma l’ideona di Colao è esattamente la concretizzazione di un disegno distopico,

di controllo orwelliano, asimmetrico e per nulla democratico.


Del resto l’uomo formato in Morgan Stanley e realizzatosi in Vodafone lo disse senza troppi giri di parole:


“Con il 5G controlleremo tutto da remoto”.


Per questo l’identità digitale è un passaggio obbligato.

Per loro.

Il primo passaggio è già stato compiuto con il Green Pass: vaccino, lasciapassare, diritti e libertà.



L’ID digitale identificherà il cittadino,
ne assorbirà la vecchia carta d’identità,
faciliterà il pagamento senza contanti
(la lotta al contante è sempre un obiettivo di chi si forma nelle banche d’affari) di bollettini, multe e quant’altro.


E se salti il saldo di una multa, ecco che non entri più al lavoro,
se salti una rata delle tasse ecco la limitazione del diritto alle cure, e così via.


Ripeto, lo abbiamo visto in questa emergenza sanitaria:

chi non fa quel che è giusto per il governo, viene discriminato a norma di legge.


Diventa meno cittadino.


Siccome le emergenze non sembrano finire mai, fatevi due conti:


vi piace davvero questo mondo moderno?
 
Ahahahahah che bravi che sono. Tanto, paghiamo noi.


Un’Italia talmente tanto impaziente di somministrare il vaccino anti-Covid agli italiani

da averne ordinati addirittura troppi, regolarmente pagati (a peso d’oro, tra l’altro).



E che si trova quindi ora costretta a doverli donare ad altre popolazioni pur di non lasciarli scadere in magazzino.

Non che ci sia niente di male ad aiutare gli altri, anzi.


Ma i numeri danno le dimensioni dell’ennesimo spreco fatto con i soldi pubblici,

quelli dei cittadini che pagano regolarmente le tasse,

e che poteva francamente essere evitato,


magari destinando quelle risorse all’aiuto di famiglie colpite da un rincaro bollette senza precedenti.


Come raccontato dal Tempo,
è stato il commissario all’emergenza Paolo Figliuolo
ad ammettere che le dosi di vaccino sono troppe
e quindi verranno donate all’estero.

Il nostro Paese si è spinto troppo avanti
e adesso ha i magazzini pieni di cure contro il Covid,
in un momento in cui la campagna di somministrazione ha invece subito un forte rallentamento.


Così il primo marzo,

“il generale Figliuolo ha preso carta e penna e ha scritto alle Regioni:

Buona parte delle dosi di vaccino mRna (Pfizer e Moderna, ndr)

in afflusso nella seconda metà di marzo e nel mese di aprile

è stata resa disponibile alle donazioni,

sia per supportare Paesi in difficoltà

sia per non generare surplus di vaccino superiore alle esigenze previsionali”.



Nel mezzo, la struttura commissariale ha continuato ad acquistare altri vaccini
ancora in attesa del via libera da parte delle autorità regolatorie :


“Sono i sieri prodotti da Sanofi/Gsk e da Valneva.

Non utilizzano la tecnologia a mRna, come Pfizer e Moderna,

ma sono considerati tradizionali.

Dovrebbero servire per convincere gli ultimi italiani non ancora vaccinati.



Di Sanofi/Gsk abbiamo già ordinato 10 milioni di dosi, per una spesa di 40 milioni di euro, di cui 10 milioni già liquidati.


Per Valneva, invece, è stato fatto un accordo per un milione di dosi al costo di 16 milioni di euro”.


Difficile, anche in questo caso, che vengano utilizzate tutte.
 
Nelle intenzioni del governo c’è la volontà di mantenere il Green pass ancora a lungo,

nonostante sia ormai evidente (come hanno iniziato a dire anche la maggior parte dei televirologi) la sua inutilità.


La curva del contagio è in discesa costante da settimane,

i ricoveri sono praticamente dimezzati

ed anche l’indice di mortalità è ormai irrilevante.


Eppure l’Italia continua a vivere sotto la morsa delle restrizioni imposte dal governo Draghi.



Le Regioni non stanno chiedendo di togliere il Green pass, ma semplicemente di rimodularlo.


Intanto della annunciata road map di allentamento progressivo delle restrizioni non si vede nemmeno l’ombra.


Ma anche qui c’è subito una scusa pronta: la guerra che ha rallentato il processo.


Caso strano, però, visto che non circola neppure una bozza,
la quale invece doveva essere pronta – almeno quella – già da un bel po’.


Vale dunque il solito principio: con questi a pensar male è peccato, ma molto spesso ci si indovina…
 
Avanti popolo belante. Beee BEEE BEEEE


“Dal primo aprile si revochi l’obbligo di mascherine al chiuso, a partire dalle scuole,

non si chieda più il green pass all’aperto

e si rivedano le modalità di controllo nei pubblici servizi

affidando alla responsabilità dei singoli il mancato rispetto della normativa vigente».



Durante l’ultima riunione i governatori si sono ritrovati su una linea unanime
che, dietro le formule di rito, è molto netta:

«Si avvicina il termine dello stato di emergenza
ed occorre un percorso di normalizzazione da condividere tempestivamente.
L’obiettivo deve essere quello di una progressione ordinata verso un ritorno alla normalità»”.


Il ministro per la Salute, Roberto Speranza, però non vuole saperne e li ha convocati per la prossima settimana.

Così prende altro tempo.


Il presidente della conferenza delle Regioni insiste non sulla revoca del Green pass tout court, ma su una

“netta semplificazione delle linee guida per la ripresa delle attività economiche

così da dare loro un carattere temporaneo limitato alla fase di transizione”.



Per Sileri

“dopo il 31 marzo, la prima cosa da fare è tornare alla capienza piena,

ma con la mascherina, negli stadi e negli uffici.


Poi, forse da metà aprile, via le mascherine al chiuso.


Sono anche favorevole a rimodulare le regole sul super green”.
 
Apprendiamo e riportiamo, testualmente, "il delirio" :


Questa mattina ho scritto una mail all’ingegnere John Elkann, presidente del gruppo Gedi,
per comunicare la mia decisione di lasciare la direzione dell’Espresso, dopo quattro anni e mezzo.

Sento in questo momento di dover dare qualche spiegazione ai lettori, che per un giornalista sono i veri padroni.
Per un debito di gratitudine nei vostri confronti, per senso di responsabilità, per un dovere di verità.

Lascio la direzione del settimanale dopo quasi quattro anni e mezzo di direzione
e esattamente dopo ventidue anni di servizio prestato nella testata più importante del giornalismo italiano, un mito per chi fa il nostro mestiere.

Fui assunto, infatti, il primo marzo 2001.

Entrai con emozione nella mia stanza, nella vecchia sede di via Po,
la palazzina liberty affacciata su villa Borghese, con il parquet ai pavimenti,
nelle stanze si fumava e si rideva, c’erano Guido Quaranta, Edmondo Berselli e il mio adorato Giampaolo Pansa.

Il direttore era Giulio Anselmi, dopo Claudio Rinaldi.

Uno squadrone, la redazione più forte d’Italia,
in un Paese dominato da Silvio Berlusconi che di noi aveva paura.

Per arrivare alla mia stanza, ogni mattina, percorrevo un lungo corridoio al secondo piano
dove quasi sempre incontravo una figura alta e magra, Carlo Caracciolo, il principe-editore.

A volte lo incrociavo che si faceva il caffè nella piccola cucina di servizio, altre volte con il cane.

Era lì con noi, in mezzo ai giornalisti e al giornale che aveva fondato e che amava più di ogni altra cosa. L’Espresso.

Tutto era partito da lì, in effetti:
via Po 12, quattro stanze, più una toilette e un altro stanzino, nel 1955.

«Eravamo agitati, emozionati, felici, impauriti allo stesso tempo.
Sembrava di partecipare al varo d’una nave, della quale nessuno conosceva con esattezza forma, dimensioni e strutture»,

ha scritto Eugenio Scalfari che con Caracciolo partecipò alla fondazione.

Omaggiando, dieci anni dopo, il pubblico «
giovane, moderno, privo di tribù ma anche privo di cinismo,
pessimista forse sul presente ma profondamente fiducioso nell’avvenire del Paese».

Da quella nave Espresso è partita una flotta di modernità, di progresso, di costruzione della democrazia italiana:
prima con la nascita di Repubblica, nel 1976, poi con la rete dei giornali locali, infine con il gruppo Gedi, dopo la fusione con la Stampa.

L’Espresso ha segnato la storia del giornalismo italiano.

I diritti civili, le grandi inchieste, la lotta contro le mafie, le massonerie e tutti i poteri occulti,
la laicità dello Stato, l’ambiente, la tenuta della democrazia italiana.

Siamo sempre stati schierati, a volte sbagliando, ma mai venendo meno al nostro codice genetico.

Sono le stesse battaglie che abbiamo portato avanti in questi quattro anni e mezzo.

L’Espresso ha raccontato l’Italia che cambia, con l’inizio della nuova legislatura, nel 2018,
il governo dei sovranisti e dei populisti e poi l’incubo della pandemia, dal 2020.

Abbiamo dato voce a un pezzo di Italia, l’Italia migliore,
come scrissi nel mio editoriale di presentazione nel 2017:
le donne, i giovani, gli stranieri migranti, i territori.

Abbiamo combattuto con intransigenza contro chi voleva chiudere e isolare il nostro Paese.

Abbiamo rivelato, con inchieste che hanno fatto il giro dei media mondiali,
i legami tra la Lega di Matteo Salvini e il regime di Vladimir Putin,
abbiamo anticipato il processo in Vaticano nei confronti di un cardinale costretto a dimettersi.

Abbiamo tenuto fede al nostro patto con i lettori: essere una testata libera, accogliente, indipendente
“.
 
incipit con amarcord spinto, e la rava e la fava.
(ndr: libera accogliente indipendente un par de ciufoli)



In una situazione di crisi del mercato editoriale
e con la difficoltà di far decollare la transizione digitale sempre annunciata e mai praticata.

Mentre i giornali tradizionali perdono copie, lettori, peso politico, credibilità, fiducia.

La categoria dei giornalisti fatica a parlarne,
si attarda nella difesa di quote di mercato sempre più ridotte.

Gli editori tendono a scaricare le colpe della crisi sui costi industriali della produzione.

Il mondo imprenditoriale, intellettuale e politico
non riesce a inquadrare il tramonto della stampa italiana
all’interno di una questione più importante,
perché tocca da vicino la tenuta delle istituzioni democratiche.

«La stampa in Italia costituisce un enorme problema
sia per quanto riguarda il suo ordinamento e sviluppo,
sia per quanto riguarda la sua indipendenza…
la gestione giornalistica è talmente costosa da essere proibitiva…

Il Paese è così dominato da cinque o sei testate.

Questi giorni hanno dimostrato come sia facile chiudere il mercato delle opinioni.

Non solo non troverai opinioni, ma neppure notizie.

Forse è questo un aspetto particolare di una crisi economica,
che non può non essere anche una crisi editoriale.


Infatti, su 20-25 seri giornali è difficile bloccare;


su 5 o 6 sì».



Non solo non troverai opinioni, ma nemmeno notizie:

lo scriveva Aldo Moro, nel suo memoriale dal covo delle Brigate rosse, nel 1978.


Si pensa di risolvere la situazione rincorrendo le nuove opportunità offerte dal digitale, come in altri parti del mondo.

Anche in Italia ci sono imprese che stanno dimostrando di saper affrontare con successo le sfide della transizione.


Ma non si può farlo immaginando di perdere la propria identità.

L’anima, il carattere di una testata.

È una scorciatoia che disorienta il pubblico e che prima o poi si dimostra illusoria.


Gedi è nel cuore di questa crisi.

In un gruppo che aveva sempre fatto della solidità,
della stabilità e della continuità aziendale e editoriale il suo modo di essere,
soltanto durante la mia direzione si sono alternati
due gruppi proprietari,
due presidenti,
tre amministratori delegati,
tre direttori di Repubblica.

Ed ora si vuole far pagare al solo Espresso l’assenza di strategia complessiva
“.
 

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