L’abuso di denominazione bancaria da parte di soggetti diversi dalle banche (TUB)
L’art. 133 del Testo Unico Bancario (Decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385) disciplina il c.d. abuso di denominazione bancaria da parte di soggetti diversi dalle banche e dagli intermediari finanziari, a protezione della riserva legale dell’attività bancaria e finanziaria e dell’affidamento del pubblico nell’attività medesima.
La norma prevede in concreto il divieto dell’uso da parte di soggetti diversi da quelli autorizzati di qualsiasi parola idonea ad ingannare l’utente sul legittimo svolgimento dell’attività bancaria e finanziaria.
In particolare, è vietato:
– a soggetti diversi dalle banche l’uso, nella denominazione o in qualsivoglia segno distintivo o comunicazione rivolta al pubblico, delle parole “banca”, “banco”, “credito”, “risparmio” ovvero di altre parole o locuzioni, anche in lingua straniera, idonee a trarre in inganno sulla legittimazione allo svolgimento dell’attività bancaria;
– ai soggetti diversi dagli intermediari finanziari di cui all’articolo 106 T.U.B., l’uso, nella denominazione o in qualsivoglia segno distintivo o comunicazione rivolta al pubblico, della parola “finanziaria” ovvero di altre parole o locuzioni, anche in lingua straniera, idonee a trarre in inganno sulla legittimazione allo svolgimento dell’attività finanziaria loro riservata;
Oltre le banche e gli intermediari finanziari, la norma protegge altri soggetti operanti nell’attività riservata bancaria e finanziaria, nonchè attività del settore di recente formulazione (come ad esempio l’emissione di moneta elettronica ed il microcredito).
In particolare, è anche vietato:
– a soggetti diversi dagli istituti di moneta elettronica e dalle banche l’uso, nella denominazione o in qualsivoglia segno distintivo o comunicazione rivolta al pubblico, dell’espressione “moneta elettronica” ovvero di altre parole o locuzioni, anche in lingua straniera, idonee a trarre in inganno sulla legittimazione allo svolgimento dell’attività di emissione di moneta elettronica;
– a soggetti diversi dagli istituti di pagamento l’uso, nella denominazione o in qualsivoglia segno distintivo o comunicazione rivolta al pubblico, dell’espressione “istituto di pagamento” ovvero di altre parole o locuzioni, anche in lingua straniera, idonee a trarre in inganno sulla legittimazione allo svolgimento dell’attività di prestazione di servizi di pagamento.
Chiunque contravviene ai divieti suddetti è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 5 milioni di € [1].
Se la violazione è commessa da una società o un ente, è applicata la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 30.000 fino al 10 per cento del fatturato.
Le stesse sanzioni si applicano a chi, attraverso informazioni e comunicazioni in qualsiasi forma, induce in altri il falso convincimento di essere sottoposto alla vigilanza della Banca d’Italia o di essere abilitato all’esercizio delle attività previste all’articolo 111 T.U.B. (Microcredito).
L’art. 133 del T.U.B. – come ben scritto in una risalente pronunzia della Pretura di Torino del 19 febbraio 1998 – descrive una fattispecie di pericolo astratto laddove indica tassativamente alcune parole il cui uso esclusivo è riservato alle banche (ed adesso, in specifici settori, anche ad altri intermediari abilitati).
In caso di uso di una di tali parole non è difatti necessario procedere alla verifica dell’idoneità concreta ad ingannare il destinatario circa lo svolgimento legittimo dell’attività bancaria, atteso che è lo stesso legislatore a ritenere astrattamente il pericolo di lesione sia dell’interesse della banca sia dell’affidamento dell’utente. La norma descrive quindi una fattispecie di pericolo concreto laddove esige la verifica dell’idoneità lesiva dell’abuso di termini che per la loro forza semantica possono indurre a pensare ad una attività bancaria, rinviando alla discrezionalità del giudice la verifica di tale possibilità.
È sufficiente comunque che l’uso sia idoneo a trarre in inganno perché il precetto sia violato, non essendo necessario che si ingeneri effettivamente la confusione che il legislatore vuole evitare.
La Banca d’Italia può determinare in via generale le ipotesi in cui, per l’esistenza di controlli amministrativi o in base a elementi di fatto, le parole o le locuzioni indicate possano essere utilizzate da soggetti diversi dalle banche, dagli istituti di moneta elettronica, dagli istituti di pagamento e dagli intermediari finanziari.
È il caso, ad esempio, delle società appartenenti ad un gruppo bancario che utilizzino il logotipo della capogruppo, oppure, ancora, delle c.d. casse peote, che da tempo remoto raccolgono somme di denaro senza fine di lucro, concedendo modesti prestiti al consumo ispirandosi alla mutualità.
[1] Importi da ultimo così modificati dall’articolo 1, comma 47, lettera a), del D.Lgs. 12 maggio 2015, n. 72.
L’abuso di denominazione bancaria da parte di soggetti diversi dalle banche | Studio Legale Tidona e Associati | Diritto Bancario e Diritto Finanziario