Gli intoccabili

genesta

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Cos'é un proverbio?

E' una frase scaturita da riflessioni sugli accadimenti, la sintesi di una intuzione di come dovrebbe svolgersi il corso della vita se esso fosse regolato dalla moralità, anziché da leggi umane ingiuste e parziali.

Chi sbaglia paga!

Ovviamente non é vero.

Il detto contiene in se la verità di ciò che dovrebbe essere: chi può contestare, infatti, il fatto che chi abbia commesso un errore debba scontarne le conseguenze pagando il fio delle proprie responsabilità?

Eppure sappiamo che così non é. Sappiamo che chi paga gli effetti degli errori umani sono sempre gli innocenti, se escludiamo la fede su una giustizia divina. Un esempio per tutti é rappresentato dalla vicenda del Cristo crocifisso ...

Insomma, noi uomini siamo capaci di sfornare bellissime frasi che rispecchiano tutto quello che vorremmo che fosse, salvo poi rivelarsi sempre sterili e prive di riscontro pratico, reale.

Non siamo in grado, cioé, di fare della nostra verità interiore il fondamento della nostra vita.

Quando un "potente" commette un reato, chi paga per lui?

Siccome qualcuno, per compensazione, deve pur pagare; siccome il potente, per definizione, non può assumersi le responsabilità delle proprie azioni; siccome, cioé, deve esserci sempre un capro espiatorio;
ebbene, a pagare sarà sempre e comunque il "povero cristro".

La storia é piena di vergogne che comprovano ciò che dico.

Ed oggi, ancora una volta, dobbiamo ammettere che vi sono persone, ovvero gruppi di persone, ovvero popoli che non pagheranno mai per i loro crimini commessi.

Mi riferisco alla vicenda del commissario assassinato in Iraq dalle truppe americane.
Se mi sbaglio, sono pronto a rimettere in discussione quanto affermato in precedenza e quanto sto per affermare:

Gli americani sono un popolo potente sulla terra e, quindi, intoccabile.

Per quanto ci sembra vergognoso, per quanto possiamo scandalizzarci di fronte ad atti criminosi di qualunque genere, infine possiamo solo roderci sulle nostre frustrazioni.

Come siamo capaci di trasformare un detto moralistico in una retorica inconcludente, altrettanto siamo capaci di trasformare una frase retorica in una morale incontrovertibile.

Sono pronto a scommettere su quale sarà l'esito che chiuderà l'inchiesta (semmai ne é stata aperta una) sul fatto.

Una frase che sottolineerà ancora una volta quanto sia limitato il vocabolario delle "frasi fatte" di circostanza:

<< E' stato uno sfortunato evento>>.
 
L'ANALISI
I misteri da chiarire
prima degli spari
di GIUSEPPE D'AVANZO



CHE GLI americani fossero informati o meno della missione di Nicola Calipari a Badgad - e al momento non c'è alcuna evidenza che ne siano stati informati - non sposta la questione di un millimetro. I soldati americani sparano e uccidono il funzionario del governo italiano senza alcuna ragione. Al contrario, Calipari ha tutte le ragioni, la sera di venerdì, per sentirsi in condizione di massima sicurezza dinanzi alle truppe Usa. L'auto, con a bordo Giuliana Sgrena e un maggiore dei carabinieri in forza al Sismi, rispetta per intero le procedure imposte dalle forze della coalizione. Gli agenti italiani hanno un regolare badge che li autorizza a muoversi armati.

Il maggiore, che è al volante dell'auto, conosce le regole della circolazione di quella città in guerra. Non è la prima volta che "lavora" a Bagdad. È falso che l'auto corresse. La velocità della vettura è alquanto moderata. Il maggiore sa di dover superare il check point prima dell'aeroporto ed è pronto a rallentare alle viste del blocco. Ogni condizione di sicurezza è stata rispettata (addirittura, anche se per caso, l'abitacolo è già illuminato dalla luce interna) e, nonostante ciò, la pattuglia americana accende un faro e contemporaneamente spara. Non una gragnuola di proiettili, ma un numero sufficiente per ammazzare Nicola Calipari, ferire Giuliana e l'ufficiale alla guida dell'auto. È venerdì 4 marzo e sono le 20.55, ora di Bagdad.

La responsabilità americana dell'assassinio è certa e ineludibile, ma questa consapevolezza non lascia cadere la domanda: che cosa è accaduto prima di quell'ora? Di quel che è accaduto prima delle 20.55 di venerdì siamo responsabili soltanto noi italiani e rendere trasparenti i nostri comportamenti rafforza l'obbligo - per gli altri - di dar conto della morte del nostro funzionario.

Alla radice dei nostri comportamenti c'è una trattativa e il pagamento di un riscatto. "Calipari l'ho sentito ogni giorno per un mese, mi aggiornava sullo stato della trattativa", diceva l'altra notte a Ciampino Silvio Berlusconi. Il denaro, si dice, è stato consegnato ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi. Dicono: sei, otto milioni di euro. Il governo finora non ha smentito la notizia nemmeno per forma e consuetudine, perché forse non è in grado di farlo. D'altronde abbiamo sempre pagato per far rientrare in Italia i prigionieri. Abbiamo pagato per riavere indietro Agliana, Cupertino e Stefio. Abbiamo pagato per dare sepoltura a Fabrizio Quattrocchi. Abbiamo pagato per salvare le due Simone. Siamo disposti a pagare per riavere i resti di Enzo Baldoni.

Gli italiani pagano. È la nostra condizione di assoluta, catastrofica debolezza in un Paese dove la sicurezza è già problematica per tutti gli occidentali. Gli italiani sono disposti a pagare. Questa verità è cancellata dal dibattito pubblico. È accettata come una necessità dal governo, come un dovere dall'opposizione, come una routine dall'opinione pubblica. Anche in queste ore non c'è chi si chieda se è giusto pagare. Se, soprattutto, è conveniente farlo. Se averlo fatto e ancora rifatto, non abbia avviato una coazione a ripetere che alla fine espone a maggiori rischi gli italiani che sono costretti a restare in Iraq per lavoro (ce ne sono e non sono soltanto militari, giornalisti o agenti segreti).

Rimosso con leggerezza il problema, si può credere che la maggiore appetibilità, diciamo così, degli italiani non esista. Anche una giornalista sapiente e sperimentata come Giuliana Sgrena sembra dimenticare che incombe su di lei un pericolo maggiore e più nero non perché è una giornalista o è una cittadina di un Paese alleato di Washington, ma perché è italiana, e Roma è sempre disposta a pagare. Giuliana Sgrena dimentica quel che, nella loro crudele concretezza, i banditi iracheni (qui non importa se tagliagole, resistenti o terroristi) hanno bene a mente: l'Italia è un Paese emotivo e fragile. Che "si mobilita", come si dice. Che riempie le piazze e si paralizza commosso per settimane.

Ha in odio e non vuole conoscere le durezze della guerra perché ipocritamente nemmeno chiama "guerra" il conflitto a cui partecipa in armi. Siamo una comunità che, nel momento della tragedia, cerca, chiede e invoca una via d'uscita incruenta, quale che sia il prezzo materiale o simbolico da pagare. Condizioni eccellenti per chi deve muovere il ricatto. Condizioni politicamente avventurose per chi, come il governo, deve fronteggiarlo.

Ne nasce una prassi politica e militare che deforma responsabilità e funzioni. L'ostaggio è soltanto da qualche ora nelle mani dell'aggressore e già s'annuncia pubblicamente la trattativa. Il patteggiamento, con il plauso delle opposizioni e il sollievo dell'opinione pubblica, è la sola soluzione che viene presa in considerazione da chi governa. Con un altro capovolgimento di ruolo.

L'intelligence, che dovrebbe raccogliere informazioni per annientare il nemico o metterlo nelle condizioni di non essere aggressivo, si dà da fare per individuarlo con lo scopo di arricchirlo con ampie risorse finanziarie. Milioni e milioni di euro che è superfluo chiedere come saranno utilizzate.

In questa scena dove le figure sono capovolte lavora Nicola Calipari. Quando è a Damasco dove incontra il figlio del Gran Muftì (intermediario per la liberazione delle Simone) è iperprotetto da un corteo di cinque auto. A Bagdad deve muoversi da solo e senza protezione. Non può dire agli alleati del suo incarico. Non l'approverebbero. Forse si darebbero addirittura da fare per danneggiarlo. In ogni caso, in Iraq sono gli Stati Uniti che scrivono le regole e anche l'alleato italiano deve rispettarle. Se vuole trasgredirle, deve farlo con doppiezza e qualche furba bubbola.

Venerdì Calipari sbarca, con il maggiore, all'aeroporto di Bagdad. Incontra un capitano americano e un generale italiano, ufficiale di collegamento con le forze della coalizione. In attesa che in Italia sia nota la relazione di servizio del generale, la sola testimonianza utile la offre l'ufficiale del Sismi. Il maggiore è un subalterno. Non sa che cosa si siano detti il generale, il capitano e il suo capo. Sa che gli americani consegnano il badge e autorizzano il decollo notturno di un aereo del governo italiano diretto a Roma.

Gli americani sanno che a bordo ci sarà l'ostaggio? Se nessuno glielo ha detto (e secondo gli inquirenti italiani "non c'è ancora alcuna evidenza che fossero informati"), non possono intuirlo. Vedono Calipari e l'altro agente noleggiare un'auto. Come credere che quei due si preparino ad affrontare la fase finale di una missione a rischio con un'auto presa a nolo? Ma è così, proprio così. I carabinieri del Ros di stanza a Bagdad potrebbero scortarli.

Non lo fanno. Non possono farlo. Il maggiore conosce Bagdad. Sa che deve raggiungere un luogo dove attende un furgone che condurrà gli italiani al luogo del rilascio. Vedono il furgone. Lo seguono. Non fanno molta strada. Un braccio indica dal finestrino del furgone un'auto scalcagnata. Nell'auto c'è Giuliana Sgrena. Quel che accade poi è purtroppo noto. Il tranquillo avvicinamento all'aeroporto. Il gaudio di Palazzo Chigi e del Manifesto, la felicità di tutti noi. Poi, la sparatoria irragionevole che attende una spiegazione del Pentagono.

Quali che siano le responsabilità degli americani, è difficile spingere sotto il tappeto la nostra responsabilità collettiva. Non c'è dubbio che sia stato il "fuoco amico" a uccidere Nicola Calipari, ma egli è finito davanti a quel mitra in una vettura presa a nolo sospinto dalla tartuferia nazionale che impone di pagare il riscatto negli inferi di Bagdad come se fossero i boschi della Sila o le rocce del Supramonte. Perché non si deve dire, non si deve sapere e nemmeno si deve discutere di riscatto, della sua convenienza strategica.

Forse, nel giorno in cui il Paese rende l'omaggio dovuto a un generoso funzionario dello Stato, è giusto anche per noi tutti sentire la responsabilità di questa collettiva ipocrisia.

(7 marzo 2005) LaRepubblica.it
 

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