CHE VOI SAPPIATE, DELLA VITA C'ERA ANCHE LA VERSIONE SENZA ANSIA?

Ci sono alcune persone alle quali porterei volentieri fuori casa loro
questi simpatici animaletti, non autoctoni delle nostre zone, che
fanno il paio con i cinghiali e con gli aironi.

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«È una situazione che non fa che peggiorare – afferma il primo cittadino –
continuo a ricevere le lamentele dei residenti di via Alzaia che si ritrovano esemplari
che arrivano a pesare 10-13 chili nei giardini e quasi fin dentro casa.

Ormai le nutrie non hanno più paura degli esseri umani.

Anzi è il contrario: so di donne anziane e persone in generale che si sono spaventate non poco
trovandosi a due passi queste bestie che non scappano nemmeno».

«Sulle nostre sponde ormai queste nutrie hanno creato colonie popolose
e se continua così ci saranno più nutrie che abitanti nel Comune.

Questo è il risultato del lassismo della Provincia di Lecco nell’affrontare questo fenomeno.

Si parla di sterilizzarle, c’è un progetto in corso e ne parleremo con gli incaricati sabato.
Ma è una soluzione a lungo termine: il problema è ora.
E per risolverlo si è fatto niente.

Avevo ragione io anni fa, quando sostenevo la necessità di sparare alle nutrie»

«È una questione igienica, ma anche economica.
Nessuno è contento di ritrovarsi questi animali in casa.
Per non parlare poi del fatto che abbiamo già dovuto recuperare una decina di carcasse
di questi animali morti nel lago e poi pagare per il loro smaltimento.

Solo quest’anno ci è costato 3 mila 500 euro riparare i danni causati alla pista ciclabile
e ai muretti di recinzione per le buche che hanno scavato per realizzarle le loro tane. Buche che causano anche crolli».


«Il problema va risolto e la Provincia deve intervenire, altrimenti ci penserà il comune perché non possiamo continuare così.
Le nutrie devono essere eliminate.

Intanto sto pensando a un’ordinanza per vietare di nutrire cigni e anatre.
Gli animali selvatici sanno procacciarsi il cibo da soli,
chi pensa di far loro un favore portando pane, in realtà fa solo banchettare le nutrie»
 
Non è che sia stata zitta, la giustizia all’italiana, in questi anni.
Anzi.

Il fatto è che non passa giorno che questo o quel pm, questo o quel giudice, questo o quell’esperto

(di sinistra, altrimenti esperto non è) non riversi su stampa e tv un pensierino,

una constatazione, una rilevazione e soprattutto una accusa a chi, chiunque esso sia purché non di sinistra,

cioè non del Partito Democratico, manifesti disaccordo, denunci una mancanza,

esprima un parere diverso dal solito imperversante mainstream che ha fatto della giustizia,

ripetiamo all’italiana, un totem da venerare e un tabù da temere perinde ac cadaver.



In questi giorni questa giustizia si sta occupando (donde la sua voce instancabile aumentata dal supporto del coro gauchista)
di un personaggio come Matteo Renzi che non è l’ultimo arrivato ma che sembra avere il torto di appartenere
a quei primi inter pares a capo di governi che da un trentennio sono nel mirino degli addetti alla demolizione giudiziaria
proprio di coloro che una volta venivano definiti, appunto, i primi della classe.

Non c’è alcun reato (per ora) nei confronti dell’ex premier,
anche se i custodi della morale si ergono in Parlamento e sui media
contro la sua nuova professione di invitato privilegiato e retribuito di governi stranieri,
tirando in ballo i pagamenti relativi collegati con uno sguardo ai suoi conti correnti.



È quello che qualcuno chiama giornalismo guardone.


Tutto normale, si fa per dire, e non certo sulla irregolarità dei flussi pro-Renzi ma su quell’altro flusso,
micidiale e implacabile che gli specialisti mediatici, con in testa il “Fatto quotidiano”, gli riversano addosso pluri-quotidianamente.


Siamo, insomma, alla gogna mediatica, una specialità anche questa del nostro sistema informativo e giudiziario, assai collaudata da circa un trentennio, il cui plotone d’esecuzione è tanto più offensivo quanto più il bersaglio rimane solo venendogli meno alleanze e amicizie del bel tempo che fu. Esemplare, a tal proposito, il comportamento del segretario dem che non ha speso mezza parola per difendere Renzi dalla gogna mediatica di verbali e informazioni personali senza alcuna valenza giudiziaria. Anzi, come ha notato qualcuno, si è fatto un grappino e lo ha postato su Twitter. Prosit!


Nel frattempo, in Senato, proseguono i lavori sul decreto giustizia-referendum

e, come si sa, si sprecano battute e riflessioni in cui, al di fuori dell’ufficialità,

si specchiano i reali pensieri benché, in questo caso, ciò che ha suscitato appunti

per dir così stupefatti è stato Vittorio Ferraresi, ex sottosegretario alla Giustizia

e uomo ombra dell’ex ministro pentastellato Alfonso Bonafede

(un duo degno della Coppa per i migliori giustizialisti)

che ha attaccato duramente l’ex sindaco di Lodi, Simone Uggetti, assolto in appello dall’accusa di turbativa d’asta.


Fra lo stupore sempre più crescente dei presenti,

Ferraresi ha poi chiarito (qualcuno potrebbe evocare la cancel culture giustizialista)

che il suo scopo precipuo è stato ed è quello di “ricordare che la responsabilità politica

è diversa da quella penale e che la politica dovrebbe condannare prima le responsabilità politiche

e poi eventuali responsabilità penali.

Un’assoluzione non ti assolve dal fatto che determinati atti sono contrari all’onore e alla trasparenza”.



Testuale, parola di boia.
 
Sappiamo che “la proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge,

e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale”,

secondo la prescrizione chiarissima dell’articolo 42 della Costituzione italiana, “la più bella del mondo”.


E ci dicono pure ogni giorno i giuristi sopraffini e i legulei di seconda mano che viviamo sotto uno Stato di diritto,

benché l’espressione sia una delle più anodine della giurisprudenza.



Lo Stato di diritto viene sovente considerato, non solo in lingua italiana,
una versione continentale della Rule of law, ma nell’ordinamento inglese
significa che il diritto amministrativo all’uso nostro non ha campo libero,
perché il pubblico e il privato sono egualitariamente soggetti alla common law governata dai giudici.

In Italia lo Stato di diritto è forse un altro modo di esprimere il principio di legalità,
il che non aiuta a definire il concetto, anche perché la legge ha cessato da un pezzo
di essere la norma generale ed astratta applicabile ad infiniti casi futuri.

Le riserve di legge, delle quali è infarcita la Costituzione presupponendole ottocentescamente

la miglior garanzia della libertà individuale, si sono pervertite in qualcos’altro di diverso se non addirittura opposto.



L’ultimo eclatante caso del cittadino che, tornando a casa, l’ha trovata occupata da estranei introdottisi
vi, clam et precario” cioè con violenza, clandestinamente e senza titolo, comprova la mia vecchia idea e definizione dell’Italia quale Stato di semilegalità.


Nessuno riesce a capire perché i media ne abbiano fatto un caso speciale
dal momento che, salvo i dettagli particolari, si tratta di un caso comune,
simile nelle linee essenziali a migliaia di altri.

Quel nostro cittadino, essendo stato spossessato da soggetti che, detenendo l’alloggio,

continuavano a perpetrare vari reati, ha chiamato la forza pubblica,

sentendosi rispondere che lo sgombero era impossibile perché mancava la flagranza (sic!),

una degli occupanti era incinta, c’era di mezzo un bambino.


Il nostro disgraziato cittadino ha dovuto farsi assistere da un avvocato
e ottenere dal magistrato prima il sequestro e poi il dissequestro dell’immobile, a quanto pare.

Il tutto, con relative spese legali, per rientrare in casa sua.


Questi accadimenti dimostrano, viepiù essendo intollerabilmente generalizzati,
quale sia lo Stato di diritto e la legalità all’italiana nella cosiddetta Patria del diritto.



Un principio del diritto civile stabilisce che lo spossessato deve essere, prima di tutto, reimmesso nel possesso.

Egli ha diritto di ottenerlo immediatamente con l’azione giudiziaria chiamata appunto “possessoria”.

Al contrario, le occupazioni in questione avvengono “vi, clam et precario
e pertanto gli occupanti non trovano nella legge tutele e protezioni di sorta.

Devono essere sbattuti fuori ad nutum, ad un semplice cenno pure del mero possessore,
come un inquilino, e quindi ancor più del proprietario.


L’articolo 55 del codice di procedura penale impone alla polizia giudiziaria, addirittura anche di propria iniziativa,

l’obbligo di intervenire affinché i reati in atto non siano portati a ulteriori conseguenze, persino più gravi.



Perché tale limpida norma, fondamentale per la convivenza civile, venga di fatto disapplicata è questione più politica che giuridica,

essendosi diffusa una mentalità che, anche perché nutrita di pregiudizio anti-proprietario e obbediente a pulsioni falsamente umanitarie,

di fatto contribuisce a scardinare un pilastro dello Stato di diritto,

se l’espressione deve significare qualcosa che somigli al principio di legalità rettamente inteso.


In una sorprendente sentenza del 1994 la Cassazione ha ritenuto “abnorme”, rispetto all’articolo 55 suddetto,

l’ordine del pubblico ministero di sgomberare un immobile abusivamente occupato

perché il provvedimento non rientra tra gli strumenti specificamente preveduti dalle norme processuali penali:


“Il provvedimento di sgombero è un atto che è riservato all’autorità amministrativa

e travalica le attribuzioni del pubblico ministero e della polizia giudiziaria,

salvo che non costituisca una ineliminabile modalità di attuazione del sequestro”.



A noi sembrano cogenti la necessità giuridica e l’urgenza pratica di ripristinare immediatamente il diritto violato
mentre risulta inaccettabile l’arzigogolata pronuncia che riserva all’autorità amministrativa
la potestà sugli sgomberi (e sappiamo che cosa significhi per difficoltà, ritardi, oneri, dilazionamenti, eccetera!)
e prospetta un’eccezione che pare contraddire il dictum principale.


Parliamo di questione politica più che giuridica perché la legge esiste,

è in vigore, ma la magistratura e la polizia giudiziaria non vi pongono mano quanto dovuto

e lasciano correre queste “espropriazioni senza indennizzo” (anzi, con danno dell’espropriato!)

in favore di delinquenti comuni anziché “per motivi d’interesse generale”.



Chi dovrebbe dare l’ordine di por fine all’andazzo immorale, ingiusto, illegale

se non il ministro dell’Interno, il procuratore generale della Cassazione,

il comandante generale dei Carabinieri e magari, come garante dell’ordinamento,

il supremo magistrato della Repubblica?


Chi ha messo nella testa di certa gente che la casa è un diritto,

cosicché ogni prepotente può sottrarla ai proprietari, confidando sulla quasi impunità?



L’inesistente diritto alla casa, tuttavia proclamato e patrocinato da demagoghi a caccia di simpatie elettorali,

contribuisce ad incentivare i comportamenti predatori, “legittimati” purtroppo dall’acquiescenza delle autorità

e persino dall’incerta giurisprudenza della Cassazione.
 
Ha suscitato clamore e sconcerto il recentissimo caso dell’86enne pensionato romano Enrico Di Lalla,
che, di ritorno alla propria abitazione dopo un paio di giorni di ricovero in ospedale,
l’ha trovata abusivamente occupata ed è riuscito a recuperarla dopo ben 24 giorni
grazie al provvedimento di sequestro conservativo, ottenuto con l’intervento di un avvocato.


Secondo quanto riferito dai mass media e confermato dallo stesso avvocato,
questo iter procedurale e la conseguente lunga attesa,
hanno tratto origine dal rifiuto della polizia giudiziaria
di procedere all’espulsione degli occupanti abusivi in mancanza della flagranza di reato.


L’episodio ha suscitato l’interesse di un’opinione pubblica sempre più socialmente insicura
e un diluvio di assurdità nel mondo di internet, dove si è dato per scontato che tutto si sia svolto a norma di legge
e non vi fosse nulla di meglio da fare.

A parte le doglianze di rito sul “sistema”, qualche critica solo per il giudice,
che avrebbe atteso diciotto giorni dalla presentazione del ricorso per concedere il sequestro.

Sul principale quotidiano italiano, un noto commentatore nella sua rubrica
ha auspicato una legge che risolva il problema, ritenendo che vi sia una lacuna normativa
.


Pazienza per gli sprovveduti commentatori,

ma evidentemente a Roma e altrove vi sono molti che, per esigenze professionali,

dovrebbero procedere a un sollecito ripasso dei codici e della giurisprudenza.



Basterebbe un qualunque manualetto di diritto penale

per apprendere che l’occupazione di immobili ha

“natura di reato permanente in quanto lo stato antigiuridico duraturo,

realizzatosi in seguito alla sua consumazione, viene mantenuto attraverso una ininterrotta condotta dell’agente,

il quale può farlo cessare in qualunque momento con un atto di sua volontà”.


Ne consegue che fin che dura l’occupazione vi è flagranza di reato.


Pur se si deve dare atto dell’esistenza di una corrente giurisprudenziale largamente minoritaria

a favore della natura istantanea con effetti permanenti del delitto di occupazione
(in tal senso Corte di Cassazione, Seconda sezione, sentenza n. 7911 del 20/01/2017),
la giurisprudenza di gran lunga prevalente e, soprattutto, più recente è nel senso della permanenza del reato.


Così la Corte di Cassazione con le sentenze n. 29657/2019 e n. 20132/2018, dove si legge

“Secondo un orientamento consolidato e risalente: il delitto p. e p. ex articolo 633 del Codice penale,
ove non si esaurisca nella pura e semplice momentanea invasione, ma avvenga con un’occupazione protratta nel tempo
– come nel caso in esame – è permanente, come da lungo tempo stabilito da larga giurisprudenza

(Corte di Cassazione, Seconda sezione, sentenza n. 49169 del 27.11.2003;
Corte di Cassazione, Terza sezione, sentenza n. 2026 del 26.11.2003, depositata il 22.1.2004;
Corte di Cassazione, Seconda sezione, sentenza n. 8799 del 17.1.99;
Corte di Cassazione, Seconda sezione, sentenza n. 3708 del 12.1.90;
Corte di Cassazione, Seconda sezione, sentenza n. 7427 del 23.11.87, depositata il 30.6.88;
Corte di Cassazione, Seconda sezione, sentenza n. 10363 del 30.6.87;
Corte di Cassazione, Terza sezione, sentenza n. 670 del 24.11.82, depositata il 26.1.83;
Corte di Cassazione, Seconda sezione, sentenza n. 1178 del 7.10.80, depositata il 18.2.81;
Corte di Cassazione, Seconda sezione, sentenza n. 1625 del 17.11.72, depositata il 23.2.73)”

quindi “la permanenza cessa soltanto con l’allontanamento del soggetto”.


Ne consegue il potere-dovere di immediato intervento,

appena preso atto del protrarsi dell’occupazione,

della polizia giudiziaria, alla quale tale obbligo è imposto anche dall’articolo 55 del Codice di procedura penale,

che le assegna il compito di impedire, anche di propria iniziativa, che i reati vengano portati ad ulteriore conseguenze.


Con l’osservazione aggiuntiva che questi obblighi di intervento vanno tenuti ben distinti dall’arresto in flagranza,
possibile solo nei casi previsti dalla legge.

Si aggiunga che il reato di cui all’articolo 633 del Codice penale non appare il solo ipotizzabile nel caso in esame;

il pensionato ha riferito di non aver trovato, all’atto del sopralluogo, molti oggetti custoditi nell’appartamento

– e questo nel codice penale si chiama furto –

e di aver trovato la casa devastata: quindi vi sarebbe stato anche il danneggiamento.


Qualcuno, più acculturato, a giustificazione del mancato intervento della polizia giudiziaria,
ha rispolverato la tesi giurisprudenziale (in particolare di merito) per la quale non sarebbe punibile,
ai sensi dell’articolo 54 del Codice penale, chi occupa l’immobile in conseguenza di un proprio stato di bisogno economico-abitativo.

Tuttavia la Cassazione, occupandosi del caso, indubbiamente pietoso,
di una ragazza-madre non in grado di procurarsi altrimenti un’abitazione,

ha ribadito che “l’illecita occupazione di un immobile è scriminata dallo stato di necessità
solo in presenza di un pericolo imminente di danno grave alla persona,
non potendosi legittimare – nelle ipotesi di difficoltà economica permanente, ma non connotata dal predetto pericolo –
una surrettizia soluzione delle esigenze abitative dell’occupante e della sua famiglia”


(Sentenza della Corte di Cassazione n. 26225 del 18 settembre 2020).


In ogni caso, la possibile presenza di scriminanti non incide sull’obbligo di immediato intervento della polizia giudiziaria,

perché la valutazione delle eventuali esimenti ai fini della punibilità del fatto spetterà poi, in un secondo momento, al giudice.



Se proprio (ma si è fuori dal campo dello stretto diritto, per entrare in una discutibile questione di opportunità)
si vuole lasciare alla polizia giudiziaria una certa discrezionalità sull’opportunità o non dell’immediato intervento,
è indispensabile limitarlo ai casi nei quali, come a volte avviene in particolare per gli appartamenti degli Istituti case popolari,
l’appartamento è vuoto non momentaneamente o occasionalmente, ma perché non ancora o non più abitato.


Infine i commentatori di internet (in realtà anche di almeno un telegiornale)

hanno dato per scontato che rimarranno a carico del pensionato

le spese per la riparazione ai danni provocati dall’occupante al suo proprio appartamento,

a causa dell’impossibilità di fatto di ottenere il risarcimento dai nullatenenti occupanti,

che, oltre ad avere sottratto alcuni oggetti, lo hanno lasciato in condizioni disastrose.


Non è necessariamente così.


È già accaduto che lo Stato e il ministero dell’Interno siano stati condannati a risarcire il proprietario

del danno patito per il mancato tempestivo sgombero di un immobile occupato abusivamente

(Tribunale di Roma sentenza n.13719/2018).
 
Conte due ?? Di maio tre ???


Nessuno è perfetto, neppure l’Adnkronos, che l’altro giorno ha fornito una notizia rivelatasi ferale fin dal titolo:

“Fedez registra dominio online per elezioni 2023”.

Per carità, anche Federico Leonardo Lucia (appunto, in arte Fedez)
ha il sacrosanto diritto di presentarsi come candidato alle prossime elezioni politiche.

Magari, chissà, affiderà la campagna elettorale della propria lista
alla più scaltra moglie Chiara Ferragni, che di marketing ne sa una più del diavolo.

Sempre secondo l’Adnkronos “la società Zdf srl, che fa capo a Fedez,
ha registrato un dominio sul web che sembra annunciare una partecipazione del rapper
alle prossime elezioni politiche (che si dovrebbero tenere nel 2023)”.

Lo spazio web (“registrato ma attualmente inattivo”) dovrebbe essere Fedezelezioni2023.it.


Siccome non ci facciamo mancare nulla, dopo il nulla rappresentato dal grillismo con il relativo Vaffa,

ecco i “Ferrragnez”, ciliegina su una torta che forse meriterebbe “ingredienti” più tangibili, più colti, più preparati.



Per quel che ci riguarda, restiamo aggrappati all’unica speranza che ci rimane:

quella che la presunta candidatura di Fedez costituisca l’ennesima trovata pubblicitaria della moglie Chiara.


Un po’ come quella della Coca Cola, con Orietta Berti.


.
 
Fedezelezioni2023.

Marchio registrato con largo anticipo, non si sa se a scopo politico o meramente promozionale. È legittimo. Ci sta.

Ci sta anche, però, la perplessità.

E, soprattutto, ci sta la domanda:

se questo è il preludio ad un impegno politico, che cosa ci si deve attendere in termini programmatici, di pensiero e di azione?
 
Siamo parecchio turbati.

La causa del disagio non è più il Covid in sé,
né lo sono i potenziali effetti catastrofici della malattia.


Ciò che allarma è l’uso strumentale che il potere fa del probabile rischio di una ripresa consistente del contagio.

Badate bene: il potere, non la politica.


Già, perché quest’ultima, almeno in Italia, ha deciso di ritirarsi a vivere in un’altra dimensione,
dove alberga il DdlZan”, lasciando i comuni mortali a sbrigarsela da soli con gli accidenti della vita quotidiana.


La politica: malconcia divinità di un wagneriano Götterdämmerung (Crepuscolo degli dei).


Il potere, oggi impersonato da Mario Draghi, uomo solo al comando,

ha superato la fase di surroga del decisore politico per assurgere al ruolo,

più consono a un monarca assoluto, di regolatore di tutte le cose.



Anche di quelle finora gelosamente custodite nelle sacre Tavole del Pactum societatis,
che sono le libertà individuali (un tempo) incomprimibili.

Com’è stato possibile che ciò accadesse, quando vi era la diffusa convinzione

che la forma di Governo democratica fondata su un solido impianto costituzionale

d’ispirazione liberale non fosse in alcun modo scalfibile?


La parola di passo che è servita a spalancare le porte a un nuovo ordine sociale è “stato d’emergenza”.



La speciale condizione, che spinge una comunità a vivere per un tempo breve
in quella che giuridicamente si potrebbe definire la “terra di nessuno”,
tra la legge e la sospensione della sua validità,
è stata giustificata dal diffondersi della pandemia e, nella fase acuta,
dal crescere a dismisura della contabilità dei morti.


Poi però il “tempo breve”, requisito inderogabile per legittimare la compressione delle libertà,

ha tradito se stesso trasformandosi, di proroga in proroga, in “tempo perenne”.



Si è cominciato il 31 gennaio 2020 con la prima delibera del Consiglio dei ministri
che dichiarava lo stato d’emergenza sanitaria per 6 mesi
in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”.

Siamo quasi alla fine del 2021 e, con l’approssimarsi il prossimo 31 dicembre della scadenza dell’ennesima proroga,
dalle stanze del Palazzo fuoriescono voci che ne danno per scontato il prolungamento fino alla primavera del 2022.


Eppure, le stesse fonti assicurano che la campagna vaccinale sta funzionando bene;

i dati sulla pandemia forniti dalle istituzioni preposte delineano un quadro confortante
sulla capacità del Sistema sanitario nazionale di fare fronte ai contagi circolanti;

le attività lavorative sono totalmente riprese,
sebbene con qualche limitazione circoscritta al comparto produttivo dell’intrattenimento
e dello spettacolo artistico e sportivo;

le scuole sono state riaperte in ogni ordine e grado;

le università idem;

il traffico aereo è ripreso con regolarità;

i trasporti pubblici non hanno smesso di funzionare fino al massimo della capienza consentita,
anche quando non avrebbero dovuto.


Perché mai si avverte il bisogno di prorogare lo stato d’emergenza?


La verità è che esso non è più tale, già da molto.


La verità, che nessuno osa ammettere pubblicamente
ma che tutti conoscono a cominciare da coloro che quel potere straordinario se lo sono preso,
è che siamo immersi – meglio: sprofondati – nello “stato d’eccezione” di schmittiana memoria.


La differenza tra la condizione generata da quest’ultimo
rispetto a quella che si configura con lo “stato d’emergenza” non è roba di poco conto.

Al contrario: ci cambia la vita.

Ricorrendo alla diversificazione formulata da un noto giurista
(Gustavo Zagrebelsky quotidiano La Repubblica del 28 luglio 2020):

All’emergenza si ricorre per rientrare quanto più presto è possibile nella normalità
(salvare i naufraghi, spegnere l’incendio).

All’eccezione si ricorre invece per infrangere la regola e imporre un nuovo ordine
”.


La nostra Comunità nazionale sta scivolando gradualmente nella nuova condizione

che assicura agli individui protezione in cambio di libertà,

un pacifico conformismo nell’agire collettivo al posto dell’urticante confronto democratico;

l’ortodossia del pensiero unico, politicamente corretto,

contro le fughe e le deviazioni dell’eterodossia;

pensiero convergente che scaccia dal campo delle interazioni umane ogni forma di pensiero divergente.


Al concetto di stato d’eccezione si associa la figura del sovrano
al quale è attribuito il potere supremo della decisione.


Ora, domandiamoci: non è così che siamo messi in Italia?

Non è forse vero che qualsiasi cosa faccia il premier Draghi o, su sua delega, il Governo
sia giusta e incontestabile essendo la decisione presa non in nome ma per il bene del popolo sovrano rimasto tale solo sulla carta?


Opporvisi è da negazionisti,

da credenti d’una religione

o di una setta

che non oscillano di fronte alle smentite della realtà
(Zagrebelsky).



Ciò non è soltanto sbagliato ma è velleitariamente antiscientifico,
antitetico alla linea di flusso del divenire della Storia.


Scioperare,

protestare pacificamente,

disubbidire in forma non violenta,

violano il nuovo ordine.



Su un punto Zagrebelsky ha ragione: L’emergenza non è l’eccezione e l’eccezione non è il grado ultimo dell’emergenza. Sono due cose diverse.


Ma da noi quello steccato è stato saltato da un pezzo.

La gente comune, asfissiata dagli affanni quotidiani, neanche se n’è resa conto.

Non bada a certe sottigliezze da intellettuali.


Se si sente dire dai megafoni di Stato (i media) a ogni ora del giorno e della notte

che le cose funzionano e il Pil cresce come mai accaduto prima, ci crede.



Forse si dirà che da quando c’è Draghi i treni arrivano in orario.

Ma lo si diceva anche di qualcun altro che, per un ventennio lo scorso secolo, ha sequestrato la libertà degli italiani.


A breve si terrà l’elezione del presidente della Repubblica
e c’è chi ipotizza un approdo di Mario Draghi al Quirinale per essere capo dello Stato con poteri rafforzati:
un modo ipocrita per non definirlo monarca assoluto.


C’è da gestire fino al 2026 il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), f
inanziato dall’Unione europea con oltre 200 miliardi di euro.

C’è la controversa transizione ecologica da realizzare entro il 2050.

Ci sono le grandi riforme strutturali il cui compimento è atteso da decenni.


Sussurrano a mezza voce i cantori dello stato d’eccezione:

“Per queste cose servono uomini forti, credibili presso la comunità internazionale e i mercati finanziari, che prendano decisioni rapide.

Non serve il chiacchiericcio inconcludente dei partiti”.


Mario Draghi, con un pugno di uomini e donne fidati, guiderebbe lo Stato dal Colle in una sorta di presidenzialismo de facto;

lascerebbe a Palazzo Chigi un suo plenipotenziario;

surrogherebbe con il proprio carisma la funzione legislativa finora attribuita dalla norma fondamentale a quel reperto archeologico che è il Parlamento.

E le leggi non si limiterebbe a firmarle ma le detterebbe.


E al diavolo la Carta costituzionale.

Ma non era la più bella del mondo?


La cosa sorprendente è che i più convinti assertori della prosecuzione dello stato d’eccezione stiano nel centrosinistra
.

D’altro canto, perché stupirsi?

È da dieci anni che, in un modo o nell’altro,
i “compagni” stazionano al potere a dispetto dei verdetti elettorali.

Al riguardo: perché sprecare denaro pubblico in quelli che il qualcuno di cui sopra chiamava spregiativamente “ludi cartacei”,

visto che c’è tanta gente che alle urne neanche ci va più?

Perché infastidire i sudditi con inutili liturgie partecipative?


C’è Draghi e, presumibilmente, nel 2023 vi sarà da qualche parte in Italia un malato di Covid

o si troverà un’altra variante del virus in circolazione tale da giustificare la prosecuzione dello stato d’eccezione.


Conveniente allora sospendere le elezioni: lasciamo tutto com’è adesso.



Saranno contenti i parlamentari grillini che continueranno a ricevere lo stipendio.

E saranno contenti quegli italiani che apprezzeranno il fatto che i treni arrivino in orario
e che non vi siano più scioperi in strada a turbare la pace,
dal discutibile retrogusto cimiteriale, delle persone perbene.

Tutto giusto e perfetto.


Ma a una sola condizione: che ci venga risparmiata la pagliacciata,

tutta di sinistra, delle manifestazioni contro il fascismo che torna.
 
Ops....ma non ditelo in giro. Sareste tacciati di negazionismo fascista.



Per giustificare l’obbligo di Green pass, che impone la vaccinazione agli italiani pena l’impossibilità di lavorare,

ha iniziato a circolare in questi giorni uno studio dall’eloquente titolo

“I vaccinati non contagiano come i non vaccinati”.

Realizzata dall’università di Oxford, la ricerca ha preso in esame 96 mila positivi al Covid,
sottoposti a tracciamento, per controllarne la contagiosità, ovvero la capacità di trasmettere il virus.

Ed è stata presentata dai giornali italiani come
“la conferma di quanto importante sia il certificato verde”.


Andando a guardare bene, però, i risultati sembrano suggerire altro.




Come sottolineato da Silvana De Mari alle pagine de La Verità, infatti,
lo studio sembra dimostrare esattamente l’opposto di quanto si vorrebbe far credere.


Innanzitutto, conferma come i vaccini diminuiscano la contagiosità

- per quanto riguarda la variante Delta, la abbasserebbero dal 65% al 37% - senza però azzerarla.



E soprattutto “indica che la protezione si perde dopo i primi tre mesi.

Al quarto mese dopo la vaccinazione, infatti,

non c’è più alcuna differenza tra vaccinati e non vaccinati per quanto riguarda la trasmissione della variante Delta”.




La conferma, l’ennesima, di quanto pericolosa sia la strada intrapresa dal governo italiano:
obbliga i cittadini a vaccinarsi per ricevere in cambio un Green pass dalla validità di un anno,
nonostante la protezione dei farmaci anti-Covid duri in realtà soltanto tre mesi.


Nei rimanenti nove, dunque, i vaccinati sono lasciati liberi di contagiare gli altri.


Al contrario, chi contrae il virus e poi ne guarisce sembra avere una immunità molto più solida,

eppure nel nostro Paese viene dotato di un certificato valido soltanto sei mesi.


Controsensi che sottolineano come le scelte del governo siano state prese senza il minimo supporto di studi scientifici.



Un recente servizio della trasmissione Mediaset Le Iene

ha mostrato il caso di una famiglia positiva al Covid eppure regolarmente in possesso di Green pass,

nonostante la comunicazione alla autorità sanitarie del contagio.


Nessuno si era proccupato di bloccare il certificato, lasciando così tutti i componenti liberi, teoricamente,

di uscire e infettare altre persone senza che nessuno potesse impedirlo.


Una strategia totalmente fallace, insomma,
che Draghi e i suoi ministri non vogliono però assolutamente rivedere.


Calpestando i diritti dei cittadini in nome di un bene comune in realtà inesistente.
 
Ci ripetono ogni giorno,

sui giornali e nelle tv,

che i vaccini sarebbero perfettamente sicuri

e la possibilità di andare incontro a effetti collaterali gravi pressoché minima.


Ma possiamo davvero fidarci dei santoni-virologi, dopo i tanti errori

e la confusione che ha segnato in toto la gestione della pandemia?


I dubbi restano, non pochi.


La testata La Verità ha sottolineato come i numeri potrebbero essere ampiamente sottostimati,
riepilogando i dati ufficiali forniti fin qui dall’Aifa, l’Agenzia del farmaco italiana.



Numeri alla mano, le segnalazioni

“per sospetti effetti avversi dei vaccini anti-Covid con la farmacovigilianza passiva”

sono state in Italia più di 101 mila, delle quali oltre 14 mila gravi.



Partendo da questo dato, è facile capire come

“i sospetti effetti avversi che davvero si sono verificati potrebbero essere in totale almeno cento volte di più e cioè 10 milioni,

mentre i sospetti effetti gravi o gravissimi almeno 1 milione e 400 mila”.


Una sottostima che allarma e che sottolinea l’abisso che separa la farmacovigilanza attiva da quella passiva:

la prima si basa sul monitoraggio diretto di pazienti, la seconda soltanto sulle segnalazioni ricevute da medici e cittadini.



Un divario già emerso durante uno studio realizzato da Moderna sul proprio vaccino anti-Covid,

durante il quale era stato evidenziato come

“su 14.677 seconde dosi somministrate sono stati registrati con una farmacovigilanza attiva

2.884 eventi avversi gravi e 14 gravissimi, con una percentuale del 19,6% sul totale delle dosi,

che significa in proporzione 19.600 sospette reazioni avverse gravi ogni 100 mila somministrazioni”.


Numeri ben diversi da quelli dell’Aifa,

che sostiene come per il vaccino Moderna la proporzione sia di 15 eventi avversi gravi o gravissimi ogni 100 mila dosi.


Fanno riflettere in questo senso anche i dati del Cdc (Center of Disease Control and Prevention),

organismo federale americano per il controllo delle malattie infettive e che già a febbraio, ricorda La Verità, segnalava

“un numero di reazioni avverse sistemiche pari a 1.333.931 su un totale di 1.920.872 dosi somministrate",

ovvero 69,4 eventi avversi ogni 100 vaccinazioni.


Dati, anche in questo caso, molto lontani da quelli dell’Aifa,

a conferma di come il rischio di sottovalutare i rischi sia particolarmente alto,

in un mondo in cui è ormai diventato impossibile contestare le sacre verità degli scienziati da salotto televisivo.
 
Piove sul bagnato per Domenico Arcuri,
e per l’Italia che ha avuto la brutta sorte di averlo a capo dell’emergenza Covid
insieme a Giuseppe Conte e al ministro Speranza.

Dei primi due, fortunatamente, non si sa più nulla, il terzo invece continua a far danni.

Dopo aver raccontato tutte le gaffe, gli orrori e gli errori, gli scoop e le inchieste su Arcuri e il suo operato, si torna di nuovo a parlare di lui.

Le primule,

le mascherine cinesi risultate “non regolari”,

l’app Immuni,

i banchi a rotelle,

ed ora i ventilatori polmonari!


Un fallimento totale.

Non ne ha azzeccata una.


Uno spreco di soldi e risorse inutile e persino pericoloso.


L’ultimo disastro che Arcuri ha combinato, allora, si diceva, è quello dei ventilatori:
“500 macchinari inutilizzabili, che sono da buttare”.


La l’ha raccontata La Stampa, ricostruendo tutto nel dettaglio, sulla base dell’ultimo report,
“richiesto dall’attuale struttura commissariale per fugare ogni dubbio.
E consegnato direttamente al generale Francesco Figliuolo, lunedì scorso in visita a Torino”.

Un dossier che, spiega il quotidiano diretto da Giannini,
“contiene la bocciatura definitiva… Uno studio comparativo –
che ha misurato le performance dei ventilatori polmonari in questione con altri sei,
di diverso tipo e comunemente impiegati nelle terapie intensive del Nord Italia
per fronteggiare la pandemia in varie condizioni di ventilazione controllata ed assistita –
che ha tagliato al testa al toro”.


Meccanismi farraginosi e inefficaci.

Passaggi di fase troppo lenti.

Eccessivo ritardo di apertura della valvola inspiratoria.


Risultato:

“I ventilatori presentano caratteristiche hardware e software

che di fatto ne rendono improponibile l’utilizzo in pazienti con insufficienza respiratoria”.



Questo il resoconto che boccia definitivamente 484 ventilatori polmonari
inviati in Piemonte nelle prime, terrificanti fasi della pandemia in Italia.

L’epilogo devastante di una drammatica telenovelas sui macchinari
adottati dall’allora commissario straordinario in piena emergenza sanitaria,
finiti presto negli scantinati delle Asl perché giudicati inaffidabili dai responsabili delle rianimazioni.


Apparecchi che avrebbero dovuto fare fronte a una realtà drammatica di contagi
che risultò impossibile impiegare nelle terapie intensive e sub-intensive per un costo stimato,
rimarca La Stampa, “di circa 10.000 euro ciascuno”.



Si legge ancora:

“A seguito delle analisi, in volume controllato e in pressione di supporto,

i ventilatori finora inutilizzati, di cui gli stessi rianimatori diffidano,

hanno confermato la loro inadeguatezza.

In particolare, risultano statisticamente meno performanti

ed erogano un volume corrente espiratorio inferiore alle altre macchine e ai parametri impostati.

Non certo un dettaglio, considerato che un volume minuto basso può condurre ad una mancata eliminazione della CO2.

Con conseguente affaticamento del paziente.

Incremento di sforzo.

E frequenza espiratoria fino all’esaurimento muscolare”.
 

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