Dal giorno in cui la pandemia Covid-19 ha imposto nel nostro Paese le misure di contenimento alla libertà personale,
sulla bocca degli italiani si è affacciato un vocabolo sino ad allora sconosciuto a molti:
Dpcm.
L’aver scoperto l’esistenza di un ennesimo strumento giuridico per imporre regole e costrizioni non è andato giù al nostro popolo
che, come ci insegnano gli antropologi, da sempre ha una forte vocazione anarchica e un’innata riluttanza alle regole.
Come ormai tutti sanno, Dpcm è l’acronimo di «Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri» ed è una cosa ben diversa da una legge.
Nonostante la delicatezza del problema, amplificata proprio dall’emergenza Coronavirus, cercherò di spiegare
che valore hanno i Dpcm,
in modo da fugare quantomeno i più ricorrenti luoghi comuni, quelli dettati dall’ignoranza di chi, pur non essendo del mestiere,
pretende di spiegare agli altri ciò che lui stesso non sa.
I Dpcm sono atti con cui vengono emanate
norme giuridiche, vincolanti per la collettività.
Alla classica domanda se
un Dpcm è obbligatorio bisogna rispondere affermativamente: anche i Dpcm devono essere rispettati da tutti i cittadini.
La profonda differenza tra i Dpcm e la legge sta nel fatto che i primi sono “atti amministrativi” e non “legislativi”:
l’autorità che li emana, cioè, è un organo della pubblica amministrazione – ossia il presidente del Consiglio – e non invece il Parlamento.
Ma questo non toglie che il Dpcm sia vincolante e ciò proprio perché la nostra Costituzione riconosce al presidente del Consiglio
un limitato potere di emanare norme, così come lo riconosce ad ogni singolo ministro con i cosiddetti decreti ministeriali.
Ogni giorno, tutti noi, nel rispettare le regole di comportamento e nel rivendicare i nostri diritti,
non facciamo altro che applicare leggi, decreti legge, decreti legislativi e numerosissimi
decreti ministeriali che attuano i primi.
Si pensi che lo stesso regolamento di attuazione del Codice della strada è di provenienza amministrativa.
E così anche le regole sui rumori, diverse norme sul funzionamento delle assicurazioni, delle banche, sul lavoro e sulla previdenza e così via.
Quando ci affacciamo in un’aula del tribunale per chiedere il rispetto dei nostri diritti,
non sempre tutto ciò che rivendichiamo proviene da una legge, ma in buona parte anche da decreti ministeriali.
Ed è chiaro che se riconosciamo valore agli atti amministrativi nel momento in cui pretendiamo tutela da un giudice
dobbiamo essere anche pronti a rispettarli nel momento in cui ci impongono dei doveri.
Del resto, è noto che, laddove c’è un diritto in capo a un cittadino, esiste un dovere in capo ad un altro.
Un po’ come le salite e le discese: per ognuna delle due c’è anche l’altra.
Quindi,
i Dpcm sono vincolanti e obbligatori.
Questo è un punto fermo da cui dobbiamo partire se non vogliamo cadere nell’errore di dire fesserie come oggi, in giro, se ne sentono molte.
Del resto, il fatto che i diritti e i doveri non provengano solo dalle leggi e dai decreti del Governo
lo intuiamo se ci guardiamo intorno e consideriamo, magari, altre fonti del diritto come leggi regionali e regolamenti comunali.
Gran parte dei regolamenti in materia di imposte sulla casa provengono dai nostri Comuni e nessuno mette in discussione la loro autorità.
Si pensi, ad esempio, ai regolamenti sulla Tari e sull’Imu, tasse che comunemente paghiamo.
È chiaro, comunque, che un Dpcm non è una legge: se così non fosse, se non ci fosse alcuna differenza,
avremmo che il nostro presidente del Consiglio vanterebbe gli stessi poteri del Parlamento e sappiamo che ciò non è vero.
Ma
la differenza tra Dpcm e legge non riguarda il cittadino il quale è tenuto a rispettare l’uno allo stesso modo dell’altro.
Non perché una regola è imposta da un Dpcm è meno “obbligatoria” di una dettata da una legge.
L’uomo comune è soggetto, con la stessa categoricità, ad adempiere tanto alle norme di carattere amministrativo quanto a quelle di natura legislativa.
La differenza è, invece, per chi emana tali norme perché, nel farlo, deve rispettare una cornice di rango superiore.
Il Parlamento deve rispettare la Costituzione;
il presidente del Consiglio, così come i ministri, devono sì rispettare la Costituzione, ma anche la legge.
Le norme del diritto, in Italia, sono strutturate come una sorta di piramide (la piramide delle cosiddette
fonti del diritto)
dove, al vertice, c’è la Costituzione e, via via che si scende, troviamo fonti di carattere subordinato, tenute a rispettare i principi delle fonti che stanno sopra.
Questa gerarchia è determinata sulla base del soggetto che emana la norma giuridica.
Nel considerare i diversi soggetti autorizzati dalla Costituzione ad
emanare norme giuridiche
avremo sicuramente notato che alcuni sono particolarmente importanti: pensiamo al Parlamento che rappresenta l’intera comunità nazionale.
Altri lo sono un po’ meno. Pensiamo agli organi comunali che rappresentano solo la comunità locale composta, talvolta, da poche migliaia di persone.
Nel nostro ordinamento, le norme giuridiche sono gerarchicamente ordinate.
Esse hanno un valore diverso in funzione della fonte da cui provengono.
Sul piano pratico, il
diverso valore non implica però che alcune siano vincolanti e altre no,
ma che nessuna norma proveniente da una fonte di grado inferiore può porsi in contrasto con una norma proveniente da una fonte di grado superiore.
È un po’ come dire, rapportandosi alla gerarchia miliare, che un ordine del caporale non potrà mai porsi validamente in contrasto con un ordine del generale.
Attenzione a questo passaggio: non spetta al cittadino stabilire se una norma secondaria è in contrasto con una norma di rango primario o con la Costituzione.
Finché la norma esiste, il cittadino deve rispettarla.
Se una legge viola la Costituzione, il cittadino deve obbedirla
fino a quando non interviene la
Corte Costituzionale a cancellarla per sempre: prima di quel momento, la legge è vincolante.
Così, se una norma di rango amministrativo viola la legge, il cittadino la deve rispettare
a meno che non ricorra al giudice e ne chieda la disapplicazione.
Insomma, l’Italia non è un’anarchia dove ciascuno è giudice e decide cosa rispettare e cosa no.
Vediamo allora come funziona la gerarchia delle fonti.
Al primo posto nella scala gerarchica delle fonti del diritto troviamo la
Costituzione.
Trovandosi al primo posto, le sue norme prevalgono sempre, in caso di contrasto, su qualsiasi norma.
Come anticipato poc’anzi, solo la Corte Costituzionale – e non il cittadino – è autorizzata a rilevare il contrasto.
Al secondo posto, si collocano (tra di loro
a pari merito, direbbe un giudice sportivo),
le cosiddette
fonti primarie del diritto che sono costituite a loro volta da:
- leggi ordinarie, quelle cioè approvate dal Parlamento;
- decreti legge e decreti legislativi, adottati dal Governo.
Sempre tra le fonti ordinarie ci sono le
fonti regionali e provinciali che comprendono:
- leggi regionali valide solo nel territorio della Regione;
- leggi della Province autonome di Trento e Bolzano, ugualmente valide solo nei rispettivi territori.
Infine, ci sono le
fonti comunitarie che comprendono i trattati, i regolamenti e le direttive dell’Unione europea.
Al terzo posto, troviamo infine i
regolamenti che possono essere emanati dal Governo e dai singoli ministri
(
e, quindi, si tratta di Dpcm e decreti ministeriali), da organi regionali, provinciali e comunali o da altri organi della pubblica amministrazione.
I regolamenti sono considerati una fonte secondaria del diritto e non possono che modificare le norme contenute nelle fonti secondarie.
Ai regolamenti è delegata la funzione di
dettagliare le norme del Parlamento e del Governo,
ossia di disciplinare gli aspetti più tecnici che l’organo legislativo non conosce.
Così, spesso, il Parlamento, nell’adottare una legge, delega il ministero competente ad emanare decreti ministeriali per specificare meglio il funzionamento della normativa.
In ultimo, sono fonti del diritto le
consuetudini: si tratta di norme non scritte né poste da alcuna autorità
che sono nate dalla ripetizione costante e generale di atti compiuti dalla collettività nella convinzione di adempiere a un dovere giuridico.
Come visto, il Dpcm è solo una delle tante fonti del diritto,
non la più importante (che è la Costituzione),
non la seconda in ordine di importanza (la legge e i decreti del Governo)
ma la terza.
La discussione sull’opportunità della scelta del Governo di
adottare i Dpcm per contenere il virus Covid-19
non deve portarci sulla strada sbagliata di ritenere, in generale, che i Dpcm, così come i Dm, non siano vincolanti.
In ogni caso, anche se così fosse, sarebbe compito solo del giudice disapplicarli.
Con riferimento ai Dpcm adottati dal presidente del Consiglio Conte, durante la pandemia del Coronavirus,
alcuni costituzionalisti hanno espresso riserve e contrarietà ai ripetuti decreti, da Carlo Nordio a Sabino Cassese.
Non è pensabile che un decreto, quindi non una legge, perché gerarchicamente inferiore nelle fonti normative,
possa limitare diritti come la circolazione, il soggiorno, la riunione, sanciti in precisi articoli della Carta Costituzionale.
Potrebbe invece imporre le mascherine, perché l’indossare la protezione non va a limitare alcun diritto costituzionale.
La Costituzione prevede limiti, sia per tutelare la salute «diritto fondamentale dell’individuo» (meglio sarebbe stato scrivere la cura),
sia nella libera circolazione; purché, però, lo stabilisca una legge.
Occorre cioè che il Parlamento deliberi in merito.
Il Governo può sì intervenire: anzi, nell’emergenza sanitaria può usare lo strumento del decreto-legge rispettandone i requisiti costituzionali.
Il giudice di Pace di Frosinone ha sposato la tesi dell’
illegittimità dei Dpcm cancellando una sanzione inflitta a un uomo uscito di casa durante il lockdown.
È troppo presto per stabilire quale sarà l’andamento della giurisprudenza.
Ma chiaramente i giudici si esprimeranno solo se ci saranno ricorsi
e le loro sentenze avranno valore solo per il caso concreto e non per tutti i cittadini.