Avrei elaborato un po' la critica su Calderon ...
Prego sopportarmi ancora una volta
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Immagino che uno possa porsi il problema: Ma questa pittura è astratta? è in qualche modo figurativa? Oppure esprime solo o quasi i tormenti interiori dell'artista?
Sono le solite domande di sempre, stavolta però assai meno adeguate.
Senza essere un simbolista, Carlos Gil Calderon, artista cubano, fa uso di simboli della tradizione locale, in particolare la Santeria, una religione africana costretta, per sopravvivere sotto il regime spagnolo, a mascherarsi da religione cristiano cattolica, sino a praticamente fondersi con essa. Simboli che talora sono semplicemente segni quasi astratti, talaltra invece risultano evocativi, intensamente evocativi, di energiche entità terrestri, animistiche o spirituali.
Anche Capogrossi, per voler trovare un precedente, si impossessò di un simbolo (la famosa "forchetta") e ne fece un segno, principalmente nella dimensione estetica. Agendo così, è come se avesse messo slip e reggiseno a delle indigene, che in tal modo divennero elegantucce, ma snaturate, poste come in riga.
Calderon non perde invece la forza evocatrice di questi segni/simboli/segnali, evita di compiacersene esteticamente: lascia piuttosto loro il compito originario di portare, nel caos ordinato di ogni inizio, lo spirito nella materia, di elevare la materia allo spirituale, assegnando implicitamente ad ogni forma una sorta di anima. Allora i segni agiscono anche sul piano estetico, ma conservando tutta la forza generatrice da cui provengono.
Ovvio che in questo processo la razionalità controlli, ma non decida. La decisione è "nei fatti". L'artista gestisce, sì, ma è immerso nell'azione ed è parte di essa.Della Comedia dantesca fu detto che le scene ci si squadernano grandiosamente davanti una dopo l'altra: qualcosa del genere vedrei anche nelle sue tele, o nei lavori su carta di grande dimensione.
Bene: come fa? Quali sono i suoi strumenti concreti? Quanto al colore, l'opzione è verso tinte povere, "ctoniche", antiche: bianchi, neri, terre e poco altro. Così ogni compiacimento troppo estetizzante, "raffinato", viene bandito. A ciò si abbina la scelta di privilegiare il senso del tatto: la superficie è spesso rilevata, e liscia, e opaca, e pure brillante, in mille variazioni, compreso l'uso di materiali diversi, come paglia e residui vari, che vengono incollati, talora danneggiati, ridipinti, insomma, ripeto, un controllato caos generatore.
Il tatto essendo il primo dei sensi ad essere usato nel singolo uomo, quello sul quale si modellano tutti gli altri, risulta per ciò stesso anche come il più primitivo. Da qui la forza dell'effetto evocatore dei materiali, che Calderon sta ben attento a non smorzare, come avverrebbe usando accorgimenti puramente estetici. I giochi della materia rimangono allora uno strumento senza diventare uno scopo, trappola in cui fatalmente cadrebbe un artista di cultura europea, quale, per esempio, De Staël o persino Tapiès.
La forza del sentire tattile ci esime così dal dover conoscere e riconoscere le varie simbologie, in quanto, anche solo come segni, conservano non solamente l'energia originaria, ma anche il suo significato occulto.
E' assai positivo che questa pittura, pur non ricercando la "piacevolezza", non viri nemmeno verso il suo contrario, cioè una durezza che potrebbe esprimersi in segni rigidi o monumentalità artificiali. Rimane, piuttosto, una monumentalità naturale, "biologica", perché il nostro giovane sciamano ha pur studiato alla scuola d'arte, e se prima ho citato Dante, adesso potrei far riferimento a Beethoven, musicista raffinato ma pure energico. Ora, magari, trattandosi di un ventitreenne, sto dandogli responsabilità probabilmente eccessive. Ma speriamo di no. Nella sua particolare isola si cresce presto, e a 23 anni un uomo è già adulto. O quasi.