Mercati in allarme: in aumento pericoli e volatilità
Venerdì Wall Street ha registrato il peggiore calo delle ultime sette settimane e l’indice europeo Dj stoxx -4,4%, lo si deve alle paure, sulla Crimea.
Rossana Prezioso 17 marzo 08:00
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AGENDA MACROECONOMICA - Il calendario degli aggiornamenti macroeconomici attesi sui principali mercati internazionali. Per ciascun evento sono indicati l’orario di diffusione, il grado di importanza, l’indicazione attuale, quella precedente e la previsione degli analisti. Apri l'Agenda.
Se venerdì Wall Street ha registrato il peggiore calo delle ultime sette settimane e l’indice europeo Dj stoxx ha perso il 4,4%, lo si deve alle paure, innegabili, sulla Crimea. Per quanto strano, però, il nervosismo avvertito è stato un buon segnale: infatti ha spazzato via i dubbi circa una compiacenza cieca e diffusa da parte degli investitori, spesso abituati a sottovalutare ogni evento. Paure che si sono diffuse un po’ ovunque anche nelle altre piazze di scambio. Italia compresa. Russia ormai priva del ruolo di forza mondiale contrapposta agli Usa a loro volta senza più lo smalto degli anni ’80 dove erano portatori (per merito reale o propaganda, difficile dirlo) del sogno americano, adesso la situazione vede lo zar Putin alzare la voce per annettere la Crimea a Mosca contro il parere di tutti. Il rischio, paradossale ma vero, non è nè per Kiev (spalleggiata da Usa e Ue e dai rispettivi aiuti economici che contemplano anche il FMI) e tanto meno la Russia, che in sede Onu ma anche sul fronte diplomatico ha il coltello dalla parte del manico (il referendum non riconosciuto è pur sempre espressione di una popolazione a maggioranza russofona e russofila, soprattutto se si esprime con il 93% dei consensi) forte anche di una popolazione eterogenea, come frutto di quella dominazione sovietica ultradecennale.
Dietro le quinte
Il problema adesso sarà per il dietro le quinte finanziario. In primis sul taglio delle riserve in dollari da parte di Mosca la quale ha preferito aumentare la sua quota di euro dal 25% al 40%, come confermato dal presidente della banca centrale russa Sergei Ignatyev. Quindi anche sulla necessità di Mosca di agire subito per l’annessione della Crimea, prima che l’iter macchinoso e spesso discorde della diplomazia internazionale faccia il suo corso (ricordarsi dei numerosi errori e sopratutto degli imperdonabili ritardi commessi durante al guerra in Jugoslavia). Ma se breve sarà l’azione di Mosca, minime potrebbero essere le turbolenze sui mercati, visto che proprio la diplomazia si trova con le mani legate. Da qui la “serenità” se di serenità si può parlare, per la possibile assenza di shock.
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Infatti , Russ Koesterich , responsabile della strategia di investimento di BlackRock , ha notato che mentre gli eventi in Ucraina hanno creato bruschi crolli, i mercati hanno anche provveduto, autonomamente non solo a riprendersi, ma anche a stabilire nuovi massimi.
A cambiare le carte in tavola, solo un’improvvisa escalation di violenza che allo stato attuale dei fatti non è prevista nè prevedibile.
Gli assett coinvolti
Per gli energetici, come petrolio e gas naturale, il governo degli Stati Uniti ha annunciato già di voler provare un test di vendita sulle scorte strategiche (vendita di 5 milioni di barili della Strategic Petroleum Reserve), una mossa che alcuni commentatori hanno visto come un avvertimento a Mosca anche se sembrerebbe più un avvertimento teorico che pratico. E l’oro? In tutto questo il primo pensiero va all’oro, salito a 1.379 dollari l’oncia anche se l’aumento non è attribuibile solo alle tensioni in Crimea.
Il vero problema della crisi ucraina è proprio l’Ucraina alla fine dei conti, con punte di somiglianza con la crisi di Cipro dell’anno scorso: Mosca con Kiev e con Nicosia può sfruttare la carta del debito pubblico e della presenza (massiccia) nel sistema bancario. Incognite, forse non impattanti, ma pur sempre logoranti.
In tutto questo l’indice della volatilità continua a salire, toccando il massimo da febbraio anche in vista di fuochi d’artificio in arrivo questa settimana anche da un altro fronte, quello cinese (non per niente Pechino è anche la nazione che ha inventato la polvere da sparo e con essa, appunto, i giochi pirotecnici, quelli veri…).
Intanto sul fronte Federal Reserve il focus è sempre puntato sul tapering con un probabile, anche se difficilmente possibile, altro taglio di 10 miliardi alle iniezioni di liquidità. Altro punto caldo, l’effetto di rialzo dei tassi che potrebbe verificarsi per la metà del prossimo anno, come più volte detto in varie occasioni, sempre che, beninteso, l’economia Usa continui a dare segni di miglioramento, sebbene quelli attuali non abbiano dato l’idea di una strada iniziata all’insegna della certezza: la primavera si avvicina e con essa la probabile dimostrazione di innocenza di un maltempo troppo spesso usato come capro espiatorio.
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Cina e yuan
Dall’altra parte del mondo, o per meglio dire sempre sul continente asiatico, ma questa volta specificatamente su quello orientale si passa alle paure in arrivo da Pechino.
In una Cina che è sempre più lenta sul piano delle riforme economiche si sta assistendo a una sospetta celerità in quelle monetarie. Il renmimbi, moneta nazionale di Pechino, vede da oggi ritoccato il suo margine di oscillazione verso il dollaro, dall’1 al 2%. Cosa che già ci si aspettava da diverso tempo, anche se a sorprendere è la scelta di abbreviare i tempi. Scelta dettata, secondo i vertici della People’s Bank of China dal successo dello yuan sul mercato forex e anche sul mercato commerciale, uno scenario che implica perciò una sorta di internazionalizzazione della moneta e una liberalizzazione che precedentemente era data per realizzabile entro il 2020.
In realtà la vita dello Yuan indipendente dal dollaro risale al 2005 quando la stessa banca centrale cinese lo sgancia dal biglietto verde, introducendo un range di oscillazione che da un iniziale 0,3% giornaliero è passato quasi subito a un +0,5% e poi a un 1%, primi tasselli di una politica che ha visto recentemente anche una svalutazione della moneta (con lo sfruttamento delle materie prime usate come mezzo per riuscire ad accaparrarsi valuta estera ).
Europa
Tornando in Europa (Europa che si prepara alle sanzioni contro la Russia mentre truppe di Kiev marciano verso il confine) e chiudendo quindi la panoramica, arriva la notizia che da Harvard gli economisti avrebbero suggerito a Draghi, come politica alternativa all’acquisto di titoli di stato, l’acquisto di treasury statunitensi, cosa che avrebbe il triplice vantaggio di dare liquidità, svalutare al moneta unica (tra parentesi lo stesso Draghi ha deciso di ammettere la forza dell’euro come concausa della bassa inflazione) e attenuare il drenaggio a tappe forzate fatto dalla Fed. Insomma una scelta provvidenziale che eviterebbe anche il nulla osta della Germania, da sempre contraria all’acquisto di titoli europei, visti come un finanziamento diretto agli stati.
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