Interessante il passaggio sull'inflazione e sulle politiche Bce...
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In termini concettuali, l’inflazione generata dai prodotti importati, in particolare dalle materie prime, può essere ignorata a tre condizioni. La prima è che gli aumenti siano temporanei. La seconda è che gli aumenti dei prezzi importati non producano effetti di trascinamento sulla dinamica dei prezzi dei prodotti interni. La terza è che tali aumenti non producano effetti sulle aspettative d’inflazione degli operatori.
Durante la fase di ripresa verificatasi negli anni 2000, solo la terza delle condizioni è stata mantenuta, in parte. Contrariamente a quanto inizialmente ritenuto, il prezzo delle materie prime è aumentato in modo permanente, non solo in livelli, ma anche in termini di tassi di crescita. I salari e i prezzi dei prodotti interni non sono aumentati in modo sistematico, ma questo è stato in parte il risultato di una riduzione dei prezzi dei prodotti manufatti importati dai paesi emergenti connessi ai guadagni di competitività registrato in quei paesi e alla fissità del cambio. Le aspettative d’inflazione sono rimaste ancorate, ma ciò ha richiesto, nella fase più acuta delle pressioni inflazionistiche, un adeguamento dei tassi d’interesse.
In prospettiva, la dinamica sostenuta nei paesi emergenti pone sfide ancora maggiori. Ci si può aspettare che i prezzi delle materie prime, energetiche e alimentari, continuino a crescere in linea con la domanda mondiale, a meno di innovazioni tecnologiche tali da determinare variazioni contrarie delle quotazioni. Contrariamente al decennio precedente, il processo di riduzione dei prezzi di beni manufatti importati dai paesi emergenti sembra terminato, in particolare per quel che riguarda i prodotti importati dalla Cina. Il progressivo apprezzamento dei tassi di cambio di questi paesi dovrebbe ulteriormente incidere sui prezzi dei prodotti importati dai paesi avanzati.
In sintesi, in misura maggiore che nel decennio precedente, la forte dinamica del resto del mondo è destinata a tradursi in un tasso d’inflazione più alto dei beni importati, siano essi materie prime o manufatti e servizi. Questo effetto può essere in parte attenuato dalla capacità di spostare la produzione dei beni importati verso nuovi paesi a mano d’opera più bassa, o addirittura di riportare la produzione nei paesi avanzati che hanno recuperato produttività, se questi riescono a mantenere una dinamica dei costi contenuta.
In ogni caso, un aumento permanente e ripetuto dei prezzi dei prodotti importati tenderà ad incidere sul tasso d’inflazione dei paesi avanzati, inclusa l’area dell’euro. Questo effetto avviene attraverso due canali. Il primo è semplicemente meccanico, attraverso il peso dei beni importati nel paniere di beni e servizi acquistati dalle famiglie. Ad esempio, i prodotti alimentari ed energetici pesano per circa il 30%, nel paniere medio dell’area dell’euro. Se si fa l’ipotesi di un aumento medio di questi prodotti del 4% all’anno, più o meno in linea con il tasso di crescita dell’economia mondiale (o dei tassi d’interesse a lungo termine, secondo la regola di Hotelling), i prezzi medi dell’area dell’euro aumentano dell’ 1,2% solo per l’effetto di questi prodotti. Non è dunque una componente che si può ignorare, come si farebbe se si utilizzasse come riferimento la cosiddetta
core inflation. Questo concetto perde ovviamente di rilevanza in un mondo globale.
Il secondo effetto riguarda l’implicazione per i prezzi degli altri prodotti, che compongono il 70% del paniere, e che comprendono beni manufatti e servizi, una parte dei quali è importata e l’altra prodotta internamente. Ipotizziamo per semplicità che tali beni vengano interamente prodotti internamente. Se i prezzi di questi prodotti crescono ad un ritmo del 2% all’anno, l’inflazione media complessiva risulta essere del 2,6%, superiore all’obiettivo del 2% della maggior parte delle banche centrali dei paesi avanzati, inclusa la BCE il cui obiettivo è un’inflazione inferiore ma prossima al 2% nel medio periodo.
La banca centrale si trova dunque confrontata con due alternative.
La prima è di rivedere al rialzo l’obiettivo del tasso d’inflazione, tenendo conto dell’inflazione importata, oppure guardare solo all’inflazione non importata e ignorare il resto. Questa strategia è complessa, perché innanzitutto non è chiaro quanto sarà in prospettiva il tasso d’inflazione importato, che non è sotto il controllo della banca centrale. Inoltre, una revisione al rialzo rischia di comportare una perdita di credibilità e di essere interpretata come un cambiamento di strategia. Peraltro, un obiettivo di inflazione più elevato comporta un aumento delle aspettative d’inflazione, e dunque dei tassi d’interesse a lungo termine, che deve essere prima o poi accompagnato da un aumento dei tassi a breve. Infine, se il tasso d’inflazione obiettivo viene aumentato, non sarà facile convincere gli operatori nazionali di non incorporare tale aumento nei loro comportamenti, incluso nelle richieste salariali. In una situazione di disoccupazione elevata tale rischio è contenuto, ma man mano che la ripresa economica si consolida il rischio di effetti di avvitamento ( second round) aumentano.
Alternativamente la banca centrale può decidere di mantenere immutato l’obiettivo d’inflazione al 2% (o meno). In questo caso, dato che il contributo dell’inflazione importata è dell’1,2%, ciò significa che i prodotti interni non devono aumentare di più dell’1% all’anno. In altre parole, per essere coerente con un’inflazione del 2%, l’inflazione core, o al netto dei prodotti energetici e alimentari deve essere dell’1%. Come si ottiene questo risultato? Orientando la politica monetaria ad un’inflazione interna dell’1%. Questo può essere ottenuto attraverso una moderazione dei costi e dei prezzi da parte dei produttori. Ciò non significa necessariamente una perdita di potere d’acquisto, se la produttività aumenta a un ritmo paragonabile all’inflazione importata. Se ciò non avviene, tuttavia, l’unico modo per assicurare la stabilità dei prezzi è di avere un contenimento del potere d’acquisto dei salari. Questo richiede che gli incrementi dei prezzi dei beni importati non siano trasferiti sui salari e sui prezzi interni.
I numeri che ho usato hanno uno scopo illustrativo e non devono essere messi in riferimento con quelli attuali. Il punto che vorrei fare è che se prosegue il divario di crescita tra i paesi avanzati e quelli emergenti, l’inflazione importata da questi ultimi non può essere ignorata. Normalmente, l’inflazione più alta del resto del mondo dovrebbe essere compensata da un apprezzamento del cambio della valuta nazionale nei confronti del resto del mondo. Ma questo avviene solo nei casi di paesi a struttura economica comparabile. Nel caso in questione, invece, il tasso di cambio dei paesi avanzati tende a deprezzarsi rispetto ai paesi emergenti, a causa della maggior crescita della produttività in questi ultimi paesi. Questi due effetti, maggior inflazione esterna e deprezzamento, si cumulano e determinano una perdita di ragioni di scambio per i paesi avanzati. Per evitare effetti di avvitamento, è necessario che la dinamica dei costi e dei prezzi nei paesi avanzati, inclusi quelli dell’area dell’euro, sia significativamente più contenuta di quella dei paesi emergenti. Questo aspetto deve essere incorporato nei comportamenti delle imprese, dei sindacati, delle autorità pubbliche. Solo attraverso una inflazione interna significativamente più bassa del 2% si può evitare l’avvitamento delle aspettative e si può mantenere un tasso di crescita dell’economia in linea con il potenziale. Altrimenti la politica monetaria deve diventare più restrittiva di quanto non lo debba essere, il che determina, fino a quando i comportamenti non si adeguano alla nuova norma, una crescita più lenta.
BCE: Le Sfide della Politica Monetaria