Produttività perché la sfida è stata persa
MARCELLO DE CECCO
«Tornare a crescere». Era lo slogan della campagna elettorale di Romano Prodi nel 2006. E’ stato il leitmotiv del discorso inaugurale di Emma Marcegaglia come presidente di Confindustria. Ed è l’obiettivo, anche se non troppo urlato, della politica economica del presente governo, la cui precedente incarnazione coincise con cinque anni pessimi per l’economia italiana. Nel suo eccellente Rapporto 2007, l’Istat dedica molto spazio al problema dell’insoddisfacente crescita della nostra economia, e in particolare del sistema italiano delle imprese, prendendo come periodo di riferimento l’ultimo decennio.
Certo, non c’era bisogno di aspettare l’Istat per scoprire che l’economia italiana è ferma ormai dal 2001. Dalla primavera del 2006 aveva cominciato a spirare un lieve vento di ripresa: il robusto vento della crescita mondiale, particolarmente impetuoso in quel periodo, giungeva, smorzato, anche da noi. Durò, comunque, solo fino al primo semestre 2007. Negli anni precedenti, a partire dal 2003, quando la ripresa della economia mondiale fu forte ed estesa a tutte le economie del mondo, solo l’Italia ne era parsa immune, immersa in una crisi che si attribuisce alle conseguenze della globalizzazione e del passaggio all’euro. Dell’euforia mondiale persino la Germania, ristrutturata la propria economia dopo la riunificazione e risanata la finanza pubblica, approfittava, mostrando una superiore capacità di tenere i mercati stranieri, anche se la sua domanda interna ristagnava e ristagna ancora. Il suo esempio, delocalizzazione di funzioni semplici e specializzazione in produzioni complesse, ha trovato imitatori anche in Italia, ma non in numero sufficiente a farci compiere la stessa svolta. Intanto si mettevano in evidenza forze nuove come Spagna, Finlandia, Austria e Irlanda, ma anche i paesi excomunisti. Il malato d’Europa, a partire del giro del millennio, è dunque il nostro paese. Solo nel 2000 e nel 2006, trainato a forza dal resto del mondo, ha mostrato un tasso di crescita paragonabile a quello dei meno dinamici tra i suoi partner continentali. Negli altri anni (compreso probabilmente quello in corso) l’economia italiana è restata ferma, mentre il resto del mondo, inclusa persino l’Africa, si muoveva velocemente. Cinquesei anni sembrano pochi, ma sono molti nell’economia della crescita. Sono bastati a paesi dinamici come quelli ricordati a cambiare radicalmente la loro posizione nell’economia mondiale e, almeno dal punto di vista statistico, a far uscire molti dei propri cittadini dalla povertà o a proiettarli, nei casi più di successo, tra le nazioni leader.
Sono bastati, al contrario, al reddito pro capite italiano, a scendere dalla prima divisione alla seconda. Di ciò è responsabile anche il sistema delle imprese. Tutte le imprese, e non solo quelle industriali. Le imprese che si occupano di servizi rappresentano la maggior parte. In tale sistema, dice l’Istat, sono accadute nell’ultimo decennio cose tali da distinguerlo da quelli dei paesi sviluppati. Abbiamo assistito al crollo della produttività: mentre fatturato e valore aggiunto ristagnavano, le imprese italiane si dedicavano ad assumere nuovi lavoratori o a trasformare posizioni lavorative da permanenti in precarie. Le posizioni di lavoro autonomo, invece di diminuire, mostravano nuova vitalità. Nell’industria, in Italia gli autonomi superano il 18% della manodopera totale, contro percentuali attorno al 24% in paesi come Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna. Assai di più essi sono percentualmente nei servizi. «In questi anni scrive l’Istat le imprese italiane hanno trovato conveniente puntare sull’intensificazione del fattore lavoro, tanto che nonostante il ristagno delle retribuzioni si registra un aumento relativo del costo del lavoro per unità di prodotto. L’analisi settoriale conferma come la dinamica della produttività sia stata negativa in tutti i settori, eccetto l’agricoltura e peggiore proprio in quelli che sono cresciuti maggiormente, dunque non solo nelle costruzioni, ma anche nelle attività finanziarie e nei servizi alle imprese, tradizionalmente labour intensive».
Perchè le imprese italiane si siano dedicate ad aggiungere lavoratori, perdendo produttività, proprio in un periodo in cui il paese crescevano pochissimo, è l’interrogativo di fondo al quale l’Istat cerca di rispondere. Se non si capiscono i motivi di tale comportamento anomalo in confronto a quanto accade in Europa, specialmente nelle economie di dimensioni e reddito simili a quelli italiani, non si può impostare una politica economica efficace, da cui risultino aumenti di crescita e produttività. Se non per il paese, almeno per le imprese, la strategia finora seguita è stata pagante. I profitti e quindi la redditività del capitale investito, sono stati in questi anni soddisfacenti. Malgrado lo shock della concorrenza asiatica e centreuropea, le esportazioni italiane hanno perso quota più in volume che in valore. La quota italiana di commercio mondiale ha resistito meglio di quella degli altri importanti paesi europei, a eccezione della Germania. Molti esportatori sono riusciti a spostarsi su prodotti di maggior valore unitario.
Guardando dentro l’intero universo delle imprese, l’Istat scopre che l’industria in senso stretto, nel periodo 19992005, ha perso il 7% delle imprese e il 4% dei lavoratori, mentre gli altri settori registrano aumenti significativi di addetti e imprese. Nelle costruzioni le imprese sono cresciute del 19% e gli addetti del 28% nel periodo ricordato, e nei servizi alle imprese le unità imprenditoriali sono cresciute del 37% e gli addetti di un clamoroso 48%. In questo particolare settore , ben 848.000 lavoratori sono stati aggiunti a quelli esistenti, la metà del totale degli addetti aggiunti a tutte le attività economiche nel periodo.
Nel periodo l’intera Europa a 25 ha aggiunto circa sei milioni di lavoratori, e il nostro paese da solo ne ha aggiunti 1,7 milioni, quasi un terzo. Ma le cifre più significative sono quelle dell’industria in senso stretto. Nell’Europa dei 25 si sono in questi anni persi quasi quattro milioni di posti di lavoro industriale, mentre in Italia se ne cancellavano meno di 20mila. E ciò accadeva mentre la crescita dei venticinque paesi era robusta mentre l’Italia restava al palo. Dal confronto che istituisce l’Istat, apprendiamo che le dimensioni medie delle imprese, per quanto riguarda gli addetti, restano in Italia assai più piccole di quelle della media dei 25 europei. Nel settore industriale la dimensione media europea è di 15,5 addetti per impresa, quella italiana di nove. Le dimensioni medie delle industrie restano in Italia metà di quelle dell’Europa. Anche nei settori più dinamici, in Italia gli addetti aumentano ma le imprese sono sempre grandi la metà di quelle europee. Abbiamo percentualmente più microimprese nell’industria di tutti gli altri tranne Grecia e Cipro. La grande impresa brilla da noi per la sua rarità sia nell’industria che nei servizi. Al di sopra dei 250 addetti, in Italia si contano poco più di tremila imprese, con il 20% degli addetti totali. In confronto a Francia, Germania o Gran Bretagna, è evidente l’anomalia. Però dal 1957 abbiamo legato i nostri destini all’Europa ricca, e fino a circa quindici anni fa, Pil e reddito pro capite sono aumentati in Italia come e più che in quei paesi. Poi abbiamo cominciato a perdere terreno verso di loro, ma anche verso i nuovi europei, la Spagna l’Irlanda, la Finlandia, la Slovacchia, la Polonia.
Sin dai primi anni dell’Italia unita, se si cerca un capro espiatorio per qualche evento negativo, si punta il dito contro il settore pubblico. Questo è diventato ancor più vero da quando abbiamo cominciato a perdere terreno nei confronti dell’Europa. Che il settore pubblico, come produttore e gestore di infrastrutture, e di servizi importanti, sia poco efficiente, è cosa nota: è opportuno che il governo lo metta al centro delle premure riformatrici. Ma anche la struttura produttiva mostra nei confronti di quelle dei nostri vicini peculiarità che ne pregiudicano la crescita. Al centro della struttura produttiva c’è un cuore di imprese di media grandezza efficienti nel produrre ed esportare. Ma sono poche, occupano una parte troppo piccola di lavoratori per riuscire a portarsi dietro il resto del sistema produttivo e sono concentrate in settori a limitata tecnologia. Attorno ad esse persiste e cresce, specie nei servizi, una pletora di microimprese a bassa produttività, che possono solo pagare salari bassi e richiedere lavoratori a bassa qualifica. Sono esse a produrre occupazione, più delle grandi imprese che ne vanno perdendo e delle medie che non hanno massa critica per spostare le statistiche.
Che può fare un governo che abbia a cuore lo sviluppo ma anche le promesse elettorali? Può ridurre, come fa il nostro, la tassazione sugli straordinari, che aumenta i redditi netti per i lavoratori, e se alcuni facili trucchi vengono applicati può ridurre i costi per le stesse imprese. Ma non distingue tra imprese efficienti e dinamiche e imprese che fanno profitti e creano occupazione dequalificata e a bassi salari, ma non aggiungono quantità o qualità alla crescita. Il governo può poi abolire l’Ici per mettere un po’ di soldi in mano alla borghesia, sperando che li spenda in prodotti fabbricati in Italia. Ma se ai comuni non vengono rimborsati i proventi dell’Ici, la domanda di beni e servizi da parte loro e dei loro dipendenti dimi<n>nuisce, e l’effetto netto può esse<n>re nullo. Da queste misure che <n>sono le uniche finora annunciate <n>nessun incentivo può venire al si<n>stema delle imprese, perchè co<n>minci a liberarsi dalle sue ano<n>malie, che permettono di mante<n>nere i profitti, di aumentare l’oc<n>cupazione a basso salario, ma <n>non di qualificare la crescita del<n>l’economia italiana rendendola <n>più omogenea con quella del re<n>sto d’Europa. Nulla abbiamo <n>sentito per quel che riguarda i <n>fondi per la ricerca e per l’istru<n>zione, due tra le anomalie italia<n>ne più eclatanti. Nè alcuna poli<n>tica ci è stata annunciata per il <n>Mezzogiorno, l’ area di massima <n>criticità del paese.