CI SONO IN GIRO PERSONE MOLTO INTELLIGENTI... MOLTE PER0' SONO ASINTOMATICHE

Da domani si chiude tutto, almeno in Lombardia, Piemonte, Calabria, Valle d’Aosta e provincia di Trento.

Abbiamo coi il curioso caso dei Lucani che, circondati da regioni rosse e gialle, in teoria potrebbero viaggiare liberamente,
ma il pratica devono prendere una barca se vogliono lasciare la loro regione…


Perfino Fontana, il governatore della Lombardia che due settimane fa voleva il lockdown, è furioso.

Come riporta il Corriere la sua rabbia risulta dalla scarsa scientificità del Governo che si è basato su una valutazione del CTS di 10 giorni fa,
quando non si sentivano i primi effetti delle misure di limitazione del contagio compiute dalla regione
che hanno portato ad un calo dell’indice RT a 1,6 ed una percentuale di positivi nei test calata da 21% a 17%, ma da domani si chiude tutto.


L’unico che festeggia è il sindaco Salah, che non si sente toccato nella sua “Bolla sociale”
composta da ricchi milanesi che vivono nel centro di rendita e che si faranno rimpinzare dai vari Glovo.



Invece il resto dei lombardi può anche fare la fame e morire, che gliene importa a Conte ed a Salah?

Maledetti leghisti, potete chiudere tutti, secondo il criterio che per il nemico le leggi , o i DPCM si applicano, per l’amico si interpretano.

Altrimenti non ci si spiega perchè la Calabria sia zona rossa, con 262 casi positivi ieri
e la Campania di “Lanciafiamme” De Luca, con 4182 positivi, sia solo zona gialla.

La sanità napoletana è molto migliore di quella calabrese ?

Ma vaaa…. Semplicemente De Luca è il figlioccio prediletto dalla sinistra ZTL.


Le decisione vengono prese sempre dal solito pugno di privilegiati, gente che prenderà lo stipendio pieno sempre e comunque,

sulle spalle di persone che, invece , sono quasi alla fame, che aspettano i ridicoli “Ristori” del governo.

Quando cambierà questa situazione?



Non si sa se con il vccino, se arriverà, ma sicuramente quando i cittadini la smetteranno di rispettare i DPCM di un governo che rispetto non ne merita.
 
Eccovi qui una testimonianza dei brogli elettorali nel Michigan che, probabilmente, saranno la base dei ricorsi di Trump alla magistratura.

La base è il voto postale, che per essere valido doveva arrivare prima del tre novembre.


Un dipendente delle Poste americane del Michigan avrebbe “Cantato”, dicendo a Project Veritas

che il suo supervisore aveva istruito i corrieri postali perchè raccogliessero e separassero le nuove buste elettorali ricevute dopo la fine delle elezioni,

in modo che potessero essere fraudolentemente retrodatate con un timbro postale del 3 novembre.



Gli addetti ai sondaggi contano le schede elettorali per la città di Detroit.

Denunciatore: “Ci è stato detto di raccogliere tutte le schede che troviamo nelle cassette postali,
nelle cassette di raccolta, eccetera, per la posta in uscita, alla fine della giornata, si suppone che dobbiamo separarle dalla posta ordinaria,
in modo che possano affrancarle a mano con la data di ieri – e metterle nel sistema di posta espresso – per arrivare ovunque debbano andare”,

ha detto il denunciatore, aggiungendo “Per chiarimenti, oggi è il 4 novembre”.



James O’Keefe: “Affrancarli con la data del 3 novembre?”


Pentito: “Sì


James O’Keefe: “Sembra sbagliato…”


Pentito: “Sì, ecco perché mi faccio avanti con queste informazioni.
Questa è un’aggiunta molto losca, per quanto ne so, non dovremmo contare le schede che hanno il timbro postale dopo il 3 novembre qui nello stato del Michigan”.


L’Insider ha detto di essere rimasto scioccato quando il supervisore mattutino di Barlow Branch, Jonathan Clarke,
ha detto a un gruppo d ufficiali postali come sarebbero state gestite le schede in ritardo.


Eccovi il video completo:




L’Insider ha detto che c’è stato un processo formale che riguardava i lavoratori dell’ufficio postale coinvolti nel falso sistema del timbro postale.


Questo è solo uno dei numerosi casi già testimoniati di frodi, che comprendono anche ballot postali gettati via ed altre amenità del genere.

Quindi , dato che Trump ha già iniziato i ricorsi giudiziari, che sfoceranno alla Corte Suprema, prendiamocela con tanta calma.
 
Se non ci fosse Giuseppe Liturri per svelare le trappole ed i magheggi antidemocratici dell’Unione e della BCE bisognerebbe crearlo.

Il problema è semplice: con il programma PEPP tutti i paesi anche quelli sporchi, brutti e cattivi del Mediterraneo,
hanno potuto ottenere risorse finanziarie su larga scala dalla BCE senza “Condizionalità” da piano quinquennale sovietico fissate della UE.

Questo ha depotenziato notevolmente gli strumenti di dominio e ricatto chiamati MES e prestiti del Recovery Fund,
collegati all’applicazione delle politiche di austerità o all’effettuazione di investimenti a bassa-nulla redditività e produttività.

Praticamente la BCE ha permesso agli stati di tornare ad agire ed investire per il bene dei propri cittadini, Italia esclusa, dove il PD prosegue con la sua repressione .

Questa libertà non poteva proseguire, quindi la BCE ha intenzione di mettere come precondizione l’utilizzo dei prestiti della UE;

MES e Recovery Fund, per l’accesso ai programmi APP e PEPP.



Prendiamo le parole di Liturri da Startmag:



Questa volta è toccato ai giornalisti della Reuters farsi portavoce di un messaggio nemmeno tanto vagamente minaccioso, ma invece piuttosto esplicito:

la Bce fa sapere ai Paesi dell’Eurozona – che stanno emettendo titoli pubblici in libertà, nella relativa sicurezza che, una volta sul mercato,

tali titoli saranno comprati a piene mani dalla Bce – che sarebbe “consigliabile” evitare di snobbare i prestiti offerti tanto generosamente dalla Ue.

Per essere definitivamente convincente, La Bce potrebbe cambiare i criteri di ripartizione dei propri acquisti,

fino ad oggi generosamente sbilanciati verso i titoli italiani e spagnoli (ma non solo), disincentivando così la convenienza ad emettere titoli di Stato

e costringere gli Stati membri a rivolgersi invece ai prestiti che l’anno prossimo la Commissione erogherà nell’ambito del Recovery Fund o, più propriamente, Next Generation EU.




La Reuters cita ben quattro fonti interne alla Bce, secondo le quali sarebbe in corso una discussione sul potenziamento del programma APP

(condotto seguendo una rigida chiave di ripartizione tra gli Stati) o il più recente programma PEPP (contraddistinto da ampia flessi
bilità).



Con il secondo programma, l’Italia ha potuto beneficiare di acquisti fino al 30/9 per 95 miliardi su un totale di 512

(il 18,6%, che diventa 20% escludendo i titoli emessi da istituzioni sovranazionali) che, insieme agli acquisti del programma APP (specificamente PSPP)

hanno assorbito per intero le emissioni nette del Tesoro nel periodo marzo-settembre.

Troppo comodo così, devono aver pensato tra Bruxelles e Francoforte.



Gli acquisti da parte della Bce hanno di fatto condotto ad un generalizzato abbassamento dei rendimenti dei titoli pubblici lungo tutte le scadenze,

al punto da rendere molto più attrattivo indebitarsi sui mercati emettendo titoli che non sono gravati da alcuna condizione,

anziché ricevere prestiti dalla UE condizionati all’utilizzo verso ben determinate finalità (transizione ambientale, digitale, ecc…) ,

oltre che al rispetto di stringenti condizioni macroeconomiche contenute nelle “Raccomandazioni Paese”.



La Lagarde quindi si è piegata ai voleri di dominio della UE ed al suo desiderio di piegare le politiche nazionali a finalità oscure ed inefficienti,
obbligando gli stati ad utilizzare i fondi in prestito, cifre che dovranno essere restituite, che, dato la scarsa efficienza degli investimenti collegati,
si convertiranno in nuovo debito comunque, ma a quel punto più oneroso.


In questo caso probabilmente lo scarso interesse spagnolo e portoghese per i fondi in prestito del Recovery Fund è stato l’elemento che ha spinto la BCE a queste affermazioni:

chi sono questi staterucoli per ribellarsi al potere della UE?


Il senso di onnipotenza dei funzionari, non eletti, della UE è enorme ed assoluto,

e non si faranno problema nello schiacciare gli stati nazionali.


Naturalmente nei limiti in cui noi lo permetteremo.
 
La cosiddetta lotta al Coronavirus vede, ahinoi, per lo più due grandi fazioni contrapposte :


tra chi ritiene che il diritto alla salute sia il bene principale da difendere e garantire

(ed in forza di questo vuole e accetta che si faccia tutto quanto è possibile per impedire la propagazione della pandemia,

anche attraverso provvedimenti che limitano alcune libertà)


e chi invece ritiene che la libertà sia la madre di tutti i diritti e che, quindi, osteggia questi provvedimenti non solo in quanto illegittimi giuridicamente

(cosa che va lasciata dire agli esperti della materia) ma proprio in quanto lesivi del diritto principe che ricomprende, quindi, in quanto a libertà,

la libertà di ammalarsi (diversamente non si vede perché il nostro stato non abbia mai bloccato i commerci che danneggiano senza dubbio la salute

-vedasi, ad esempio, il tabacco- sui quali, anzi, percepisce dei denari).



Prendere provvedimenti che limitano le libertà diminuendo la democrazia in virtù di una protezione di qualsivoglia natura,

sanitaria, militare, ordine pubblico, tranquillità sociale ecc.,

è stata, ed è, la prassi di tutti i governi senza distinzione di natura (democratici, dittatoriali, militari, ecc.).


Ma possono contrapporsi tra di loro i diritti?

Ed in particolare, si possono contrapporre il diritto alla salute ed il diritto alla libertà?

E, ancora, chi ha il potere di limitare questi diritti secondo la legge che disciplina il nostro ordinamento giuridico?


Perché, vedete, nel baillame di queste ore in cui, a colpi di annunci rinviati, si attendeva l’ennesimo decreto,
la preoccupazione principale della popolazione (specie di coloro i quali lavorano in proprio)
verte sul dato specifico e reale dell’ennesima chiusura a macchia di leopardo che, ormai è dato incontrovertibile,
comprometterà in modo irrimediabile l’economia di molte famiglie italiane.


Non deve però sfuggire anche il dato giuridico sottostante ovvero (come chi scrive ha denunciato fin dall’inizio parlando di “golpe”)

l’ennesima, e si teme stavolta letale, violazione della nostra costituzione.



Eh sì, perché nel decreto pubblicato in Gazzetta il poter di decretare le zone rosse a propria discrezione

passa con nonchalance dal Presidente del Consiglio al Ministro della salute.


Ovvero: da un soggetto non legittimato a fare tale consegna nè legittima, un altro ancor meno legittimato.


La nostra costituzione sancisce, agli artt. 23 e 97 (che permeano tutti gli articoli che vertono sui diritti fondamentali),

il principio di legalità in base al quale qualsiasi provvedimento normativo o amministrativo deve avere nella legge il proprio fondamento.

Quindi perché un Ministro possa esercitare tale potere deve essere incaricato da una legge

o un atto avente forza di legge che lo legittimi delineando altresì, almeno a grandi linee, il suo raggio di azione.



Questo è il motivo per cui il potere di emanare i DPCM è stato previsto da due decreti legge.


A chi eccepisse poi che il Ministro della salute ha potere di ordinanza come previsto dall’art. 32 della legge 833/1978

si deve sottolineare che i confini di questo potere non possono essere rimodulati da un DPCM.

In altre parole, non c’è fondamento legittimo per l’esercizio di attribuzioni così penetranti e invasive in capo al Ministro della salute,

per di più senza accordo con le regioni.


Inoltre, il Presidente del Consiglio si erge indebitamente a livello di legislatore, sottratto anch’egli al principio di legalità
.



Nel silenzio assordante del Presidente della repubblica,

della Corte costituzionale,

e del Parlamento

in quanto i DPCM sono sottratti al loro controllo.

E la certezza del diritto vacilla.



La nozione tradizionale, illuministica, della certezza del diritto pone al centro della prospettiva il cittadino,
l’uomo comune, il “destinatario primario” delle norme giuridiche: il soggetto, cioè, il cui comportamento le norme servono a regolare.

Il diritto ha una essenziale funzione di guida delle condotte umane, e per realizzare questa funzione
esso deve essere conoscibile e riconoscibile con certezza dai suoi destinatari.

Questo d’altronde risponde non solo a fini di efficacia ed efficienza del sistema giuridico
(per realizzare i suoi scopi, per essere obbedito, il diritto deve essere conosciuto dai suoi destinatari),
ma anche a valori di equità (nel senso di fairness) e di attenzione alla dignità e autonomia dei cittadini.


Questioni che sembrano non più pervenute in Gazzetta Ufficiale.
 
La decisione di chiudere Milano non è piaciuta a nessuno e, soprattutto, rischia di avere un costo altissimo per il Paese.

Mentre Conte annunciava i nuovi provvedimenti, scatenando la rabbia del governatore della Lombardia Attilio Fontana,
a insorgere sono infatti subito stati anche i negozianti, tantissimi in protesta sui social già nelle ore immediatamente successive allo stop imposto dal governo.

“Una decisione basata su informazioni vecchie, dei giorni scorsi, che non tengono conto dell’evoluzione della curva epidemiologica”
è stata l’acccusa degli utenti. Accompagnata dalle grida rabbiose di chi si troverà a dover abbassare la propria saracinesca senza sapere se potrà rialzarla.


Secondo gli ultimi studi realizzati da Confcommercio, a rischio sono infatti il 40% delle attività nell’area metropolitana di Milano.


Lo stop potrebbe per loro trasformarsi in una condanna a morte, senza possibilità di appello.

L’istituzione della “zona rossa” avrà dei costi altissimi:

1,7 miliardi di euro soltanto per il primo mese, nella speranza che successivamente si torni a misure restrittive meno rigorose.

Altrimenti, la cifra potrebbe facilmente raddoppiarsi.

Il tutto in una Regione, la Lombardia, dove il terziario conta 580 mila imprese e dà lavoro a 2 milioni e 625 mila addetti.


Il rischio è quello di mandare definitivamente in frantumi la filiera economica, avverte Confcommercio.

Con ristoranti e bar che, capendo come la situazione si sarebbe evoluta,
avevano già iniziato a chiudere man mano che le riserve andavano esaurite e con i mercati generali ormai deserti,
i grossisti costretti a non ordinare più merce dal Sud del Paese.

Le immagini del deserto anche in Galleria sono il simbolo di una città costretta di colpo a fermarsi,
obbligata a rinunciare alla sua voglia di fare, colpita proprio nella sua operosità.


“Comunicare a ora di cena che la nostra Regione è relegata in fascia rossa senza un motivo credibile è inaccettabile”.


I milanesi si lamentano per la mancanza di un piano di ampio respiro da parte dell’esecutivo,
che si limita a rincorrere la diffusione del Covid-19 imponendo restrizioni sempre più gravose a pioggia, un po’ qua e un po’ là.

E chiedono di poter respirare, senza spegnere del tutto il motore di una delle aree più produttive del Paese.
 
Riporto questa presa di posizione di un noto esponente contro governativo........di qualsiasi colore politico. Contro sempre.

La nuova “fase 1” in cui siamo, presenta una differenza degna di nota rispetto alla prima “fase 1”, quella di marzo e aprile del 2020:
la comparsa delle manifestazioni di piazza
, dovute al risveglio dal “sonno dogmatico” da parte di fasce sempre più numerose della popolazione.


Quest’ultima sta infine comprendendo o, comunque, “avvertendo” sulla propria pelle, se non la vera ratio,
almeno le crude conseguenze del nuovo regime terapeutico:

l’andamento a yo-yo della pandemia ed il ritorno al lockdown generale sono la prova che ha preso forma
un nuovo e niente affatto transeunte modo di governo delle cose e delle persone; un modo di governo che, oltre a non essere “provvisorio”,
come inizialmente si poteva essere indotti a ritenere, si fonda sulla limitazione delle libertà e dei diritti e sul massacro dei ceti medi e delle classi lavoratrici,
che nel volgere di breve tempo stanno perdendo tutto e si avviano a precipitare (se già non l’hanno fatto) nel nuovo magma di una plebe senza più nulla.

E, come è noto, chi ha perso tutto, non ha più nulla da perdere: se non le proprie catene, come chioserebbe il vecchio Marx.


È in questa luce che si spiegano le proteste, sempre più numerose e più partecipate, che hanno infiammato l’Europa.

La prima fu quella di Berlino, nell’agosto del 2020, con migliaia di persone
e, ovviamente, stigmatizzata dai “professionisti dell’informazione” come manifestazione di “negazionisti” e “neonazisti”.

Da lì, a seguire, sono divampate decine di proteste in tutta Europa, da Londra a Madrid, da Parigi a Napoli.


Di tali proteste, meritano di essere segnalati alcuni punti nodali.

In primo luogo, si tratta di contestazioni che uniscono tra loro gli interessi materiali di chi ha perso tutto o è in procinto di farlo
(dai precari ai negozianti, dai lavoratori “non garantiti” agli artigiani) con l’idealità di chi al nuovo ordine del potere si oppone precipuamente
perché ha compreso la reale erosione in atto delle libertà e dei diritti, funzionale alla riplasmazione autoritaria del modo capitalistico della produzione.


In secondo luogo, si assiste a una vecchia e, direi, immancabile pratica del potere:
quella delle infiltrazioni delle manifestazioni con uomini ad esse estranei.


Essi, col volto coperto dai passamontagna, seminano il panico usano la violenza, distruggendo vetrine (ampiamente assicurate)
e facendo apparire complessivamente violenta quella che doveva essere, in principio, una pacifica manifestazione del dissenso rispetto al nuovo ordine autoritario.


Si tratta – sia chiaro – di uomini introdotti dal potere stesso, da cui dipendono e di cui sono emanazione.


E ciò con il triplice obiettivo

a) di delegittimare la manifestazione, creando dissenso generale da parte della società civile;

b) di rendere possibile l’attivazione dell’immediata narrazione demonizzante dei “professionisti dell’informazione”,
che ora dipingeranno urbi et orbi la manifestazione come devastante e intrisa di violenza; e

c) di legittimare l’intervento repressivo preordinato delle forze dell’ordine, già pronte, con manganelli sguainati,
a massacrare non già i facinorosi (che, nel frattempo, sono puntualmente spariti), bensì i pacifici manifestanti, compresi gli anziani e le donne.


Il G8 di Genova del 2001 ha, sotto questo profilo, letteralmente fatto scuola,
con i “Black Block” mandati avanti dal potere e poi, immancabilmente, evaporati nell’aria
dopo aver, con il loro agire violento, attivato le cariche della polizia, subite ovviamente soltanto da chi stava manifestando pacificamente il proprio dissenso.

Poiché, con tutta evidenza, sempre più numerose e più partecipate saranno le proteste di piazza contro il nuovo infame regime terapeutico
e contro i lockdown a cui esso darà luogo, è verosimile ammettere che sempre più duro si farà il pugno del potere:

il quale reprimerà senza pietà ogni moto corale di dissenso rispetto allo status quo o – non è da escludere –

lo vieterà a priori, in nome dell’ormai collaudata norma del “divieto di assembramento”.

 
Dal giorno in cui la pandemia Covid-19 ha imposto nel nostro Paese le misure di contenimento alla libertà personale,
sulla bocca degli italiani si è affacciato un vocabolo sino ad allora sconosciuto a molti: Dpcm.

L’aver scoperto l’esistenza di un ennesimo strumento giuridico per imporre regole e costrizioni non è andato giù al nostro popolo
che, come ci insegnano gli antropologi, da sempre ha una forte vocazione anarchica e un’innata riluttanza alle regole.

Come ormai tutti sanno, Dpcm è l’acronimo di «Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri» ed è una cosa ben diversa da una legge.


Nonostante la delicatezza del problema, amplificata proprio dall’emergenza Coronavirus, cercherò di spiegare che valore hanno i Dpcm,
in modo da fugare quantomeno i più ricorrenti luoghi comuni, quelli dettati dall’ignoranza di chi, pur non essendo del mestiere,
pretende di spiegare agli altri ciò che lui stesso non sa.


I Dpcm sono atti con cui vengono emanate norme giuridiche, vincolanti per la collettività.
Alla classica domanda se un Dpcm è obbligatorio bisogna rispondere affermativamente: anche i Dpcm devono essere rispettati da tutti i cittadini.

La profonda differenza tra i Dpcm e la legge sta nel fatto che i primi sono “atti amministrativi” e non “legislativi”:

l’autorità che li emana, cioè, è un organo della pubblica amministrazione – ossia il presidente del Consiglio – e non invece il Parlamento.


Ma questo non toglie che il Dpcm sia vincolante e ciò proprio perché la nostra Costituzione riconosce al presidente del Consiglio
un limitato potere di emanare norme, così come lo riconosce ad ogni singolo ministro con i cosiddetti decreti ministeriali.

Ogni giorno, tutti noi, nel rispettare le regole di comportamento e nel rivendicare i nostri diritti,
non facciamo altro che applicare leggi, decreti legge, decreti legislativi e numerosissimi decreti ministeriali che attuano i primi.

Si pensi che lo stesso regolamento di attuazione del Codice della strada è di provenienza amministrativa.

E così anche le regole sui rumori, diverse norme sul funzionamento delle assicurazioni, delle banche, sul lavoro e sulla previdenza e così via.


Quando ci affacciamo in un’aula del tribunale per chiedere il rispetto dei nostri diritti,
non sempre tutto ciò che rivendichiamo proviene da una legge, ma in buona parte anche da decreti ministeriali.

Ed è chiaro che se riconosciamo valore agli atti amministrativi nel momento in cui pretendiamo tutela da un giudice
dobbiamo essere anche pronti a rispettarli nel momento in cui ci impongono dei doveri.

Del resto, è noto che, laddove c’è un diritto in capo a un cittadino, esiste un dovere in capo ad un altro.
Un po’ come le salite e le discese: per ognuna delle due c’è anche l’altra.

Quindi, i Dpcm sono vincolanti e obbligatori.
Questo è un punto fermo da cui dobbiamo partire se non vogliamo cadere nell’errore di dire fesserie come oggi, in giro, se ne sentono molte.

Del resto, il fatto che i diritti e i doveri non provengano solo dalle leggi e dai decreti del Governo
lo intuiamo se ci guardiamo intorno e consideriamo, magari, altre fonti del diritto come leggi regionali e regolamenti comunali.

Gran parte dei regolamenti in materia di imposte sulla casa provengono dai nostri Comuni e nessuno mette in discussione la loro autorità.
Si pensi, ad esempio, ai regolamenti sulla Tari e sull’Imu, tasse che comunemente paghiamo.


È chiaro, comunque, che un Dpcm non è una legge: se così non fosse, se non ci fosse alcuna differenza,
avremmo che il nostro presidente del Consiglio vanterebbe gli stessi poteri del Parlamento e sappiamo che ciò non è vero.

Ma la differenza tra Dpcm e legge non riguarda il cittadino il quale è tenuto a rispettare l’uno allo stesso modo dell’altro.

Non perché una regola è imposta da un Dpcm è meno “obbligatoria” di una dettata da una legge.

L’uomo comune è soggetto, con la stessa categoricità, ad adempiere tanto alle norme di carattere amministrativo quanto a quelle di natura legislativa.


La differenza è, invece, per chi emana tali norme perché, nel farlo, deve rispettare una cornice di rango superiore.

Il Parlamento deve rispettare la Costituzione;

il presidente del Consiglio, così come i ministri, devono sì rispettare la Costituzione, ma anche la legge.



Le norme del diritto, in Italia, sono strutturate come una sorta di piramide (la piramide delle cosiddette fonti del diritto)
dove, al vertice, c’è la Costituzione e, via via che si scende, troviamo fonti di carattere subordinato, tenute a rispettare i principi delle fonti che stanno sopra.

Questa gerarchia è determinata sulla base del soggetto che emana la norma giuridica.

Nel considerare i diversi soggetti autorizzati dalla Costituzione ad emanare norme giuridiche
avremo sicuramente notato che alcuni sono particolarmente importanti: pensiamo al Parlamento che rappresenta l’intera comunità nazionale.

Altri lo sono un po’ meno. Pensiamo agli organi comunali che rappresentano solo la comunità locale composta, talvolta, da poche migliaia di persone.


Nel nostro ordinamento, le norme giuridiche sono gerarchicamente ordinate.

Esse hanno un valore diverso in funzione della fonte da cui provengono.



Sul piano pratico, il diverso valore non implica però che alcune siano vincolanti e altre no,
ma che nessuna norma proveniente da una fonte di grado inferiore può porsi in contrasto con una norma proveniente da una fonte di grado superiore.

È un po’ come dire, rapportandosi alla gerarchia miliare, che un ordine del caporale non potrà mai porsi validamente in contrasto con un ordine del generale.


Attenzione a questo passaggio: non spetta al cittadino stabilire se una norma secondaria è in contrasto con una norma di rango primario o con la Costituzione.

Finché la norma esiste, il cittadino deve rispettarla.

Se una legge viola la Costituzione, il cittadino deve obbedirla
fino a quando non interviene la Corte Costituzionale a cancellarla per sempre: prima di quel momento, la legge è vincolante.

Così, se una norma di rango amministrativo viola la legge, il cittadino la deve rispettare a meno che non ricorra al giudice e ne chieda la disapplicazione.

Insomma, l’Italia non è un’anarchia dove ciascuno è giudice e decide cosa rispettare e cosa no.

Vediamo allora come funziona la gerarchia delle fonti.


Al primo posto nella scala gerarchica delle fonti del diritto troviamo la Costituzione.
Trovandosi al primo posto, le sue norme prevalgono sempre, in caso di contrasto, su qualsiasi norma.
Come anticipato poc’anzi, solo la Corte Costituzionale – e non il cittadino – è autorizzata a rilevare il contrasto.

Al secondo posto, si collocano (tra di loro a pari merito, direbbe un giudice sportivo),
le cosiddette fonti primarie del diritto che sono costituite a loro volta da:

  • leggi ordinarie, quelle cioè approvate dal Parlamento;

  • decreti legge e decreti legislativi, adottati dal Governo.
Sempre tra le fonti ordinarie ci sono le fonti regionali e provinciali che comprendono:

  • leggi regionali valide solo nel territorio della Regione;

  • leggi della Province autonome di Trento e Bolzano, ugualmente valide solo nei rispettivi territori.
Infine, ci sono le fonti comunitarie che comprendono i trattati, i regolamenti e le direttive dell’Unione europea.

Al terzo posto, troviamo infine i regolamenti che possono essere emanati dal Governo e dai singoli ministri
(e, quindi, si tratta di Dpcm e decreti ministeriali), da organi regionali, provinciali e comunali o da altri organi della pubblica amministrazione.


I regolamenti sono considerati una fonte secondaria del diritto e non possono che modificare le norme contenute nelle fonti secondarie.

Ai regolamenti è delegata la funzione di dettagliare le norme del Parlamento e del Governo,
ossia di disciplinare gli aspetti più tecnici che l’organo legislativo non conosce.

Così, spesso, il Parlamento, nell’adottare una legge, delega il ministero competente ad emanare decreti ministeriali per specificare meglio il funzionamento della normativa.


In ultimo, sono fonti del diritto le consuetudini: si tratta di norme non scritte né poste da alcuna autorità
che sono nate dalla ripetizione costante e generale di atti compiuti dalla collettività nella convinzione di adempiere a un dovere giuridico.


Come visto, il Dpcm è solo una delle tante fonti del diritto,

non la più importante (che è la Costituzione),

non la seconda in ordine di importanza (la legge e i decreti del Governo)

ma la terza.


La discussione sull’opportunità della scelta del Governo di adottare i Dpcm per contenere il virus Covid-19
non deve portarci sulla strada sbagliata di ritenere, in generale, che i Dpcm, così come i Dm, non siano vincolanti.
In ogni caso, anche se così fosse, sarebbe compito solo del giudice disapplicarli.


Con riferimento ai Dpcm adottati dal presidente del Consiglio Conte, durante la pandemia del Coronavirus,

alcuni costituzionalisti hanno espresso riserve e contrarietà ai ripetuti decreti, da Carlo Nordio a Sabino Cassese.

Non è pensabile che un decreto, quindi non una legge, perché gerarchicamente inferiore nelle fonti normative,

possa limitare diritti come la circolazione, il soggiorno, la riunione, sanciti in precisi articoli della Carta Costituzionale.



Potrebbe invece imporre le mascherine, perché l’indossare la protezione non va a limitare alcun diritto costituzionale.


La Costituzione prevede limiti, sia per tutelare la salute «diritto fondamentale dell’individuo» (meglio sarebbe stato scrivere la cura),

sia nella libera circolazione; purché, però, lo stabilisca una legge.



Occorre cioè che il Parlamento deliberi in merito.

Il Governo può sì intervenire: anzi, nell’emergenza sanitaria può usare lo strumento del decreto-legge rispettandone i requisiti costituzionali.


Il giudice di Pace di Frosinone ha sposato la tesi dell’illegittimità dei Dpcm cancellando una sanzione inflitta a un uomo uscito di casa durante il lockdown.


È troppo presto per stabilire quale sarà l’andamento della giurisprudenza.


Ma chiaramente i giudici si esprimeranno solo se ci saranno ricorsi

e le loro sentenze avranno valore solo per il caso concreto e non per tutti i cittadini.
 
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Anacronistico che nella nostra città non si possa uscire dai confini comunali
e ci si trovi in zona rossa, quando i dati stanno completamente all'opposto di
quelli di altre provincie lombarde.

Per quanto riguarda il dato nazionale, i nuovi positivi sono 29.113

POSITIVI NON MALATI.

4.961 sono le persone guarite.
Non vanno conteggiate nei "positivi".
 
Un governo di cattocomunisti pidioti che non sa fare altro.


"Mi sembra quantomeno bizzarro che il governo si preoccupi di chiudere le regioni e non i propri porti".

È un paradosso che lascia sgomenti, quello denunciato da Domenico Pianese, segretario generale del sindacato di Polizia Coisp.

Lo fa servendosi di alcune immagini che arrivano dall’hotspot di Lampedusa e concedono davvero poco spazio all’immaginazione.

Sono scene che non pensi possano esistere, non in un Paese che sta affrontando la recrudescenza dei contagi
con le poche armi che ha a disposizione: regole e limitazioni.

E così, mentre intere regioni, tra cui proprio la Sicilia, vengono blindate per arrestare la diffusione del virus, l’hotspot di Lampedusa è al collasso.

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