«Nel 2006 ci siamo già dentro con tutti e due i piedi.
Il problema vero è non andare ancora oltre».
La previsione, buttata lì con voce scorata da un dirigente Pd vicino alla segreteria, dà il polso degli umori del centrosinistra, a 40 giorni dal voto.
Non tira una bella aria, nello schieramento dato per vincente, dove i sondaggi degli ultimi giorni vengono compulsati senza più entusiasmi, anzi con crescente preoccupazione per quella lieve ma costante erosione del clamoroso vantaggio conquistato con le primarie.
«Il problema è che l'elettorato di Sel si sta liquefacendo ogni giorno che passa, risucchiato da Ingroia e Grillo, mentre noi siamo scesi sotto i livelli del 2008, attorno al 32%, e Berlusconi è in ripresa», spiega il dirigente Pd.
Il rischio pareggio al Senato (come nel 2006, appunto) viene dato praticamente per scontato; e con esso la necessità di fare un accordo con il centro montiano, e dunque di cedere la presidenza del Senato e qualche ministero di pregio.
E ieri Pier Ferdinando Casini, parlando con un paio di esponenti del Pd, ha chiarito che i patti andranno fatti con lui, più che con Monti: «Io avrò 14 senatori miei», ha calcolato. Abbastanza per fare un gruppo autonomo, volendo, in barba agli accordi presi, e comunque per reclamare per sé (dopo aver doverosamente chiesto la premiership per Monti, che non verrà concessa) lo scranno più alto di Palazzo Madama.
Giudicato la rampa di lancio per il Quirinale, un percorso che Anna Finocchiaro aveva immaginato per sé, se il Pd fosse in grado di prendersi Palazzo Madama. T
anto che qualcuno, in casa ex Ds, inizia ad ipotizzare uno scenario di larghe intese ancora più ampio, che depotenzierebbe il ruolo del Centro: «Sarebbe meglio tenerci il Senato e offrire la presidenza della Camera al Pdl».