Gramellescion

L’amica ritrovata



massimo gramellini






Un ministro non può avere amici, scriveva ieri Michele Brambilla. Soprattutto certi amici. Nella società dell’immagine, godere di un’immagine positiva rischia paradossalmente di risultare pericoloso. Lo sta scoprendo in queste ore Annamaria Cancellieri. Il cittadino esasperato dai privilegi (altrui) non le contesta di avere cercato di agevolare la scarcerazione di un detenuto malato, ma l’appartenenza di quel detenuto, e quindi di lei stessa, all’aristocrazia del potere.



Per intenderci, se la telefonata umanitaria l’avesse fatta Berlusconi, nessuno avrebbe manifestato sorpresa e forse neanche imbarazzo: il passaggio dalla nipote di Mubarak alla figlia di Ligresti sarebbe anzi sembrato un’evoluzione, se non altro generazionale. Ma la Cancellieri non è Berlusconi, e nemmeno Andreotti o D’Alema. È una che non pensi proprio possa avere il numero di telefono dei Ligresti. Nel ritratto che i suoi comportamenti pubblici hanno contribuito a creare, lei è la nonna della Patria, il funzionario dal tratto umano, la persona semplice e di buonsenso che ama circondarsi di persone semplici e di buonsenso, mica di squali e squalette della finanza.



La difesa della super liquidazione del figlio manager (per qualche tempo di una società dei Ligresti) poteva ancora rientrare nella sfera dei sentimenti materni che tutti le riconoscono, senza turbare troppo la purezza del quadro. Ma la sua amicizia, ovviamente legittima, con una delle famiglie più chiacchierate d’Italia contraddice «la narrazione», come si dice adesso. E segna un punto a favore di chi pensa che l’establishment italiano, appesantito dall’intreccio di troppe relazioni, non sia più riformabile ma vada rinnovato in blocco.
 
Bpm è un microcosmo dei nostri mali: il prevalere delle consorterie, l’incapacità (delle popolari, nella fattispecie) di produrre anticorpi espellendo chi nuoce al sistema, il provincialismo passatista insensibile al mutare del tempo, che rende superate forme organizzative magari ragionevoli in un mondo radicalmente diverso. È assurdo che una banca come Bpm, radicata nella zona più ricca del Paese, sia in questo stato. La soluzione dei suoi mali potrebbe stare in una fusione con altra banca, a lei complementare, ma la barricata dei dipendenti boccerà qualsiasi operazione atta a demolirla.
Per questo è da presumere che la Banca d’Italia, molto preoccupata, non starà a guardare. Essa potrebbe anche assumere provvedimenti radicali, per fermare una deriva pericolosa: l’incancrenirsi della vicenda Bpm è un grave segnale d’allarme, evidenzia una mutazione genetica in grado di mettere a rischio, dandone una rappresentazione assai negativa, tutto il sistema cooperativo del credito che pure ha dato molto all’Italia nel Novecento. Incidere sulla carne di un malato può salvare il corpo. Bpm è emblematica del bisogno di radicale rinnovamento di un Paese che pare stanco e seduto, ma ha in sé tutto quanto serve a ritrovare l’antico slancio. Deve solo alzarsi e liberarsi delle incrostazioni di un passato che, da solo, non passerà mai.
 
I figli di B si sentono perseguitati come gli ebrei ai tempi di Hitler. La fonte della rivelazione è estremamente autorevole: B. In un libro di Vespa, tra l’altro. E allora perché ne parli? (Me lo domando da solo). Per analizzare il meccanismo che ha cambiato l’informazione e un po’ le nostre teste. Funziona così: da vent’anni, quasi ogni giorno, B pronuncia una sciocchezza terrificante, contraria al buonsenso e al buongusto. La sciocchezza ha lo scopo di ribadire l’unica idea forte su cui B ha costruito il suo successo in politica: il vittimismo. Gli italiani adorano i vittimisti. Perciò un uomo che ha fatto affari con tutti i regimi e tutti i governi adora raccontarsi al suo popolo come il capro espiatorio di un’oscura macchinazione. B come i pellerossa, come gli ebrei, prossimamente come i migranti di Lampedusa. La scempiaggine provocatoria rimbalza sui siti e in tv, suscitando il commento divertito dei comici e quello indignato delle vittime vere. Ci cascano tutti. Ci cascano sempre. Per pigrizia, rabbia, automatismi strani. E la reazione alimenterà nel popolo di B il convincimento che lui sia veramente una vittima.

La tempesta di sabbia sollevata dalle panzane del Grande Incompreso è violenta ma breve, al pari di ogni altra emozione nella civiltà delle immagini. Il giorno dopo è già svanita nel nulla, lasciando un vuoto nevrotico che la prossima sparata provvederà a riempire. È una malattia di cui abbiamo inoculato il morbo. Non so chi perseguiti i figli di B.



Ma mi sono fatto un’idea di chi, da vent’anni, perseguita noi.
 
Nelle nostre facoltà di Legge si insegna storia del diritto italiano (come è giusto che sia) ma non si insegna storia del costituzionalismo. Incredibile ma vero. Il risultato è che ai nostri costituzionalisti sfugge che il divieto del mandato imperativo istituisce la rappresentanza politica dei moderni. Perché la rappresentanza esisteva anche nel Medioevo e nell’antichità, ma era appunto una rappresentanza assoggettata al vincolo del mandato imperativo, e quindi di delegati o ambasciatori che presentavano al Sovrano le richieste dei loro mandanti. Il divieto del mandato imperativo è dunque vitale per un sistema di democrazia rappresentativa. Se togli questo divieto la uccidi. E il grillismo costituisce di fatto una violazione macroscopica di questo principio.
Non c’è dubbio che il grillismo sia un movimento politico; e, secondo la dottrina, un movimento che riesce a fare eleggere suoi candidati al Parlamento, è un partito politico. Ma questi eletti hanno titolo per entrare e votare in Parlamento? Secondo l’articolo 67 della Costituzione, no. Perché gli eletti del Movimento 5 Stelle sono appunto vincolati da un mandato imperativo di agire, parlare e votare solo su istruzioni di Grillo e del suo guru; una sudditanza che li obbliga, senza istruzioni, al silenzio o alla inazione.

Come ne usciamo? L’articolo 67 sopracitato suggerisce - mi pare - che questi eletti non possono essere accolti in Parlamento senza prima sottoscrivere uno ad uno il loro ripudio del mandato imperativo. So immaginare gli strilli e i «vaffa» dei grillini e di chi li vota. Il che non toglie che i giuristi della Corte costituzionale non possano ignorare il problema e nemmeno lo dovrebbe ignorare, mi sembra, il presidente della Repubblica.
 
Bolle d’acciaio



massimo gramellini



Ieri la notizia più diffusa e chiacchierata del giorno è stata l’affermazione, attribuita a Enrico Letta da un giornale irlandese, di avere le palle d’acciaio. Brunetta, dall’alto delle sue competenze siderurgiche, ha commentato che i lavoratori dell’Ilva gliele fonderebbero all’istante. Beppe Grillo ha lanciato nella Rete una discussione urgente sul tema «Letta ballista d’acciaio». Dalle Alpi alle Piramidi è stato subito un crepitio di tastiere. La battuta migliore: se i leader europei magnificano gli attributi di Letta, allora è vero che quando andiamo a Bruxelles ci caliamo le braghe. Anche il sottoscritto ha confezionato un corsivo sul celodurismo democratico che da alcuni minuti giace esanime nel cestino. Infatti in serata è emersa la banale verità: l’espressione palle d’acciaio («balls of steel») era una traduzione colorita del pensiero castigato di Letta da parte dell’intervistatore irlandese.

Non è il momento di soffermarsi sulla qualità della stampa di Dublino rispetto ai tempi di Joyce. Sta di fatto che abbiamo dato per buona una dichiarazione del presidente del Consiglio per la semplice ragione che era stata diffusa sul web. E che a mettere in moto la baracca mediatica non è stato un discorso, ma una battuta: volgare o estrema come quella (purtroppo vera) sugli ebrei, consegnata da Berlusconi al suo memorialista Bruno Vespa. Siamo all’informazione liofilizzata, alla politica Zelig: hai dieci secondi per dire o scrivere qualcosa di impressionabile, meglio se impressionante, altrimenti cala il sipario dell’attenzione. Il prossimo passo, esprimersi a gesti e grugniti. Bossi verrà ricordato come un precursore.
 
Notizie in retromarcia



massimo gramellini



Premesso che i giornalisti sono responsabili di ogni malvagità del creato, dalla glaciazione che sterminò i dinosauri alle dichiarazioni travisate di Cicchitto, bisognerà cominciare a riflettere sulla credibilità delle fonti: le cosiddette Autorità, che diffondono o avallano le notizie con il peso della loro carica. Se il vescovo ausiliario dell’Aquila dichiara urbi et orbi (soprattutto orbi) che nella sua diocesi ci sono ragazzine che si prostituiscono in cambio di una ricarica del telefonino, le persone semplici sono portate a credere che non stia parlando per dare aria ai suoi santissimi denti, ma abbia raccolto testimonianze affidabili e dall’alto del pulpito intenda denunciare un problema. Invece appena vede i titoli sui giornali (titoli aizzati da lui) il vescovo si affanna a far sapere che il suo era solo un allarme preventivo: esiste sempre la possibilità che le ragazzine possano peccare, ma per il momento le ricariche sono al sicuro.

Se ci si sposta dal potere religioso a quello civile, il tasso di serietà non cresce. Campi Salentina è un paese che in tempi più fortunati diede i natali a Carmelo Bene e adesso a un sindaco che prima conferma alla stampa locale che una bambina di undici anni è incinta di un diciassettenne e poi, tramortito dalle pagine dedicate al morboso argomento, ammette di avere dato fiato a una diceria. Sarà smania di protagonismo, superficialità, italica fanfaronaggine. Ma se l’Autorità non è più neanche lontanamente autorevole, chi possiamo ancora prendere sul serio, oltre i comici?
 
ollallà si riparla di tangenti .... ;););)

e da che pulpito ! :bow::bow: :):):):)













La denuncia del Papa, la corruzione che ci frena

I devoti alla dea tangente rubano
ogni anno sessanta miliardi al Paese


Le bustarelle fanno impennare del 40% il costo delle grandi opere





Non è solo una questione etica. Come spiegava tempo fa il Procuratore generale della Corte dei Conti, Furio Pasqualucci, «in tempi di crisi come quelli attuali» il peso delle tangenti è tale «da far più che ragionevolmente temere che il suo impatto sociale possa incidere sullo sviluppo economico del Paese» perfino oltre le stime «del servizio Anticorruzione e Trasparenza del ministero della Funzione pubblica, nella misura prossima a 50/60 miliardi di euro all’anno costituenti una vera e propria tassa immorale e occulta pagata con i soldi prelevati dalle tasche dei cittadini».

Una tesi ribadita dal successore Salvatore Nottola, secondo il quale le bustarelle fanno impennare del 40% il costo delle grandi opere. Un’affermazione raccolta dalla Cgia di Mestre che, partendo dai 233,9 miliardi di euro del programma delle infrastrutture strategiche 2013-2015, redatto dal governo Monti, ha calcolato che su questi lavori le tangenti peserebbero per 93 miliardi di euro in più. L’equivalente di quasi 6 punti di Pil. Gravando su ogni cittadino italiano per 1.543 euro».
Allora ti chiedi: come è possibile che i cittadini, così sensibili (giustamente) ai rincari di 50 o 100 euro sulle bollette della luce o del gas possono rassegnarsi a un prelievo medio di cinquemila euro l’anno a famiglia? Com’è possibile che non si rivoltino se lo studio «Eurobarometer 2011», presentato nell’autunno 2012, ha accertato che nell’arco dell’anno precedente 12 italiani su 100, quasi uno su otto, si erano sentiti rivolgere «almeno una richiesta, più o meno velata, di tangenti»?

I numeri di «Transparency», l’organismo internazionale che misura la percezione della corruzione nei vari Paesi, del resto, dicono tutto. Nel 1995, mentre entravano nel vivo i processi di Tangentopoli quando l’Italia intera era impazzita per il pool di Mani Pulite e il settimanale Cuore rideva della catena di arresti giocando a tutta pagina sulla pubblicità Alpitour («No San Vitùr? Ahi ahi ahi...»), eravamo al 33º posto nella classifica dei Paesi virtuosi. Dieci anni dopo, come se l’onda moralizzatrice non fosse mai avvenuta, al 40º. Nel 2008 al 55º. Nel 2009 al 63º. E via via abbiamo continuato a scendere fino all’umiliante 72ª posizione del 2012. Quando ci siamo ritrovati un posto sotto la Bosnia Erzegovina e addirittura otto sotto il Ghana.

Uno scivolone mortificante. Sulla scia dei numeri sconcertanti forniti nel 2008 dall’Alto commissariato per la lotta alla corruzione. Dove le tabelle, su dati ufficiali del ministero della Giustizia, dimostravano dal 1996 al 2006 una catastrofica sconfitta: da 608 a 210 condanne per peculato. Da 1159 a 186 per corruzione. Da 555 a 53 per concussione. Da 1305 a 45 per abuso d’ufficio. Un tracollo. Ancora più grave in alcune situazioni locali. Da 421 a 38 condanne per corruzione in Lombardia, da 123 a 3 in Sicilia...

Non bastasse, uno studio di Pier Camillo Davigo e Grazia Mannozzi dimostra che anche i pochissimi che sono stati condannati per corruzione se la sono cavata con un buffetto: il 98% con meno di due anni di carcere. Ovviamente condonati. Una percentuale che grida vendetta e dimostra l’abisso che ci separa ad esempio dall’America. Il deputato californiano Randy «Duke» Cunningham, ha avuto per corruzione (anche se era un eroe dell’aviazione al centro del film «Top Gun») otto anni di galera. Il governatore dell’Illinois George Ryan, candidato al Nobel della pace per la sua avversione alla pena di morte, sei e mezzo. Il suo successore Rod Blagojevich, che cercò di vendersi il seggio di senatore lasciato libero a Chicago da Barack Obama, addirittura quattordici. Uscirà, se avrà tenuto una buona condotta, nel 2024.

È un peso enorme, quello delle mazzette. Perfino al di là dell’aspetto morale. Lo testimonia un dossier di Confindustria del 2012 che spiega come gli investimenti esteri in Italia siano precipitati dal 2% del totale spalmato su tutto il pianeta nel periodo 2000-2004 a un misero 1,2% negli anni 2007-2011. Quasi un dimezzamento. Una sconfitta storica. Ancora più grave nel Mezzogiorno. Spiega infatti quel dossier che di tutti i soldi stranieri arrivati nel nostro Paese quelli investiti in Campania sono stati l’1%, in Puglia lo 0,8%, in Sardegna lo 0,6%, in Sicilia lo 0,4%, in Calabria lo 0,2 e in Basilicata lo 0,1...
Risultato finale: tutto il Sud messo insieme, compreso l’Abruzzo (2,2%) e il Molise (zero!) non ha raccolto che il 5,3%. Sarà una coincidenza se, nel grafico dell’Istituto di ricerca «Quality of Government Institute» del 2010 le nostre regioni sono considerate, tra 172 regioni europee, tra le più corrotte?
 
il disegno di legge

Anticorruzione: il Pdl presenta 3 emendamenti per tutelare Berlusconi nel processo Ruby

Le modifiche richieste prevederebbero la concussione solo nel caso in cui si ottiene una utilità patrimoniale















Legge anticorruzione, ok della Camera. Furia Pdl: “Severino ci ha ammanettato”

Il testo passa quasi di misura: 354 voti.Il Popolo delle Libertà in ordine sparso: assenti 72 deputati (tra i quali Alfano e Berlusconi), 38 si sono astenuti. Cicchitto alla Severino: "Donna avvisata è mezzo salvata. Non porti emendamenti con la fiducia, se no voteremo contro". E rilancia: "Ora la responsabilità delle toghe". Fini: "Temo che la legge non sarà approvata prima della fine della legislatura"








Legge anticorruzione, voto a rilento. “Ostruzionismo Pdl in commissione”

In un'ora e mezzo la commissione discute solo un emendamento. Idv, Pd, Udc e Fli: "Vergogna". Caos anche sul falso in bilancio: Fli e Udc votano con il Pdl seguendo l'indicazione del governo, poi si scusano. Il sottosegretario Mazzamuto: "Ho seguito le indicazioni del ministro". Ma viene sconfessato dalla Severino: "Se c'è un errore si porrà rimedio in aula"







Legge anticorruzione verso la fiducia. Mugugni del Pdl: “Sì di responsabilità”

Ancora scontri all'interno della maggioranza. D'Alessandro e Paniz: "Non voteremo". Il ministro Severino: "Il testo ha avuto una lunga fase di dialogo, con il voto di domani supereremo l'impasse". Ma il centrodestra attacca il Pd: "C'è una norma salva-Penati"




Il muro invalicabile del Pdl
contro la legge anticorruzione


La legge varata nel 2010, anno in cui riesplode tangentopoli, è inoffensiva nella parte delle sanzioni penali. Il primo provvedimento, a firma Alfano, approda al senato solo un anno dopo. E lì si ferma. Ci ha riprovato la Severino, col governo Monti, ed è subito scattato il braccio di ferro col partito di Berlusconi



“Preparatevi al peggio”

Pdl in tumulto su una legge anticorruzione nata morta

Sì alla Camera, in Senato si vedrà. Riforme impaludate, pessimismo greco


cicchitto.jpg
Tra assenti, astenuti e contrari la maggioranza assoluta del gruppo del Pdl ieri non ha votato la legge anticorruzione: solo 112 voti favorevoli su un esercito di 210 deputati.











 

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