Impregilo (IPG) Impregilo... e News Finanziarie!

Ed oggi..alle 15.30..parla pure Trichet..non ci bastava Paulson...
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12:50 - Auto Spagna: Anfac, -24,3% immatricolazioni a maggio



-14,3% nei cinque mesi

(Il Sole 24 Ore Radiocor) - Madrid, 02 giu - Le
immatricolazioni di nuove auto in Spagna sono scese del
24,3% a maggio su base annuale a 116.108 unita'. Cosi'
l'Associazione nazionale dei costruttori Anfac, precisando
che nei 5 mesi il calo si colloca al 14,3% a 587.407. "Il
continuo peggioramento della situazione economica, assieme
al chiaro rallentamento dei consumi, all'aumento della
disoccupazione e dell'inflazione e alle piu' rigide
condizioni del credito - ha affermato Anfac - spiegano
l'importante flessione subita dal mercato finora".
red-pal

(RADIOCOR) 02-06-08 12:50:53 (0103) 5 NNNN
 
13:26 - Cambi: euro/dollaro stabile a 1,5540, giu' la sterlina sui guai di B&B -2-



Yen recupera terreno, mercato attende Ism Usa

(Il Sole 24 Ore Radiocor) - Milano, 02 giu - Al profit
warning di Bradford&Bingley con la sensibile riduzione del
prezzo di emissione delle nuove azioni per l'aumento di
capitale da 258 milioni di sterline, si sono sommate per i
mercati britannici altre indicazioni negative: il calo del
credito al consumo, con le concessioni di mutui scese ai
minimi dal 1999, e la contrazione dell'indice Pmi per il
settore manifatturiero (50 punti la rilevazione di maggio).
Mentre il mercato attende la diffusione dell'indice Ism
manifatturiero Usa per cui si attende un contenuto calo a
48,5 da 48,6 in maggio, l'euro ha pagato temporaneamente la
conferma di un'attivita' manifatturiera piuttosto debole
arrivata dall'indicatore Pmi: la rilevazione effettuata
presso i responsabili acquisti delle aziende manifatturiere
a maggio, pur risultando lievemente migliore delle attese,
ha comunque accusato un lieve calo (da 50,7 a 50,6)
ribadendo la fase di difficolta'. La divisa Ue tratta a
162,86 yen (164,05 venerdi') e a 1,6184 franchi (1,6225).
La valuta nipponica ha recuperato terreno anche nei
confronti del dollaro (necessari 104,86 yen per un dollaro a
meta' seduta a fronte dei 105,47 di venerdi'), mentre e'
rimasto invariato il cross dollaro/franco a 1,0418 (1,0430
in chiusura venerdi' e 1,0419 all'apertura di stamane).
fon-
 
13:36 - Borsa: listini cedono oltre un punto a meta' seduta, male Fonsai -2-



(Il Sole 24 Ore Radiocor) - Milano, 02 giu - Quanto al
comparto auto, l'amministratore delegato di Fiat, Sergio
Marchionne, ha spiegato di aspettarsi un calo di quasi il
20% del mercato italiano in maggio, mese in cui il Lingotto
manterra' la propria quota sul totale delle immatricolazioni
nel nostro Paese. Le quotazioni sono quindi partite in
ribasso, nonostante i dati confortanti arrivati in seguito
dalla Francia dove in maggio le immatricolazioni sono
cresciute del 7,1%, dato nettamente superato dal +33,3%
messo a segno dal gruppo Fiat. A gettare ombre sulle
prospettive del settore (-2,34% il sottoindice stoxx
europeo), tuttavia, e' arrivata anche la possibile revisione
al ribasso delle stime di vendita di Toyota negli Stati
Uniti, preannunciata dal presidente Katsuaki Watanabe al
Financial Times. A Parigi, Renault cede cosi' il 3,47% e
Peugeot il 2,17%, mentre a Francoforte Bmw segna -3,46%,
Volkswagen -1,77%, Daimler -1,37% e Porsche limita i danni
allo 0,61%. Sulle banche (-1,78% il sottoindice stoxx) pesa
invece il tonfo di Bradford & Bingley, che ha annunciato che
il fondo Tpg acquistera' il 23% del capitale per 179 milioni
di sterline nell'ambito della progettata ricapitalizzazione.
Bradford & Bigley ha di conseguenza tagliato il prezzo
dell'annunciata emissione di nuove azioni da 82 a 55 pence,
lo stesso importo che sara' pagato da Tpg. Sull'S&P/Mib
perdono terreno UniCredit (-1,85%), Banco Popolare (-2,09%),
Mps (-2,07%), Mediobanca (-1,92%) e Intesa SanPaolo
(-1,78%), mentre e' in netta controtendenza Banca Italease
(+3,06%). Scivola anche Telecom (-1,77%), penalizzata
dall'avvio di copertura con 'underweight' operato dagli
analisti di JpMorgan. Impregilo segna -2,42%. In merito al
progetto per la costruzione del ponte sullo Stretto di
Messina, il presidente dell'Anas, Pietro Ciucci, ha spiegato
che "nella primavera del 2010 si potra' realisticamente
aprire il cantiere e la consegna dell'opera dovrebbe
avvenire per la fine del 2016". Giu' anche
StMicroelectronics, che perde il 3,46% dopo il +1,4% messo a
segno venerdi' sulla scia della statunitense Dell, mentre
tra i finanziari il taglio di stime operato da Goldman Sachs
deprime Unipol (-2,39%). Nel resto del listino si mettono in
luce Isagro (+8,54%), Aegon (+3,29%), e Popolare di Spoleto
(+2,3%), mentre sono in rosso l'As Roma (-6,39%), Premafin
(-5,1%), Ratti (-4,69%) e Risanamento (-4,13%).
In Europa, debole Michelin (-3,01%) a Parigi, dove il
titolo risente del taglio del target price a 50 euro da 62
operato da Credit Suisse. Giu' anche Eads (-2,73%), Air
France-Klm (-2,68%) e Axa (-2,31%). A Londra vanno invece a
picco i finanziari su cui pesa l'effetto Bradford & Bigley:
Hbos cede l'8,5%, Alliance & Leicester il 4,82%, Barclays il
2,8% e Rbs l'1,64%.
Ppa-
 
14:21 - Wall Street: future americani negativi in attesa dei dati macro



(Il Sole 24 Ore Radiocor) - New York, 02 giu - Future
negativi a Wall Street in attesa della pubblicazione alle
ore 16.00 dei dati sulla spesa in costruzioni e dell'Ism
manifatturiero. Occhi puntati sul settore finanziario dopo
il profit warning questa mattina dell'istituto di credito
inglese Bradford & Bingley. Attenzione anche al settore
aereo visto il taglio delle stime per il 2008 da parte della
Iata. I future sul Dow Jones cedono lo 0,45%, quelli sul
Nasdaq lo 0,29% e S&P500 lo 0,45%.
liz

(RADIOCOR) 02-06-08 14:21:38 (0126) 5 NNNN
 
Da leggere!!!

Cantiere Italia, i soldi e i sogni

ADRIANO BONAFEDE

C’è di tutto e per tutti: autostrade, ponti, linee ferroviarie ad alta velocità, superstrade, persino dighe. Se si dovesse prendere alla lettera il programma enunciato da Berlusconi durante la campagna elettorale, l’Italia si dovrebbe trasformare, da Nord a Sud, in un immenso cantiere. Del resto i piani d’investimento ci sono, molte opere considerate fondamentali sono già state iniziate o sono sulla rampa di lancio. A questo punto basterebbe soltanto dare una spinta, mettere sul piatto più soldi e, soprattutto, velocizzare il tutto: proprio quello che i costruttori si aspettano adesso dal nuovo presidente del Consiglio e dal governo. A dare un’occhiata alle opere in corso di realizzazione o di progettazione, balza agli occhi il gigantesco sforzo finanziario pensato, se non proprio messo in atto, dallo Stato e dalle sua varie articolazioni, dall’Anas alle Ferrovie, dalle regioni alle concessionarie autostradali. Ci sono in ballo decine di miliardi di euro per oltre 40 opere ritenute prioritarie che dovrebbero essere ultimate, secondo il "Primo programma delle infrastrutture strategiche", da qui al 20142016, con punte anche nel 2017.
Il tanto chiacchierato Ponte sullo Stretto, con una previsione di costi per 6,10 miliardi (ma il prezzo dell’acciaio è tanto lievitato in questi ultimi mesi da rendere questa cifra ormai solo indicativa), non è l’opera più faraonica in programma. Ad esempio, la ‘dorsale jonica, la SS 106, ha un budget di costi stimati in 15,3 miliardi per 491 chilometri. C’è poi la tratta ferrovia ad alta velocità MilanoTorino, da ultimare entro il prossimo anno, il cui costo è stimato in 7,78 miliardi. Di poco inferiore l’impegno finanziario previsto per l’autostrada SalernoReggio Calabria, 7,57 miliardi.
Tra le opere in programma di cui si è parlato molto sui giornali in questi anni c’è il sistema Mo.Se. di dighe per bloccare l’acqua alta a Venezia (costo stimato 4,27 miliardi), da ultimare entro il 2012. E c’è la Pedemontana Lombarda, un lavoro che dovrebbe costare alla collettività 4,66 miliardi. L’alta velocità ferroviaria la fa da padrona: ci sono varie tratte (MilanoBologna, MilanoVerona, BolognaFirenze, MilanoGenova, tanto per citarne alcune) ciascuna delle quali vale intorno ai 5 miliardi. Il ‘corridoio 5’ europeo, ovvero La TorinoLione, ha un costo stimato in 4,7 miliardi.
Insomma, a guardare sulla carta l’Italia sembra tutta un cantiere. I colossi italiani del settore, a cominciare da Impregilo e Astaldi, e dalle imprese che fanno capo alla Lega Coop riunite nel Consorzio Ccc, hanno le mani in pasta un po’ ovunque. Le alleanze sono ‘ a geometria variabile’, e qualche volta le imprese che si contendono un’opera con una guerra all’ultimo prezzo si ritrovano a collaborare in altri frangenti.
Impregilo, ad esempio, ha vinto di recente la gara per la Pedemontana Veneta (un lavoro da sempre caldeggiato dalla Lega Nord) proprio contro le cooperative riunite nel Consorzio Ccc. Ma sul passante di Mestre le due imprese sono tranquillamente socie come se niente fosse. E sul Ponte di Messina, che ancora deve cominciare, c’è, insieme a Impregilo, anche la Cmc (una delle principali imprese della Lega Coop). Ancora il Ccc è in società al 50 per cento con Pizzarotti sulla Brebemi (autostrada BresciaBergamoMilano), mentre Pizzarotti è socio di Impregilo sulla Pedemontana Lombarda. Astaldi è socia di Impregilo sulla Pedemontana Lombarda ma sulla linea C della metropolitana di Roma è general contractor. Condotte privilegia molto il rapporto con Impregilo, di cui è socia nei raggruppamenti di imprese per due lotti della SalernoReggio Calabria e per il Ponte di Messina.
Dunque tutte le imprese sono posizionate, come i concorrenti prima di una gara, per la ripartenza delle opere pubbliche. Il governo Berlusconi deve ora reimpostare le priorità e, si sa, ha gusti diversi rispetto all’esecutivo Prodi. Intanto, per prima cosa, ha annunciato la ripresa del Ponte sullo Stretto. Cosa che ha fatto immensamente piacere al trio Salvatore LigrestiMarcellino Gaviofamiglia Benetton che insieme controllano Impregilo, l’impresa che aveva vinto la gara poi congelata dal governo di centro sinistra.
Il ritorno di Berlusconi ridisegna di fatto la mappa del potere nel mondo delle costruzioni. Ligresti e Gavio, non è un mistero, avevano salutato il possibile ritorno del Cavaliere al governo, già prima delle elezioni politiche, con grande entusiasmo. Il perché è presto detto: oltre alle grandi opere in cui Impregilo è coinvolta, i due hanno separatamente molti altri interessi da soddisfare. Ligresti ha, tramite Immobiliare Lombarda (controllata da FondiariaSai) una serie di investimenti da fare a Milano, che ora saranno moltiplicati per quattro dopo l’annuncio di Expo 2015. Un governo amico sarà di giovamento. La stessa cosa può dirsi per Marcellino Gavio, che tramite le sue concessionarie autostradali (la MilanoTorino in primo luogo) e le sue società di costruzione (tra cui la Grassetto che un tempo fu di Ligresti) potrà ricevere benefici dalla ‘sintonia’ con il nuovo governo.
Oggettivamente il mondo della cooperazione non sembra avvantaggiato dal governo Berlusconi, che nell’esperienza precedente tra il 2001 e il 2006 aumentò la tassazione su questo genere di imprese. Ma il nuovo clima bipartizan promette bene. Non sembra più il tempo per guerre di questo tipo. Anche perché le cooperative sono presenti massicciamente nelle opere infrastrutturali del centro nord. Condotte, invece, attraversa per conto suo un momento difficile: mentre era in corso un complesso piano di ristrutturazione, sono arrivati dei problemi sul fronte giudiziario. La Todini, guidata dalla spumeggiate Luisa Todini, è ora impegnata nella Variante di Valico FirenzeBologna, che sarà finita entro il 2011 per un costo stimato di 3,12 miliardi.
Astaldi è in questo momento, e come molte altre imprese di costruzione, più impegnata all’estero che in Italia: circa il 62 per cento del fatturato. Ma resta la speranza di una ripresa delle grandi opere nel nostro paese: infatti se si guarda il suo portafoglio lavori, si scopre che per il 60 per cento è ancora concentrato in Italia.
Questo però significa una cosa sola: all’estero i lavori si prendono e si portano a termine, in Italia si prendono ma sembrano non finire mai. «È questo il vero problema dell’Italia spiega Paolo Buzzetti, presidente dell’Ance le opere cominciano ma non si va avanti se non molto, troppo lentamente. Da una nostra indagine risulta che per gli appalti oltre 50 milioni di euro ci vogliono in media 67 anni per finire mentre in Gran Bretagna ne bastano 23. È il momento di dare una svolta. Le decisioni devono essere prese in tempi rapidi, e i progetti devono essere fatti meglio: sono quasi sempre sbagliati perché sono degli schemi di massima».
Insomma, i lavori pubblici italiani sono come delle ouvertures a cui non segue mai la sinfonia vera e propria. «C’è tanta carne al fuoco, ma il fuoco è basso», dice Piero Collina, presidente del Consorzio Ccc. «La storia dei nostri appalti è fatta di lungaggini burocratiche, di ricorsi su ricorsi, di continui stop and go dovuti anche alle resistenze locali».
I costruttori riconoscono che il primo Berlusconi, con la Legge Obbiettivo, ha fatto qualcosa per velocizzare le procedure. Ma non è bastato, e ora più che mai non basta più. «Su project financing (finanziamento privato dei progetti, NdR) dice Romano Galossi, membro di presidenza dell’Ancpl e sull’offerta economicamente più vantaggiosa vanno fatti degli immediati aggiustamenti».
Ma, oltre alle procedure e alle lungaggini da correggere, c’è anche un molto più semplice problema di soldi. Ci sono davvero? Ai costruttori corre un brivido su per la schiena: sarà che Berlusconi vuole rilanciare i grandi lavori, ma al momento ha stornato i fondi inizialmente destinati al Ponte sullo Stretto (e che il governo Prodi aveva poi assegnato ad altre infrastrutture nel Sud) a coprire lo sgravio Ici sulla prima casa. Insomma anche i costruttori vedono che le casse dello Stato sono messe male. Non c’è dubbio: c’è ancora uno scarto fra i sogni degli imprenditori e la realtà. Chissà se Berlusconi saprà davvero colmarlo.
 
Il ponte sullo Stretto!!!!

Sarà il nostro Golden Gate L’INTERVISTA




MARCO PANARA




Allora ci siamo, il Ponte si farà. «Sono convinto di sì. Si è già investito tanto, sono state fatte gare internazionali e firmati contratti vincolanti. E c'è la volontà politica». Pietro Ciucci è presidente dell'Anas dal luglio 2006 e amministratore delegato della società Stretto di Messina dal 2002, quindi se questo benedetto Ponte alla fine si farà la responsabilità della realizzazione sarà sulle sue spalle. Lei ci ha sempre creduto? «Non avrei accettato l’incarico altrimenti. Non ero in cerca di un lavoro o di un posto, mi ha spinto, dopo l’esperienza delle privatizzazioni, che è stata una operazione di straordinario impegno e di straordinario successo, passare dallo smontaggio di qualcosa, in quel caso l’Iri, alla costruzione di qualcosa, di un’opera che comportasse una sfida tecnologica, organizzativa, istituzionale».
Ma il Ponte sullo Stretto perché si deve fare?
«Il Ponte non è un monumento, è un’opera pubblica da inquadrare nel sistema nazionale delle infrastrutture, e quando si immagina un’opera pubblica il punto di partenza è la valutazione dei costi diretti e indiretti e dei benefici diretti e indiretti. Se i secondi superano i primi e la tecnologia consente di realizzarla, allora quell’opera vale la pena di farla. Poi, solo poi, viene tutto il resto».
Tutto il resto cos’è?
«Sono le ricadute enormi che un progetto di questo genere può avere sul sistema, dallo sviluppo delle competenze in architettura, ingegneria, ambiente e project management, alla nascita e crescita delle imprese che saranno coinvolte, dalla evoluzione delle istituzioni locali, regionali e nazionali, alla credibilità di un sistema paese che dimostra di essere in grado di costruire un’opera così impegnativa e sfidante. La facoltà di ingegneria dell’Università di Barkeley, in California, per dirne una, è nata con la progettazione del Golden Gate».
Che itinerario abbiamo davanti?
«Noi ci siamo fermati nell’aprile del 2006 e due anni di fermo lasciano qualche traccia, dobbiamo quindi riprendere tutto e attualizzarlo. Ci vorranno sei mesi per rivedere la convenzione tra il ministero delle Infrastrutture e la società Stretto di Messina. Poi vanno aggiornati tutti i contratti già firmati, quello con il contraente generale Eurolink, e quelli per le consulenze progettuali, per le assicurazioni, per l’assistenza finanziaria, per il monitoraggio dell’impatto ambientale. A gennaio del 2009 si può dare l’ordine di inizio attività, che vuol dire realizzare il progetto definitivo, che richiederà sei mesi, più qualche mese per la discussione e l’approvazione. Nella primavera del 2010 si potrà realisticamente aprire il cantiere e la consegna dell’opera dovrebbe avvenire per la fine del 2016».
Fatto il calendario, ci sono i costi. Chi paga?
«Il fabbisogno complessivo previsto nel 2006 era di circa 6 miliardi di euro, e poiché i calcoli erano stati fatti in maniera prudenziale non dovremmo distaccarci molto da quella cifra. Il piano finanziario prevedeva che il 40 per cento, circa 2,5 miliardi, venissero da un aumento di capitale della società Stretto di Messina e il resto, 3,5 miliardi, raccolto sul mercato internazionale dei capitali. L’intera cifra sarebbe stata ammortizzata attraverso le tariffe per l’attraversamento del Ponte. Dobbiamo vedere ora se l’impostazione sarà la stessa e si devono trovare le risorse per l’aumento di capitale di Stretto di Messina. Aggiungo che i 2 miliardi e mezzo non servono tutti insieme e tutti subito. I primi pagamenti avverranno nel 2010, quello che serve è un impegno certo per poter chiedere ai contraenti di avviare i lavori e per presentarsi sui mercati internazionali a chiedere capitale di debito».
Una delle questioni che la costruzione del Ponte solleva è quella della forte presenza di criminalità organizzata nelle zone coinvolte.
«Il protocollo per la legalità che ora l’Anas adotta in tutte le grandi opere è nato proprio dentro la società Stretto di Messina, e lo stiamo applicando con molto rigore anche nella realizzazione di un’opera difficile come la SalernoReggio Calabria».
Ma l’industria italiana, che una volta era tra i leader mondiali del settore, è ancora in grado di realizzare opere così imponenti, avanzate e complesse e di garantire un livello adeguato di qualità?
«Le nostre imprese hanno subito gli effetti di una lunga stasi degli investimenti, quindi sono cresciute meno di quanto è avvenuto a imprese di altri paesi, come ad esempio la Spagna. Avevamo grandi società di progettazione e di costruzione, e oggi ne abbiamo meno. Ma la macchina si è rimessa in moto, con la Legge Obiettivo c’è stata una accelerazione degli investimenti, e sia il passato governo Berlusconi che il governo Prodi hanno messo impegno e risorse per rilanciare le grandi opere. C’è quindi un problema di crescita ma non possiamo dire che non siamo più un grado di costruire opere impegnative. Per far crescere il mercato e le imprese il solo modo è fare, e fissare con energia i cinque paletti indispensabili: trasparenza, legalità, sicurezza, certezza dei tempi e certezza dei costi».
Parliamo allora dell’opera che sfida tutto ciò, l’opera che ‘non finisce mai’, la SalernoReggio Calabria. La vedremo finita prima del Ponte?
«Ben prima, glielo assicuro. Ma aggiungo che quest’opera è più bistrattata di quanto non meriti. Innanzitutto si tratta di un progetto imponente, un’autostrada di 440 chilometri non da ammodernare ma da ricostruire sopra il tracciato di quella esistente (scelta fatta per salvaguardare il territorio) mantenendo la presenza del traffico mentre la costruisci. Tutto questo comporta difficoltà enormi di realizzazione, difficoltà tecniche, costi più elevati, tempi più lunghi e disagi per i viaggiatori. Detto ciò, dei 440 chilometri 166 sono stati completati, altri 190 sono cantierati o stanno per essere cantierati o sono in corso di gara. I chilometri che mancano, circa 60, sono in fase di progettazione definitiva e tra la fine del 2008 e la metà del 2009 saranno avviate le gare. Il completamento di tutto il percorso avverrà entro l’inizio del 2013, e se teniamo conto del fatto che l’inizio effettivo è avvenuto alla fine del 2001, 12 anni per una operazione così complessa non sono poi tanti».
Uno dei problemi che invece all’opinione pubblica pesa di più è proprio la lunghezza dei tempi. Sembra che una generazione debba pagare lo scotto e solo quella successiva goderne i frutti.
«La realizzazione di una grande opera ha una sua lunghezza fisiologica, non credo che si possano prendere scorciatoie. Quello che pesa sono le incertezze sulle procedure e sui tempi. Prendiamo il consenso del territorio, è fondamentale e richiede analisi, dibattito, ascolto e condivisione, e poi però decisione. Quello che accade invece è che la decisione non è mai definitiva e il consenso è continuamente rinegoziato. Ci sono anche alcune procedure che possono essere meno lunghe e farraginose con pochi opportuni ritocchi. E poi ci vuole una coerenza di lungo periodo, una capacità della politica di vedere lungo, perché chi mette la prima pietra spesso non sarà lì per il taglio del nastro».
Le infrastrutture sono rimaste indietro, il lavoro da fare è enorme, ma l’Anas è in grado di sostenere un impegno di questa portata?
«Stiamo lavorando per questo. La struttura è stata snellita e razionalizzata, abbiamo abbassato l’età media e aumentato il tasso di scolarizzazione dei dipendenti. Siamo il primo ente appaltante del paese, stiamo creando società regionali per realizzare le opere di interesse regionale in piena sintonia con i territori, stiamo avviando le prime grandi opere in project financing, finanziate cioè con capitale privato in Lombardia, Piemonte, Lazio, Molise. Stiamo investendo molto nella manutenzione del patrimonio esistente, che era stata trascurata in passato. Se avremo regole certe e obiettivi chiari, la nostra parte la faremo al meglio».
 
Produttività perché la sfida è stata persa


MARCELLO DE CECCO


«Tornare a crescere». Era lo slogan della campagna elettorale di Romano Prodi nel 2006. E’ stato il leitmotiv del discorso inaugurale di Emma Marcegaglia come presidente di Confindustria. Ed è l’obiettivo, anche se non troppo urlato, della politica economica del presente governo, la cui precedente incarnazione coincise con cinque anni pessimi per l’economia italiana. Nel suo eccellente Rapporto 2007, l’Istat dedica molto spazio al problema dell’insoddisfacente crescita della nostra economia, e in particolare del sistema italiano delle imprese, prendendo come periodo di riferimento l’ultimo decennio.
Certo, non c’era bisogno di aspettare l’Istat per scoprire che l’economia italiana è ferma ormai dal 2001. Dalla primavera del 2006 aveva cominciato a spirare un lieve vento di ripresa: il robusto vento della crescita mondiale, particolarmente impetuoso in quel periodo, giungeva, smorzato, anche da noi. Durò, comunque, solo fino al primo semestre 2007. Negli anni precedenti, a partire dal 2003, quando la ripresa della economia mondiale fu forte ed estesa a tutte le economie del mondo, solo l’Italia ne era parsa immune, immersa in una crisi che si attribuisce alle conseguenze della globalizzazione e del passaggio all’euro. Dell’euforia mondiale persino la Germania, ristrutturata la propria economia dopo la riunificazione e risanata la finanza pubblica, approfittava, mostrando una superiore capacità di tenere i mercati stranieri, anche se la sua domanda interna ristagnava e ristagna ancora. Il suo esempio, delocalizzazione di funzioni semplici e specializzazione in produzioni complesse, ha trovato imitatori anche in Italia, ma non in numero sufficiente a farci compiere la stessa svolta. Intanto si mettevano in evidenza forze nuove come Spagna, Finlandia, Austria e Irlanda, ma anche i paesi excomunisti. Il malato d’Europa, a partire del giro del millennio, è dunque il nostro paese. Solo nel 2000 e nel 2006, trainato a forza dal resto del mondo, ha mostrato un tasso di crescita paragonabile a quello dei meno dinamici tra i suoi partner continentali. Negli altri anni (compreso probabilmente quello in corso) l’economia italiana è restata ferma, mentre il resto del mondo, inclusa persino l’Africa, si muoveva velocemente. Cinquesei anni sembrano pochi, ma sono molti nell’economia della crescita. Sono bastati a paesi dinamici come quelli ricordati a cambiare radicalmente la loro posizione nell’economia mondiale e, almeno dal punto di vista statistico, a far uscire molti dei propri cittadini dalla povertà o a proiettarli, nei casi più di successo, tra le nazioni leader.
Sono bastati, al contrario, al reddito pro capite italiano, a scendere dalla prima divisione alla seconda. Di ciò è responsabile anche il sistema delle imprese. Tutte le imprese, e non solo quelle industriali. Le imprese che si occupano di servizi rappresentano la maggior parte. In tale sistema, dice l’Istat, sono accadute nell’ultimo decennio cose tali da distinguerlo da quelli dei paesi sviluppati. Abbiamo assistito al crollo della produttività: mentre fatturato e valore aggiunto ristagnavano, le imprese italiane si dedicavano ad assumere nuovi lavoratori o a trasformare posizioni lavorative da permanenti in precarie. Le posizioni di lavoro autonomo, invece di diminuire, mostravano nuova vitalità. Nell’industria, in Italia gli autonomi superano il 18% della manodopera totale, contro percentuali attorno al 24% in paesi come Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna. Assai di più essi sono percentualmente nei servizi. «In questi anni scrive l’Istat le imprese italiane hanno trovato conveniente puntare sull’intensificazione del fattore lavoro, tanto che nonostante il ristagno delle retribuzioni si registra un aumento relativo del costo del lavoro per unità di prodotto. L’analisi settoriale conferma come la dinamica della produttività sia stata negativa in tutti i settori, eccetto l’agricoltura e peggiore proprio in quelli che sono cresciuti maggiormente, dunque non solo nelle costruzioni, ma anche nelle attività finanziarie e nei servizi alle imprese, tradizionalmente labour intensive».
Perchè le imprese italiane si siano dedicate ad aggiungere lavoratori, perdendo produttività, proprio in un periodo in cui il paese crescevano pochissimo, è l’interrogativo di fondo al quale l’Istat cerca di rispondere. Se non si capiscono i motivi di tale comportamento anomalo in confronto a quanto accade in Europa, specialmente nelle economie di dimensioni e reddito simili a quelli italiani, non si può impostare una politica economica efficace, da cui risultino aumenti di crescita e produttività. Se non per il paese, almeno per le imprese, la strategia finora seguita è stata pagante. I profitti e quindi la redditività del capitale investito, sono stati in questi anni soddisfacenti. Malgrado lo shock della concorrenza asiatica e centreuropea, le esportazioni italiane hanno perso quota più in volume che in valore. La quota italiana di commercio mondiale ha resistito meglio di quella degli altri importanti paesi europei, a eccezione della Germania. Molti esportatori sono riusciti a spostarsi su prodotti di maggior valore unitario.
Guardando dentro l’intero universo delle imprese, l’Istat scopre che l’industria in senso stretto, nel periodo 19992005, ha perso il 7% delle imprese e il 4% dei lavoratori, mentre gli altri settori registrano aumenti significativi di addetti e imprese. Nelle costruzioni le imprese sono cresciute del 19% e gli addetti del 28% nel periodo ricordato, e nei servizi alle imprese le unità imprenditoriali sono cresciute del 37% e gli addetti di un clamoroso 48%. In questo particolare settore , ben 848.000 lavoratori sono stati aggiunti a quelli esistenti, la metà del totale degli addetti aggiunti a tutte le attività economiche nel periodo.
Nel periodo l’intera Europa a 25 ha aggiunto circa sei milioni di lavoratori, e il nostro paese da solo ne ha aggiunti 1,7 milioni, quasi un terzo. Ma le cifre più significative sono quelle dell’industria in senso stretto. Nell’Europa dei 25 si sono in questi anni persi quasi quattro milioni di posti di lavoro industriale, mentre in Italia se ne cancellavano meno di 20mila. E ciò accadeva mentre la crescita dei venticinque paesi era robusta mentre l’Italia restava al palo. Dal confronto che istituisce l’Istat, apprendiamo che le dimensioni medie delle imprese, per quanto riguarda gli addetti, restano in Italia assai più piccole di quelle della media dei 25 europei. Nel settore industriale la dimensione media europea è di 15,5 addetti per impresa, quella italiana di nove. Le dimensioni medie delle industrie restano in Italia metà di quelle dell’Europa. Anche nei settori più dinamici, in Italia gli addetti aumentano ma le imprese sono sempre grandi la metà di quelle europee. Abbiamo percentualmente più microimprese nell’industria di tutti gli altri tranne Grecia e Cipro. La grande impresa brilla da noi per la sua rarità sia nell’industria che nei servizi. Al di sopra dei 250 addetti, in Italia si contano poco più di tremila imprese, con il 20% degli addetti totali. In confronto a Francia, Germania o Gran Bretagna, è evidente l’anomalia. Però dal 1957 abbiamo legato i nostri destini all’Europa ricca, e fino a circa quindici anni fa, Pil e reddito pro capite sono aumentati in Italia come e più che in quei paesi. Poi abbiamo cominciato a perdere terreno verso di loro, ma anche verso i nuovi europei, la Spagna l’Irlanda, la Finlandia, la Slovacchia, la Polonia.
Sin dai primi anni dell’Italia unita, se si cerca un capro espiatorio per qualche evento negativo, si punta il dito contro il settore pubblico. Questo è diventato ancor più vero da quando abbiamo cominciato a perdere terreno nei confronti dell’Europa. Che il settore pubblico, come produttore e gestore di infrastrutture, e di servizi importanti, sia poco efficiente, è cosa nota: è opportuno che il governo lo metta al centro delle premure riformatrici. Ma anche la struttura produttiva mostra nei confronti di quelle dei nostri vicini peculiarità che ne pregiudicano la crescita. Al centro della struttura produttiva c’è un cuore di imprese di media grandezza efficienti nel produrre ed esportare. Ma sono poche, occupano una parte troppo piccola di lavoratori per riuscire a portarsi dietro il resto del sistema produttivo e sono concentrate in settori a limitata tecnologia. Attorno ad esse persiste e cresce, specie nei servizi, una pletora di microimprese a bassa produttività, che possono solo pagare salari bassi e richiedere lavoratori a bassa qualifica. Sono esse a produrre occupazione, più delle grandi imprese che ne vanno perdendo e delle medie che non hanno massa critica per spostare le statistiche.
Che può fare un governo che abbia a cuore lo sviluppo ma anche le promesse elettorali? Può ridurre, come fa il nostro, la tassazione sugli straordinari, che aumenta i redditi netti per i lavoratori, e se alcuni facili trucchi vengono applicati può ridurre i costi per le stesse imprese. Ma non distingue tra imprese efficienti e dinamiche e imprese che fanno profitti e creano occupazione dequalificata e a bassi salari, ma non aggiungono quantità o qualità alla crescita. Il governo può poi abolire l’Ici per mettere un po’ di soldi in mano alla borghesia, sperando che li spenda in prodotti fabbricati in Italia. Ma se ai comuni non vengono rimborsati i proventi dell’Ici, la domanda di beni e servizi da parte loro e dei loro dipendenti dimi<n>nuisce, e l’effetto netto può esse<n>re nullo. Da queste misure che <n>sono le uniche finora annunciate <n>nessun incentivo può venire al si<n>stema delle imprese, perchè co<n>minci a liberarsi dalle sue ano<n>malie, che permettono di mante<n>nere i profitti, di aumentare l’oc<n>cupazione a basso salario, ma <n>non di qualificare la crescita del<n>l’economia italiana rendendola <n>più omogenea con quella del re<n>sto d’Europa. Nulla abbiamo <n>sentito per quel che riguarda i <n>fondi per la ricerca e per l’istru<n>zione, due tra le anomalie italia<n>ne più eclatanti. Nè alcuna poli<n>tica ci è stata annunciata per il <n>Mezzogiorno, l’ area di massima <n>criticità del paese.
 
14:55 - Meccanica: +3% produzione in Italia nel 2007, attese positive su 2008



(Il Sole 24 Ore Radiocor) - Milano, 02 giu - Nel 2007 la
produzione dell'industria meccanica italiana e' cresciuta del
3% con una quota export del 10% sul fatturato totale. Lo
evidenzia l'ultimo studio di Orgalime, l'associazione
europea delle imprese metalmeccaniche di cui fa parte
l'associazione italiana Anima. Il dato si confronta con una
crescita europea dell'8%, ma il presidente di Anima Vittorio
Leoni sottolinea che se "nel 2007 l'Italia ha risentito
della crisi economica internazionale piu' dei nostri partner
europei, per il 2008 i primi dati rilevati sono meno
negativi di quanto prospettato". La quota dell'industria
meccanica italiana sull'intero comparto europeo, d'altra
parte, rimane importante ed e' pari al 21%, dietro soltanto
alla Germania con il 41%. "Nel nostro Paese - continua Leoni
- ci sono tutte le premesse per la ripresa economica e sono
convinto che la meccanica italiana possa rappresentare uno
dei punti chiavi per sostenere il rilancio dell'economia
nazionale".

Com-Mau

(RADIOCOR) 02-06-08 14:55:38 (0140) 5 NNNN
 
15:45 - Euro: Trichet, sempre indipendenti e fedeli a obiettivo stabilita' prezzi



Dal gennaio 1999 inflazione media annua 2,1%

(Il Sole 24 Ore Radiocor) - Francoforte, 02 giu - Sempre
indipendenti e "fedeli" alla missione di garantire la
stabilita' dei prezzi. E' questo il succo del breve
intervento del presidente della Bce Jean-Claude Trichet alla
celebrazione del decennale dell'euro. "Dal gennaio 1999
l'inflazione media annua e' stata nell'Eurozona del 2,1%, la
stabilita' dei prezzi nel medio termine e' esenziale perche'
protegge i cittadini e in particolare i piu' poveri, e' la
precondizione per crescita e nuovi posti di lavoro".

Aps

(RADIOCOR) 02-06-08 15:45:00 (0158) 3 NNNN
 

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