CHE VOI SAPPIATE, DELLA VITA C'ERA ANCHE LA VERSIONE SENZA ANSIA?

Allucinante.



La Svizzera questa volta non è stata certo neutrale.

Il provvedimento adottato nei confronti dei proprietari di un noto ristorante nel centro di Zermatt
città di montagna del Canton Vallese famosa per lo sci e il curling, è stato esemplare.

Dopo settimane - si legge sul Messaggero - di un'offensiva No Green Pass
che ha visto schierati al fronte camerieri rigorosamente senza mascherina anche nella calda sala del seminterrato,
con clienti invitati a non presentare nessun certificato (come precisato sul sito) né tantomeno a fornirsi di maschera,
gli ultimi giorni hanno visto un'escalation degli atti ostili,
fino ad arrivare all'arresto dei gestori,
ai sigilli sulle porte del ristorante,
al ritiro della licenza
e addirittura allo schieramento di blocchi di cemento davanti all'ingresso.


Ieri il tribunale di Zermatt - prosegue il Messaggero - ha deciso di rimettere in libertà la famiglia di trasgressori,
Andreas e Nelly Aufdenblatten e il figlio Ivan, respingendo la richiesta del Pubblico Ministero che avrebbe voluto prolungare la punizione.


Ci auguriamo che d'ora in poi proprietari rispetteranno le disposizioni delle autorità, in caso contrario,
sapremo come agire ha detto Frédéric Favre, capo del Dipartimento Sicurezza del Cantone.


Per il momento, gli Aufdenblatten non potranno tornare a condurre la loro battaglia
tra le fondute e le raclette del loro ristorante, perché la licenza è sospesa a tempo indeterminato.
 
Siamo davvero – come molti dicono – alla vigilia di una catastrofe climatica?

Ieri a sostenerlo al Cop26 di Glasgow è stato l’ex presidente Usa, Barack Obama:

“Il tempo sta scadendo… è un decennio decisivo per evitare il disastro”.


Nessuna sorpresa nemmeno per la dichiarazione del segretario generale dell’Onu,
Antonio Guterres del 26 ottobre scorso:

“Siamo sull’orlo di una catastrofe climatica”.

Si potrebbero citare molti altri grandi del mondo per non parlare dei tantissimi fedeli e seguaci
di quella para-religione di salvezza dall’Apocalisse che ha trovato in Greta Thunberg una profeta.


La predizione dell’Apocalisse imminente evitabile solo se il mondo azzererà le emissioni di Co2
“entro o attorno la metà del secolo” è condivisa da (quasi) tutti i “grandi” e i “piccoli” del mondo.

È ormai una verità praticamente ufficiale che viene ripetuta dai grandi e piccoli mass-media
con innumerevoli reportage, articoli, film e documentari.

Lo scenario che illustrano viene reiterato ogni giorno:
ondate di caldo,
deforestazioni
e desertificazioni,
inondazioni dovute allo scioglimento dei ghiacci polari,
piogge torrenziali – dalla Siberia al Canada, agli Usa, al Nord Europa, al Mediterraneo –
con l’appendice di miliardi di profughi climatici per non parlare dell’estinzione dell’orso bianco.



Eppure, alcuni scienziati le contestano,
anche se sono ignorati dal grande stampa e dai grandi media.



Tra questi ci sono in Italia Antonino Zichichi e Franco Prodi

che anche in recentissime interviste si sono dissociati dalla corrente maggioritaria

ed hanno contestato il valore scientifico di quelle previsioni

e della credenza nell’origine prevalentemente antropica del riscaldamento globale.




Tra gli scienziati scettici c’è anche Steven Koonin, fisico specializzato nel clima,

che è stato anche ex sottosegretario alla Scienza e all’Energia nei governi Obama.

Koonin smentisce proprio il suo ex presidente Obama nel suo ultimo libro Unsettled (2021)

che sta facendo rumore in tutto il mondo perché sostiene dati alla mano che l’Apocalisse non c’è e non ci sarà.

“Che il pianeta si stia scaldando è un fatto - dice Koonin,
come pure è molto probabile che una (piccola) parte del riscaldamento del pianeta
sia probabilmente dovuta alle emissioni umane di Co2 dovute ai combustibili fossili.
Ma sono errate però – afferma l’autore – le conclusioni che se ne traggono:

nessuna catastrofe è alle porte.

Ed è errato credere che si possa veramente regolarne, a piacimento,

le quantità in atmosfera e credere che questo, di per sé, abbia un effetto sulle temperature del pianeta."



Koonin per queste false convinzioni diffuse se la prende,
più che con l’Ipcc (International panel for climate change) dell’Onu,
soprattutto con il sistema dei media.


I media drammatizzano gli eventi climatici per calamitare audience.

Pare che il clima si venda bene.



Ad esempio, la tesi che allagamenti, siccità, bolle di pioggia, temporali, cicloni tropicali
si starebbero intensificando, in correlazione diretta con i cambiamenti climatici
ripetuta quotidianamente dai media viene definita nei report Ipcc, “a bassa attendibilità” (low confidence).


Eppure, ricorre ossessivamente sui media.


Il catastrofismo – nota Koonin – evoca nell’opinione pubblica due reazioni di riflesso:

che i cambiamenti climatici siano opera dell’uomo

e che bisogna fare subito “qualcosa di radicale e urgente”.



Purtroppo, la risposta dei governi finisce col diventare rituale e frustrante:

“È colpa della Co2, tagliamo le emissioni”.


Koonin ritiene che alla scienza vengano attribuite molte idee sbagliate,
luoghi comuni, inesattezze che distorcono il dibattito pubblico sul clima.

La semplificazione sacrifica l’accuratezza, ma estende la platea.

Gli stessi modelli e scenari che l’Ipcc costruisce e proietta al 2050 e oltre
sono solo – dice Koonin – esercizi, ipotesi.


Non danno alcuna certezza e soprattutto non hanno alcun valore prescrittivo.


“Tutti i modelli sono sbagliati, ma alcuni tornano utili”
.


Occorre tenerlo in mente quando, di una ipotesi dell’Ipcc, si scrive: “Lo dice la scienza”.

Il clima resta, in ogni caso, caotico ed evolve quasi sempre in modo assai difforme dal modello.


Passando poi alle questioni di merito, Koonin dice che è certamente vero
che la presenza in atmosfera di Co2 è fortemente aumentata negli ultimi due secoli.

Essa è stata per secoli di circa 280 ppm (parti per milione).

Poi, agli inizi dell’Ottocento e in coincidenza con l’industrializzazione,
ha cominciato ad aumentare e oggi è a 410 ppm, quasi un raddoppio: 130 ppm in più.


Questa quantità, attribuita all’uso di combustibili fossili, è ritenuta l’eccesso

e ad essa sola si attribuisce l’attuale riscaldamento del pianeta.


Errore grave:

perché quella quantità aggiuntiva – nota Koonin – significa solo 2,8 molecole di Co2 in più ogni 10.000 degli altri gas serra.


Questa aggiunta fa sì che il calore, intercettato e trattenuto dai gas serra, passi dall’81,1 solo all’ 81,7 per cento.


In conclusione: è praticamente impossibile che quella esigua differenza spieghi, da sola,

l’intero aumento delle temperature (+1,5° Celsius) degli ultimi due secoli e mezzo.



C’è di più:

la Co2 è un gas assai stabile.


Il 60 per cento del gas emesso rimane in atmosfera 20 anni,

il 55 per cento ci resta un secolo

ed il 15 per cento, addirittura, un migliaio di anni.


Insomma, la Co2 che già c’è, è destinata a restare.


Le politiche anti-emissive non la toccano: riguardano solo quella che emetteremo.



È vero – osserva poi Koonin – che se continuassimo ad emettere as usual,
nel 2070 l’anidride carbonica in aria raddoppierebbe (820 ppm).

E tuttavia, anche in questa ipotesi, il calore catturato e trattenuto dai gas serra passerebbe solo dall’81,7 all’82,1 per cento.

Se attuassimo, invece, i tagli previsti dai green deal stabilizzeremmo l’attuale percentuale di calore intercettato.


Niente garantisce davvero che azzerare le emissioni al 2050 (posto che tutti lo facciano)

e stabilizzare l’attuale Co2 basti a trattenere l’aumento delle temperature entro i 2° Celsius.

È solo una scommessa ad alto rischio e ad altissimi costi.

E il gioco non sembra valere la candela.



Comunque, i numeri e gli argomenti forniti da Koonin dicono che, in ogni caso, l’Apocalisse è esclusa,
nonostante che sia data per scontata da grandi e piccoli del mondo.


Come mai l’Apocalisse è divenuta allora una verità quasi indiscutibile?


La verità è che una qualsiasi ipotesi,

anche sciocca e infondata,

quando sia capace di suscitare un terrore o una speranza,

diventa rapidamente luogo comune e “verità dei tempi”.


Specie se suscita terrore e speranza insieme.


Ed è allora molto difficile contrastarla.




..........come il covid ...........
 
Mandiamolo a coltivare le violette.....


“Le scelte relative al ritiro del dossier Zambon furono autonome, dell’Oms”,
disse il ministro della Salute Speranza al Parlamento
nel corso della discussione sulla mozione di sfiducia
presentata ad aprile scorso da Fratelli d’Italia.

In quella sede il ministro affermò di non aver mai interferito sulla mancata divulgazione del documento
redatto da Francesco Zambon sulle gravi carenze dell’Italia all’inizio della pandemia.

Parlò di speculazioni politiche, senza mai rispondere.

Ma Speranza, sui pasticci dell’Oms e del governo italiano,
mentì, secondo gli atti della Procura di Bergamo.


“Avevamo già dimostrato come in realtà il Capo di Gabinetto del Ministero,

misteriosamente dimessosi nelle scorse settimane dopo un’audizione di 8 ore davanti ai PM di Bergamo,

avesse operato per far si che il documento non venisse rimesso on line”


“A seguito della divulgazione di alcune chat intercorse tra Brusaferro e Speranza

abbiamo la prova che il Ministro Speranza,

direttamente e non solo per tramite del suo capo di Gabinetto,

è intervenuto sui vertici OMS riguardo al documento redatto da Zambon, condizionandone l’operato.

Il Ministro, come da noi sempre sostenuto, ha mentito.

Confidiamo che il Presidente del Consiglio Draghi intervenga rimuovendo Speranza”



che ricostruisce tutta la vicenda del report ritirato, chat rivelatrici comprese.


Sebbene ai pm il 29 gennaio scorso l’esponente Leu avesse detto che quel report era indifferente per lo Stato,

dalle chat emerge che Brusaferro, Speranza e il suo capo di gabinetto Goffredo Zaccardi

avrebbero lavorato per una posizione comune sul report cancellato.
 
Dalla parte della Polonia.



La Corte costituzionale italiana, con la sentenza n. 348/2007,

ha affermato che la parziale cessione di sovranità alla quale l’Italia ha acconsentito

con l’adesione ai Trattati comunitari trova un limite costituito proprio dalla

“intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione”.



Analogo orientamento, in epoca antecedente, era già espresso con la sentenza n. 183/1973,

per la quale era da escludere che le limitazioni di sovranità conseguenti all’adesione al Trattato di Roma, istitutivo della Cee,

potessero “comunque comportare per gli organi della Cee un inammissibile potere di violare i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale,

o i diritti inalienabili della persona umana”.



Sulla stessa linea si era poi collocata anche la sentenza n. 170/1984.



Vero è, nel raffronto fra tali pronunce e quella del Tribunale costituzionale polacco,
che quest’ultima si caratterizza, oltre che per il fatto di essere stata promossa dal Governo,
anche per lo specifico riferimento a taluni articoli del Trattato sull’Unione europea,
dei quali si afferma la incompatibilità con la Costituzione polacca:
con la precisazione che si tratterebbe di una incompatibilità non assoluta ma solo
“nella misura in cui” i primi venissero interpretati in modo da dar luogo a conseguenze lesive,
in particolare, dell’assetto costituzionale del sistema giudiziario, quale voluto dal potere legislativo.


Si tratta però di caratterizzazioni che lasciano intatta la collocabilità della pronuncia
sulla linea del medesimo principio affermato anche dalla Corte costituzionale italiana
con le pronunce sopra menzionate; linea che, peraltro, coincide con quella espressa, in passato,
dal Tribunale costituzionale polacco con la sentenza dell’11 maggio 2005
sul trattato di adesione della Polonia all’Unione europea, in cui
(come scrive il professor Carlo Curti Gialdino in un articolo comparso il 20 ottobre)
si metteva in luce come in nessun caso la prevalenza da riconoscere alle regole di diritto internazionale
che, con l’adesione, la Polonia si impegnava ad osservare,
“potesse estendersi alla Costituzione, che restava il diritto supremo della Repubblica”.

È lo stesso professor Curti Gialdino a riconoscere onestamente,
pur mostrandosi del tutto a favore della posizione assunta dall’Unione europea,
che la sentenza 7 ottobre 2021 del Tribunale costituzionale, si pone, su questo punto,
“in stretta linea di continuità” con quella del 2005.


C’è da chiedersi, allora, perché solo la sentenza del 7 ottobre abbia suscitato scandalo e allarme
al punto tale da indurre il Parlamento europeo ad adottare, nei giorni scorsi
una risoluzione con la quale chiede alla Commissione e al Consiglio di attivarsi
non solo per promuovere una procedura di infrazione nei confronti della Polonia,
ma anche e soprattutto per impedire che quest’ultima benefici delle provvidenze economiche previste dal Pnrr
fino a quando non siano state eliminate le asserite violazioni ai principi dello “stato di diritto”.


Queste ultime sarebbero riscontrabili in particolare, secondo lo stesso Parlamento,
nelle norme riguardanti la composizione ed il ruolo del Tribunale costituzionale,
il funzionamento della sezione disciplinare della Corte suprema,
l’ordinamento del Consiglio nazionale della magistratura
e quello degli uffici della procura di Stato;
norme che – si sostiene – minerebbero il basilare principio dell’indipendenza della funzione giudiziaria
dal potere politico che costituisce uno dei “valori” riconosciuti e tutelati dall’Unione europea.


È facile rispondere considerando che il principio enunciato nella sentenza del 7 ottobre,
pur non essendo nuovo, ha potuto assumere, nell’attuale contesto politico,
l’apparenza di una provocazione e offrire al Parlamento europeo il pretesto per sollecitare l’impiego,
nei confronti della Polonia, di un’”arma risolutiva” tale da costringerla alla resa nella guerra
che contro di essa è stata intrapresa dall’Unione europea a far tempo dalla l’affermazione,
avvenuta nelle elezioni del 2015 e ripetuta in quelle del 2019, dell’attuale maggioranza politica,
imperniata sul partito “Diritto e giustizia”, ritenuto di estrema destra.


A tale maggioranza si è via via addebitato di aver attentato,
oltre che all’indipendenza della magistratura,
anche alla libertà dei mezzi d’informazione,
come pure di aver adottato politiche discriminatorie in materia sessuale
e, da ultimo, come si legge nella risoluzione del Parlamento europeo in data 16 settembre 2021,
di aver sostenuto anche quelli che vengono definiti “attacchi ai diritti delle donne in Polonia”:
con esplicito riferimento alla sentenza del Tribunale costituzionale,
definito “illegittimo”, che ha dichiarato incostituzionale la legge polacca
in materia di interruzione volontaria della gravidanza nella parte in cui consentiva
che ad essa si facesse ricorso in caso di accertata malformazione del feto.



“L’arma risolutiva” di cui si è detto dovrebbe essere, nelle aspettative del Parlamento,
quella costituita dal Regolamento europeo n. 2092, adottato alla chetichella il 16 dicembre 2020,
col quale è stato stabilito che il Consiglio, su proposta della Commissione europea,
senza necessità di far ricorso alla Corte di giustizia,
possa sospendere l’approvazione o l’esecuzione di programmi di finanziamento da parte dell’Unione
in favore di uno Stato membro, quando ritenga che in esso si dia luogo ad una “violazione dei principi dello stato di diritto”;
violazione che può essere costituita, in particolare, anche da non meglio precisate “minacce all’indipendenza della magistratura”.


All’evidente scopo di rafforzare la posizione contrattuale della Commissione nei confronti della controparte polacca
è stata addirittura promossa, ultimamente, la messa in scena di un ricorso del Parlamento alla Corte di giustizia contro la stessa Commissione,
addebitandosi a quest’ultima la “mancata attivazione del meccanismo di condizionalità” previsto dal suddetto regolamento.


Conoscendo però la tenacia dei Polacchi nella coraggiosa difesa di quelli che essi ritengono i diritti della loro Nazione,

non è detto che l’arma risolutiva apprestata dall’Unione europea si riveli effettivamente tale.



Proprio quest’anno ricorre il centenario del Trattato di Riga che prese atto

della clamorosa e inaspettata vittoria ottenuta l’anno prima dall’esercito polacco,

sotto la guida del maresciallo Józef Piłsudski, contro le forze soverchianti della Russia sovietica,

intenzionata a riportare la Polonia alla condizione di provincia dell’impero russo che essa aveva al tempo degli zar.



Fu un miracolo, ma a volte i miracoli si ripetono.
 
In Italia, giuridicamente parlando,
esiste per i dati che riguardano la nostra situazione economica e patrimoniale,
quella che viene definita una tutela attenuata,
poiché sono sì informazioni private ma sono collocate in una posizione
in un certo senso “intermedia” sulla scala dei valori da proteggere.



Ci sono poi una serie di norme procedurali che definiscono il campo di azione della stampa quando si tratta di atti di indagine.


Poi vabbè, c’è la Costituzione, ma ormai dopo due anni di Stato di emergenza-sanitaria prolungata

e appiccicata con lo sputo alla legalità, disapplicata per disapplicata chi vuoi che se ne ricordi più.


Ma, no, non vi annoieremo con tediose disquisizioni giuridiche anche se per farle avremmo i titoli,

ci limiteremo a verificare se Marco Travaglio li ha, al punto da poter sbattere in prima pagina gli estratti conto del senatore Matteo Renzi.



Si vede che qui qualcuno è rimasto ai tempi di Tangentopoli,
quando i capi di imputazione e determinati reati accertati
giustificavano la curiosità dell’opinione pubblica e pertanto erano
– opinabilmente anche allora – coperti dal diritto di cronaca.


Le entrate dell’ex premier non sono oggetto di indagine.

Ripetiamo: non lo sono.

E però sono state prese dalla dichiarazione dei redditi pubblici di Renzi.



Sentivamo proprio la mancanza di quello sport tapino tipico di una certa umanità tapina,

quella che principalmente si è politicamente riversata in un movimento politico

che ha raggrumato un brodo di tapini primordiali,

di andare a guardare i fatti degli altri, meglio se sono fatti pubblici contenuti in dichiarazioni pubbliche.




Una volta c’erano i guardoni che spiavano le coppiette nelle frasche,
e spesso erano dei maniaci come il Pacciani,
oggi abbiamo una nuova perversione del tutto mediatica d
i cui Marco Travaglio è indubbiamente il caso clinico uno,
il Marchese del Conto, uno che prova godimento a farsi i fatti – per non usare parolacce – degli altri.

Però, come tutte le perversioni più turpi e quindi non accettabili dalla mente conscia,
ci vogliono delle giustificazioni, quindi oltre alla suddetta, c’è pronta anche quell’altra di rinforzo
che siccome Renzi è oggetto di indagini della Procura di Firenze
che lo accusa di concorso in finanziamento illecito insieme agli ex ministri Luca Lotti e Maria Elena Boschi,
allora pubblicare i suoi guadagni va bene.


L’indagine verte su contributi volontari finiti nelle casse della Fondazione Open
e, tra migliaia gli atti depositati dai pm, c’è anche un’informativa della Guardia di Finanza
che contiene gli estratti del conto corrente sputtanato.


Quello che sta accadendo a Renzi dovrebbe farci tutti saltare sulla sedia,

non perché siamo amici di Renzi ma perché abbiamo un espion, un detective,

un enquêteur, veilleur, délateur professionista,

un Kgb installato nella redazione di un quotidiano nazionale da decenni

e però va tutto bene, tutto regolare, tutto consentito, tutto normale.


Giornalismo d’inchiesta, dicono.



Il punto non è tanto, perlomeno qui in questa sede critica,
se si possa o non si possa fare
e se e quale possa essere il danno ingiusto nel fare una cosa del genere
– o degenere – ma in primis se sia clinicamente normale, in secundis se interessi.


A chi non ha qualche perversione e non prova godimento dagli estratti conto no.


Attendiamo quindi dal Maestro dopo decenni di eccitanti onanismi intellettuali il capolavoro,

l’“Histoire d’Èmme”, ma come minimo proprio, per spiegarci, per farci capire, per farcene rapire.



Fossero almeno state le foto della Boschi nella doccia, che so, l’avrei capito.
 
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Ed ora arriva il Regen-Cov,

il farmaco basato su un cocktail di anticorpi monoclonali

in grado di proteggere per otto mesi dagli assalti del Covid 19

riducendo fino all’82% le eventuali sintomatologie.



Dopo le notizie relative agli antivirali di Merck e Pfizer della settimana scorsa,
si rincorrono altre notizie importanti relativamente a cure o a contromisure contro il COVID-19.

Sicuramente avere a disposizione una specie di aspirina
in grado di combattere gli effetti più deleteri del coronavirus
rappresenta un elemento di crescente sicurezza
ma anche di speranza che la guerra che stiamo combattendo possa terminare in fretta.

Gli antivirali, come ha sottolineato l’amministratore delegato di Pfizer,
rappresentano la vera chiave del successo nella lotta al coronavirus,
anche per la capacità di diffondere il farmaco senza particolari procedure di conservazione
così come attualmente si è costretti dall’uso dei vaccini stessi.


Dopo gli antivirali di Merck e Pfizer, la notizia odierna del possibile uso del farmaco Regen- Cov
strutturato su un mix di anticorpi monoclonali, apre ulteriori spazi di speranza
visto che ne è stato dichiarato l’uso negli Stati Uniti per ora nei trattamenti terapeutici di casi con sintomatologie gravi.

La compagnia farmaceutica che lo produce, la Regeneron Pharmaceuticals,
ha chiesto alle autorità americane di poter espandere le autorizzazioni anche all’uso preventivo delle infezioni da Covid 19.

Del resto i test hanno dimostrato che la protezione generata dall’assunzione del Regen-Cov
garantisce una protezione per oltre otto mesi, riducendo dell’82% le sintomatologie infettive.

Durante lo studio, nessuna delle persone trattate con il nuovo farmaco
è stata costretta a ricoveri causa Covid e naturalmente nessuna terapia intensiva nè morte è stata registrata.
 
Ma come ? Ma se esistono delle cure, non si può più applicare la procedura d'emergenza
per gli pseudo vaccini.....e noi continuiamo con le decisioni insulse lesive della Costituzione
e naturalmente della LIBERTA' ?


La Costituzione non disciplina lo stato di emergenza
.

La Carta non prevede deroghe allo Stato di diritto o ai meccanismi ordinari di esercizio del potere.

Con una sola eccezione: lo stato di guerra disciplinato dall’art. 78:


Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari”.

La dichiarazione dello stato di guerra spetta poi al Presidente della Repubblica (art. 87 Cost.).

Si tratta in sostanza di una sospensione dello Stato di diritto limitata alle operazioni belliche,
con l’applicazione del codice militare di guerra per un tempo indeterminato o meglio fino alla cessazione delle ostilità.

Questo è sotto il profilo giuridico, nel nostro ordinamento, lo “stato di eccezione”.


Nel 1992 il Legislatore ritiene opportuno disciplinare, con legge ordinaria, lo “stato di emergenza”,

ed approva la Legge n. 225/1992, sostituita successivamente dal D.Lgs. n. 1/2018

per ragioni di riordino della protezione civile.


All’art. 7 il D.Lgs. stabilisce i casi in cui è possibile – con delibera del Consiglio dei ministri –

dichiarare lo stato di emergenza per “limitati e predefiniti periodi di tempo”.


Il successivo art. 24 prevede infatti che la durata non sia superiore a dodici mesi,

prorogabile per altri dodici, per un totale di ventiquattro mesi.


In buona sostanza lo stato di emergenza consiste nell’attribuire al governo un potere di ordinanza

che superi, solo per far fronte all’emergenza, le regole ordinarie.

Mezzi straordinari al posto di quelli ordinari
.


Spieghiamo meglio.

Lo stato di emergenza consente ai ministeri e ai loro uffici periferici

di agire senza rispettare le norme ordinarie in materia, ad esempio,

di appalti, di acquisti materiali, di assunzioni, di nomine e quant’altro.



L’affaire mascherine dovrebbe ricordarci qualcosa.


Peccato però che questi mezzi straordinari si siano trasformati ormai in “eccesso di potere”:

nessuno attribuisce alla Questura, ad esempio, il potere di dare il Daspo ad un uomo senz’armi,

seduto da solo ad un tavolino, che esprime con altri il proprio dissenso nei confronti del green pass,

senza incitare a nessuna violenza.


Il potere di ordinanza derivante dallo stato di emergenza diventa così esercizio arbitrario del potere.



Il governo Conte II ha proclamato lo stato di emergenza
con delibera del Consiglio dei ministri il 31 gennaio 2020, per la durata di 6 mesi.

A seguito di molteplici proroghe, fatte anche dal nuovo Governo Draghi,
si è arrivati alla data del 31 dicembre 2021.



Stando a quanto previsto dall’art. 24 del D.Lgs. n. 1/2018

una ulteriore proroga non può oltrepassare il 31 gennaio 2022.



Eppure, il Ministro della salute Speranza,

ma anche il premier Draghi,

hanno già fatto intendere che potrebbero esserci proroghe ulteriori,

ventilando l’ipotesi di una estensione della obbligatorietà del green pass

– il cui ambito di applicazione è strettamente connesso allo stato di emergenza – fino a giugno 2022.



E qui sorge un primo problema.

Se lo stato di emergenza non può essere prolungato oltre il 31 gennaio 2022,

come possono esserci proroghe ulteriori, addirittura fino a giugno?



Semplice.


Nessuno vieta al governo, al termine dei 24 mesi (31 gennaio 2022),

di deliberare uno stato di emergenza ex novo basato su presupposti

parzialmente differenti rispetto alla delibera di due anni fa.



Invece di scrivere, ad esempio, che si tratta di emergenza scaturente dall’epidemia da Covid19,
scriverà che ci sono nuove varianti oppure che occorre portare a termine la campagna vaccinale,
e che quindi servono sempre poteri straordinari perché alle porte ci sono quinta e sesta ondata, terza e quarta dose,
riorganizzare gli hub vaccinali etc.

Nessuno formalmente potrebbe dire nulla.


Se le cose stanno così,

e stanno così,

siamo messi male, molto male.



Secondo problema.

Cosa accade se l’eventuale proroga che il governo adottasse a fine anno

superasse il limite dei due anni, dunque una proroga, ad esempio, fino al 31 marzo 2022?



In tal caso il limite temporale stabilito dalla legge sarebbe superato

per effetto di una prosecuzione del vecchio stato di emergenza;

pertanto, si tratterebbe di una proroga illegittima,

un “abuso di potere” da parte dell’esecutivo.



Ma chi controlla?


Se il governo adottasse una proroga del genere con atto avente forza di legge (decreto-legge ad esempio),

vi sarebbe un controllo da parte del Parlamento nel percorso di conversione in legge del decreto,

seguito dalla promulga del Capo dello Stato.


Successivamente, trattandosi di atto avente forza di legge,

vi potrebbe essere un vaglio da parte della Corte costituzionale.


Ma se il governo adottasse lo strumento della delibera del Consiglio dei ministri,

né Parlamento né Corte costituzionale potrebbero intervenire (neanche il Capo dello Stato),

dunque l’unico rimedio sarebbe quello della tutela giurisdizionale in sede amministrativa

(Tar e Consiglio di Stato).



Campa cavallo che l’erba cresce.
 
Dici EUROPA ottieni
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Tempi duri, anzi durissimi per il made in Italy a tavola.

Da sempre sinonimo di altissima qualità,
i nostri prodotti si trovano da mesi ad affrontare l’accanimento dell’Unione Europea,
che ha messo nel mirino vini e salumi provenienti dallo Stivale.

Non bastasse, ecco arrivare l’ennesimo colpo:

come denunciato da Coldiretti Reggio Emilia, a partire dal 31 dicembre 2021 rischiano infatti di sparire le etichette “100% italiani” da latte e formaggi.


Come ricordato da Coldiretti,
dalla fine del 2021 non sussisterà più l’obbligo di etichettatura dell’origine del latte utilizzato,
portando così a una situazione di grave rischio per i consumatori che potrebbero trovarsi ad acquistare,
senza saperlo, prodotti spacciati per italiani e invece provenienti dall’estero, di bassa qualità:

“Si tratta di un passo indietro pericolosissimo rispetto a un percorso di trasparenza
che nel corso degli anni ha portato indiscussi benefici ai cittadini consumatori
e alle imprese della filiera agroalimentare che hanno puntato sul 100% Made in Italy
– ha spiegato il presidente Ettore Prandini – si rischia così di creare nuovi spazi di manovra
per chi inganna i cittadini con prodotti di bassa qualità spacciati per nostrani”.


Una preoccupazione fatta propria anche dal direttore di Coldiretti Reggio Emilia Albertino Zinanni:
“Rimarchiamo la necessità che il governo intervenga con urgenza
per la proroga del decreto sull’etichettatura d’origine del latte e i formaggi e per tutti gli altri in scadenza.
L’Italia, che è leader europeo nella qualità, ha infatti il dovere di fare da apripista nelle politiche alimentari comunitarie,
poiché in un momento difficile per l’economia dobbiamo portare sul mercato il valore aggiunto della tracciabilità
con l’obbligo di indicare in etichetta l’origine di tutti gli alimenti, venendo incontro alle richieste dei consumatori italiani ed europei”.


Non a caso sono ben 1,1 milioni le firme raccolte nell’ambito dell’iniziativa dei cittadini dell’Unione Europea
“Eat original! unmask your food” promossa dalla Coldiretti,
per l’estensione dell’obbligo di etichettatura con l’indicazione dell’origine su tutti gli alimenti.
 
Dici EUROPA ottieni Vedi l'allegato 625855


Tempi duri, anzi durissimi per il made in Italy a tavola.

Da sempre sinonimo di altissima qualità,
i nostri prodotti si trovano da mesi ad affrontare l’accanimento dell’Unione Europea,
che ha messo nel mirino vini e salumi provenienti dallo Stivale.

Non bastasse, ecco arrivare l’ennesimo colpo:

come denunciato da Coldiretti Reggio Emilia, a partire dal 31 dicembre 2021 rischiano infatti di sparire le etichette “100% italiani” da latte e formaggi.


Come ricordato da Coldiretti,
dalla fine del 2021 non sussisterà più l’obbligo di etichettatura dell’origine del latte utilizzato,
portando così a una situazione di grave rischio per i consumatori che potrebbero trovarsi ad acquistare,
senza saperlo, prodotti spacciati per italiani e invece provenienti dall’estero, di bassa qualità:

“Si tratta di un passo indietro pericolosissimo rispetto a un percorso di trasparenza
che nel corso degli anni ha portato indiscussi benefici ai cittadini consumatori
e alle imprese della filiera agroalimentare che hanno puntato sul 100% Made in Italy
– ha spiegato il presidente Ettore Prandini – si rischia così di creare nuovi spazi di manovra
per chi inganna i cittadini con prodotti di bassa qualità spacciati per nostrani”.


Una preoccupazione fatta propria anche dal direttore di Coldiretti Reggio Emilia Albertino Zinanni:
“Rimarchiamo la necessità che il governo intervenga con urgenza
per la proroga del decreto sull’etichettatura d’origine del latte e i formaggi e per tutti gli altri in scadenza.
L’Italia, che è leader europeo nella qualità, ha infatti il dovere di fare da apripista nelle politiche alimentari comunitarie,
poiché in un momento difficile per l’economia dobbiamo portare sul mercato il valore aggiunto della tracciabilità
con l’obbligo di indicare in etichetta l’origine di tutti gli alimenti, venendo incontro alle richieste dei consumatori italiani ed europei”.


Non a caso sono ben 1,1 milioni le firme raccolte nell’ambito dell’iniziativa dei cittadini dell’Unione Europea
“Eat original! unmask your food” promossa dalla Coldiretti,
per l’estensione dell’obbligo di etichettatura con l’indicazione dell’origine su tutti gli alimenti.

vorrà dire che si andrà a comprare direttamente dai produttori.... e comprare meno prodotti di origine animale
 

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