Val
Torniamo alla LIRA
"In Lombardia sta succedendo qualcosa che non si riesce a spiegare: qui il coronavirus sta circolando in modo anomalo".
L’esperienza delle precedenti pandemie bastava a immaginare questo scenario.
Tuttavia si tratta di fenomeni che toccano una tale quantità di sfere, da quelle naturali a quelle sociali,
con innumerevoli ramificazioni, che per affrontarli un approccio interdisciplinare è fondamentale.
Io l’ho acquisito attraverso un percorso professionale atipico: prima da virologa, successivamente da parlamentare,
e infine da direttrice di un centro di studi interdisciplinare in Florida.
Nel mio libro Salute Circolare mi ero precisamente concentrata sugli squilibri globali che rendono sempre più probabili simili scenari.
In un certo senso, questa pandemia la stavamo tutti aspettando.
La pandemia ha mostrato alla luce del sole l’assoluta impreparazione dei governi occidentali:
sono situazioni in cui non si può discutere di ogni scelta, ci vuole una catena di comando chiara
e questo non significa adottare il modello cinese ma far funzionare più efficacemente il nostro.
Il panico sui mercati è stata la logica conseguenza.
Questa emergenza ha rivelato che è il vero punto di fragilità del sistema è la sua velocità.
Attraverso le infrastrutture di comunicazione siamo riusciti ad accelerare (e quindi a trasformare qualitativamente)
dei fenomeni che prima mettevano millenni ad accadere.
Pensiamo al virus del morbillo: non era altro che una mutazione della peste bovina che si è trasmessa all’essere umano
quando abbiamo iniziato ad addomesticare la mucca. Il morbillo ha invaso il mondo camminando, a piedi.
Pensiamo all’influenza spagnola, che un secolo fa ci ha messo ben due anni per diffondersi.
Questa volta invece sono bastate un paio di settimane.
Un virus che stava in mezzo a una foresta, in Asia, è stato improvvisamente catapultato al centro della scena,
passando da un mercato in cui venivano radunati animali provenienti da aree geografiche molto diverse
Siamo noi ad aver creato l’ecosistema perfetto per generare spontaneamente delle armi biologiche naturali.
Nel ciclo naturale, se pure il virus usciva dalla foresta andava a finire in un villaggio di cento persone e lì esauriva il suo ciclo di vita.
Noi stiamo vivendo un fenomeno epocale, ovvero l’accelerazione evolutiva del virus.
La tecnologia è troppo veloce per quello che la biologia è in grado di assorbire
Di fronte alla catastrofe attualmente in corso in Lombardia, con i suoi elevatissimi tassi di contagio
e di letalità rispetto agli altri focolai, è urgente porsi la domanda.
Che cos’è successo a Codogno, a Bergamo, a Brescia?
In questa fase possiamo soltanto fare delle ipotesi.
Io credo che ci siano dei fattori, che ancora non conosciamo, che possono favorire la diffusione
e la permanenza del virus, eventualmente legati alle strutture ospedaliere.
Esistono esempi precedenti: il virus SARS 1 era circolato attraverso la condotta dell’aria dell’Hotel M a Hong Kong.
Oggi noi dobbiamo essere certi che il coronavirus non sia entrato negli impianti di aerazione di edifici vetusti.
Anche la letalità potrebbe essere legata a diversi fattori ancora da studiare.
Si possono fare infinite ipotesi con criteri epidemiologici: caratteristiche demografiche (età e sesso),
qualità dell’aria, resistenza agli antibiotici, abitudini alimentari, comportamenti…
Una spiegazione si deve trovare.
Se la Lombardia non fosse un caso eccezionale, se dopo Milano allo stesso ritmo dovessero cadere
Roma e Parigi e Londra e tutte le altre città, allora avremmo a che fare con una catastrofe di proporzioni gigantesche,
persino più grandi di quelle con cui ci stiamo confrontando ora.
Per quello abbiamo bisogno di capire cosa sta succedendo.
C’è sicuramente una strumentalizzazione che rende più difficile affrontare la questione a mente fredda.
Ogni morte è una tragedia. Ma noi stiamo cercando di gestire una pandemia, ovvero evitare altre morti,
e ogni decesso rappresenta delle informazioni preziose.
Quindi sì, distinguere tra morti “da” coronavirus o “in associazione” al coronavirus è necessario.
Che possano nascere delle polemiche su questo è molto grave.
Noi dobbiamo fare queste distinzioni perché ci aiutano a verificare delle ipotesi.
Quello che sta accadendo in Lombardia, ripeto, deve essere chiarito.
La questione dei criteri di reporting dei casi è fondamentale:
abbiamo bisogno di dati armonizzati a livello nazionale, europeo, mondiale.
Altrimenti brancoliamo nel buio.
Se c’è stata una corsa agli ospedali questa non ha certamente migliorato la situazione.
Da tempo con il mio centro di ricerca stiamo proprio lavorando sull’influenza dei media
(e nello specifico delle fake news) nella diffusione delle malattie.
Ci siamo interessati alla peste suina africana, che se dovesse diffondersi per spillover al circuito industriale sarebbe una catastrofe economica,
e abbiamo osservato come il dibattito nei media influenza i comportamenti della popolazione, producendo talvolta degli effetti perversi.
Un’epidemia è un fenomeno sociale oltre che biologico e dobbiamo chiederci cosa fanno i media al coronavirus.
Per ora sappiamo che producono molti cosiddetti “worried healthy” che assumono comportamenti disfunzionali.
Ma nel momento in cui cominciano a emergere fake news sui virus creati in qualche laboratorio militare segreto,
come si è visto in rete, si pone ancora un ulteriore problema: quello della delegittimazione degli scienziati visti come untori.
Il coronavirus è un cigno nero che stravolgerà il rapporto tra scienza e società, il modo di lavorare, il modo di comunicare.
Ora dobbiamo essere pronti a quello che verrà.
continua su: Coronavirus, l’allarme di Ilaria Capua: “In Lombardia sta succedendo qualcosa che non si spiega”
Fanpage
L’esperienza delle precedenti pandemie bastava a immaginare questo scenario.
Tuttavia si tratta di fenomeni che toccano una tale quantità di sfere, da quelle naturali a quelle sociali,
con innumerevoli ramificazioni, che per affrontarli un approccio interdisciplinare è fondamentale.
Io l’ho acquisito attraverso un percorso professionale atipico: prima da virologa, successivamente da parlamentare,
e infine da direttrice di un centro di studi interdisciplinare in Florida.
Nel mio libro Salute Circolare mi ero precisamente concentrata sugli squilibri globali che rendono sempre più probabili simili scenari.
In un certo senso, questa pandemia la stavamo tutti aspettando.
La pandemia ha mostrato alla luce del sole l’assoluta impreparazione dei governi occidentali:
sono situazioni in cui non si può discutere di ogni scelta, ci vuole una catena di comando chiara
e questo non significa adottare il modello cinese ma far funzionare più efficacemente il nostro.
Il panico sui mercati è stata la logica conseguenza.
Questa emergenza ha rivelato che è il vero punto di fragilità del sistema è la sua velocità.
Attraverso le infrastrutture di comunicazione siamo riusciti ad accelerare (e quindi a trasformare qualitativamente)
dei fenomeni che prima mettevano millenni ad accadere.
Pensiamo al virus del morbillo: non era altro che una mutazione della peste bovina che si è trasmessa all’essere umano
quando abbiamo iniziato ad addomesticare la mucca. Il morbillo ha invaso il mondo camminando, a piedi.
Pensiamo all’influenza spagnola, che un secolo fa ci ha messo ben due anni per diffondersi.
Questa volta invece sono bastate un paio di settimane.
Un virus che stava in mezzo a una foresta, in Asia, è stato improvvisamente catapultato al centro della scena,
passando da un mercato in cui venivano radunati animali provenienti da aree geografiche molto diverse
Siamo noi ad aver creato l’ecosistema perfetto per generare spontaneamente delle armi biologiche naturali.
Nel ciclo naturale, se pure il virus usciva dalla foresta andava a finire in un villaggio di cento persone e lì esauriva il suo ciclo di vita.
Noi stiamo vivendo un fenomeno epocale, ovvero l’accelerazione evolutiva del virus.
La tecnologia è troppo veloce per quello che la biologia è in grado di assorbire
Di fronte alla catastrofe attualmente in corso in Lombardia, con i suoi elevatissimi tassi di contagio
e di letalità rispetto agli altri focolai, è urgente porsi la domanda.
Che cos’è successo a Codogno, a Bergamo, a Brescia?
In questa fase possiamo soltanto fare delle ipotesi.
Io credo che ci siano dei fattori, che ancora non conosciamo, che possono favorire la diffusione
e la permanenza del virus, eventualmente legati alle strutture ospedaliere.
Esistono esempi precedenti: il virus SARS 1 era circolato attraverso la condotta dell’aria dell’Hotel M a Hong Kong.
Oggi noi dobbiamo essere certi che il coronavirus non sia entrato negli impianti di aerazione di edifici vetusti.
Anche la letalità potrebbe essere legata a diversi fattori ancora da studiare.
Si possono fare infinite ipotesi con criteri epidemiologici: caratteristiche demografiche (età e sesso),
qualità dell’aria, resistenza agli antibiotici, abitudini alimentari, comportamenti…
Una spiegazione si deve trovare.
Se la Lombardia non fosse un caso eccezionale, se dopo Milano allo stesso ritmo dovessero cadere
Roma e Parigi e Londra e tutte le altre città, allora avremmo a che fare con una catastrofe di proporzioni gigantesche,
persino più grandi di quelle con cui ci stiamo confrontando ora.
Per quello abbiamo bisogno di capire cosa sta succedendo.
C’è sicuramente una strumentalizzazione che rende più difficile affrontare la questione a mente fredda.
Ogni morte è una tragedia. Ma noi stiamo cercando di gestire una pandemia, ovvero evitare altre morti,
e ogni decesso rappresenta delle informazioni preziose.
Quindi sì, distinguere tra morti “da” coronavirus o “in associazione” al coronavirus è necessario.
Che possano nascere delle polemiche su questo è molto grave.
Noi dobbiamo fare queste distinzioni perché ci aiutano a verificare delle ipotesi.
Quello che sta accadendo in Lombardia, ripeto, deve essere chiarito.
La questione dei criteri di reporting dei casi è fondamentale:
abbiamo bisogno di dati armonizzati a livello nazionale, europeo, mondiale.
Altrimenti brancoliamo nel buio.
Se c’è stata una corsa agli ospedali questa non ha certamente migliorato la situazione.
Da tempo con il mio centro di ricerca stiamo proprio lavorando sull’influenza dei media
(e nello specifico delle fake news) nella diffusione delle malattie.
Ci siamo interessati alla peste suina africana, che se dovesse diffondersi per spillover al circuito industriale sarebbe una catastrofe economica,
e abbiamo osservato come il dibattito nei media influenza i comportamenti della popolazione, producendo talvolta degli effetti perversi.
Un’epidemia è un fenomeno sociale oltre che biologico e dobbiamo chiederci cosa fanno i media al coronavirus.
Per ora sappiamo che producono molti cosiddetti “worried healthy” che assumono comportamenti disfunzionali.
Ma nel momento in cui cominciano a emergere fake news sui virus creati in qualche laboratorio militare segreto,
come si è visto in rete, si pone ancora un ulteriore problema: quello della delegittimazione degli scienziati visti come untori.
Il coronavirus è un cigno nero che stravolgerà il rapporto tra scienza e società, il modo di lavorare, il modo di comunicare.
Ora dobbiamo essere pronti a quello che verrà.
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