I miei pipponi sono meglio
«Se vai a ballare, tu hai tutto il diritto di ubriacarti, non ci deve essere nessun tipo di fraintendimento e nessun tipo di inciampo. Ma se eviti di ubriacarti e di perdere i sensi, magari eviti anche di incorrere in determinate problematiche perché poi il lupo lo trovi»
Conosciamo ormai tutte/i le parole esternate da Andrea Giambruno, giornalista su rete 4 e compagno della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni.
Un pensiero in realtà decisamente molto comune e piuttosto fuorviante, dato che in realtà dovrebbe rappresentare un’aggravante per lo/gli stupratori e non l’ennesimo modo per colpevolizzare la vittima.
Se fossi rimasta a casa.
Se non ti fossi vestita così.
Se non fossi andata a ballare.
Se non lo avessi provocato.
Se non fossi uscita di sera.
Se non avessi accettato quel lavoro.
Se non avessi bevuto.
Se non avessi preso i mezzi pubblici a quell’ora.
Se, se, se.
Senza dimenticare tutte quelle situazioni in cui lo stupratore (o in generale il violento) ha le chiavi di casa, in quel caso tutti ti incitano a denunciare e se non lo fai –il più delle volte per paura e per la totale mancanza di tutela– sarà ovviamente e anche in quel caso colpa tua.
Proprio nelle ultime ore sono arrivati i risultati delle analisi sul corpo di Giulia Tramontano, la 29enne al settimo mese di gravidanza uccisa brutalmente dal suo compagno che aveva poi inscenato la sparizione della stessa. Dai risultati sul corpo della giovane e del feto –che sarebbe nato di lì a poco–, sono state trovate tracce di veleno per topi. Giulia veniva avvelenata da mesi.
Una vicenda, aggravata da questo terribile e macabro dettaglio, che va a sfatare i fantomatici raptus che da anni leggiamo sui giornali quando si parla di violenza sulle donne.
Lupi, come li definirebbe Giambruno, con le chiavi di casa. Lupi che ti avvelenano lentamente, poi ti ammazzano brutalmente e poi inscenano anche la tua sparizione.
Giulia Tramontano è stata vittima di un uomo, non di un lupo, né di un mostro, né di un raptus di follia, né dell’alcol.
La colpevolizzazione della vittima, definita anche vittimizzazione secondaria in Italia è sempre stata molto forte e radicata nella nostra cultura. Così come quella dello stupro, di cui abbiamo parlato ampiamente nelle ultime settimane.
Un vecchio slogan recitava “Quando esco di casa voglio sentirmi libera, non coraggiosa”. Quante privazioni della libertà ci saranno ancora per le donne per tentare di arginare la violenza maschile?
E perché, invece, a non essere mai messa in discussione è la libertà maschile? Perché le donne dovrebbero privarsi della propria libertà o addirittura dovremmo creare dei vagoni appositi per le donne?
Perché invece di educare gli uomini, siamo noi a doverci privare persino della libertà di indossare quello che vogliamo, coprirci con indumenti informi quando dobbiamo andare in giro da sole o prendere i mezzi pubblici?
E’ diventato infatti virale, su vari social negli ultimi mesi, un trend dal nome #subwayshirt, dove varie ragazze, prima di uscire di casa, riprendono i loro outfit per passare inosservate (leggi: non essere molestate). Vi sembra libertà questa?
Nel famoso documentario “Processo per stupro” del 1979 che segue il procedimento giudiziario per uno stupro di gruppo da parte di quattro uomini ai danni di una ragazza di 18 anni, si evidenzia come la vittima sia costretta a dimostrare di non essere stata lei ad aver provocato la violenza.
È diventata famosa l’arringa dell’avvocata Tina Lagostena Bassi: “Nessuno di noi avvocati […] si sognerebbe d’impostare una difesa per rapina come s’imposta un processo per violenza carnale. Nessuno degli avvocati direbbe nel caso di quattro rapinatori che con la violenza entrano in una gioielleria e portano via le gioie […]: ‘Vabbè, dite che però il gioielliere ha un passato poco chiaro, dite che il gioielliere in fondo ha ricettato, ha commesso reati di ricettazione, dite che il gioielliere è un usuraio, che specula, che guadagna, che evade le tasse!’”.
Come disse Tina Lagostena Bassi in nessun altro processo la vittima e la sua vita vengono passati al setaccio, nessuno si sognerebbe di andare a scavare nella vita privata di qualcuno che ha denunciato qualche altro per rapina o per furto.
Sono passati quattro secoli da quando Artemisia Gentileschi, una tra le più grandi artiste, dopo aver denunciato il suo insegnante di prospettiva che aveva abusato più volte di lei dovette salire sul banco degli imputati per dimostrare la sua innocenza e la veridicità delle sue parole accettando persino di testimoniare sotto tortura, attraverso la "prova delle sibille" e a sottoporsi a visite ginecologiche che dimostrassero che non stava mentendo. Agostino Tassi, l’uomo che l’aveva violentata ribaltò le sue accuse tacciandola di promiscuità.
Attraverso questi quattro secoli tante, troppe cose sono rimaste lì, non sono state minimamente scalfite quando si parla di violenza di genere, di educazione di genere, del modo in cui troppi uomini si rapportino con le donne, di come (non) si parli di consenso e della colpevolizzazione delle vittime.
E mentre Andrea Giambruno con le sue esternazioni balzava su diversi giornali internazionali –da El Pais al The Guardian, fino ad arrivare a Le Figaro– si vocifereva di una sua possibile sospensione e lo stesso Giambruno, come da copione, invece di ammettere l’errore, indignato, si è appellato alla libertà di espressione.
“La dittatura del politically correct”, “censura” e “non si può più dire nulla”, il solito leitmotiv di chi vorrebbe pronunciare qualsiasi tipo di concetto discriminatorio e poi possibilmente passare per martire della censura.
Se si sta parlando di donne stuprate, caro Giambruno, innanzitutto si dovrebbe rispettare e tutelare le vittime e non farle passare al centro del dibattito come se le colpevoli fossero loro.
Inoltre, se stai parlando di donne vittime di violenza sessuale e non sei al bar sport, ma sei un giornalista e perdipiù il compagno della Presidente del Consiglio –e quindi consapevole che le tue parole verranno ascoltate da milioni di spettatori– dovresti tenere per te i tuoi richiami paternalistici verso la vittima e piuttosto parlare della cultura machista, del consenso e della cultura dello stupro.
Parlare di lupi famelici o animali selvatici o mostri non farà altro che andare a spalleggiare quel “la carne è carne”, una delle frasi che i sette stupratori di Palermo si scambiavano per legittimarsi, significa normalizzare la cultura dello stupro, continuare a veicolare retaggi, quella cultura secondo cui sta alle donne doversi difendere privandosi della libertà, perché si sa le cose sono sempre andate così e in giro ci sono uomini colti da raptus/in preda agli ormoni/provocati.
Continuare a parlare così di violenza continuerà a farci credere che sia il destino ineluttabile di noi donne.