IN OGNI ATTIVITA' LA PASSIONE TOGLIE GRAN PARTE DELLA DIFFICOLTA'

Ahi ahi ahi


Esiste un centrodestra?

Verrebbe da dubitarne: divisi

per collocazione (dentro o fuori il governo?),
per strategia,
per approccio,
per sensibilità verso il lockdown,

i partiti della coalizione che non sembra esserci si trovano d’accordo, ma neanche del tutto,
solo sulle battaglie di retroguardia come la reazione al ddl Zan che serve al Pd per creare “la nuova egemonia”.

Dal lato propositivo non ci siamo proprio o meglio non ci sono:
dove stanno gli accordi, i candidati a sindaco per le massime città del Paese?


Questo centrodestra che forse c’è ma non è detto,
incassa più che altro rifiuti e nemmeno troppo cortesi:

Albertini a Milano l’ultimo, mentre Bertolaso su Roma sta lì ma con l’aria del cireneo pronto a buttare la croce.

Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia sembrano andare più che altro alla cieca, pur che qualcuno si trovi,
ma senza convinzione, senza la necessaria determinazione a prendersi queste città da tempo sgovernate dalla sinistra.

A Roma si può capire, fino a un certo punto:
rimettere ordine nella palude capitolina, specie dopo il mandato della Raggi, è impresa da non augurare al peggior nemico.

Poi, si sa, a Roma da sempre comandano tutti tranne il sindaco, puramente ornamentale,
tenuto ad osservare tutti i diktat dei centri di potere che gli stanno intorno,
da quelli legali o paralegali a quelli malavitosi e mafiosi, fino agli altri coperti e irriferibili.

Sì, volendo si può anche capire, ma uno schieramento che non ha il coraggio di battersi per la Capitale, che schieramento è?


Discorso diverso per Milano, che resta, bongré malgré, una piazza simbolo
e quello che rimane del dinamismo industriale e produttivo, delle immani colonne di granito
che secondo Bocca rappresentavano il potere vero, quello dei soldi e “Milano che banche, che cambi” per dirla con Lucio Dalla.

Non è solo questo ovviamente, c’è tutta la filiera imprenditoriale e dei servizi di cui prendersi carico,
in una metropoli abbruttita, invasa e con enormi problemi di corruzione e ritardi,
di infiltrazioni e disservizi ma che comunque sia conserva un residuo orgoglio municipale,
non smette mai di reinventarsi e ha bisogno di una guida sicura, affidabile.

Senonché in Lombardia i passi falsi, le delusioni non sono mancate in questi anni e soprattutto nell’ultimo, allucinante, di pandemia.
 
Una nuova mina comunitaria rischia di compromettere il vino,
principale voce dell'export agroalimentare nazionale che vale oltre 11 miliardi di euro.

Togliere l'alcol e aggiungere acqua anche nelle denominazione di origine,

è l'ultima trovata di Bruxelles per il settore enologico già sotto attacco

con la proposta di introdurre etichette allarmistiche per scoraggiarne il consumo
,

previste nel "Piano d'azione per migliorare la salute dei cittadini europei".


A lanciare l'allarme è Coldiretti, che ha reso noto i contenuti del documento della Presidenza del consiglio dei ministri Ue,
in cui viene affrontata la pratica della dealcolazione parziale e totale dei vini.

La proposta prevede di autorizzare nell'ambito delle pratiche enologiche

l'eliminazione totale o parziale dell'alcol con la possibilità di aggiungere acqua.



Una tegola che arriva in un momento difficile per il settore per sconta un crollo del 20% del consumi all'estero nel 2021.

"E' un mega inganno legalizzato per i consumatori che si ritrovano a pagare l'acqua come il vino - denuncia la Coldiretti -
un prodotto nel quale vengono compromesse le caratteristiche di naturalità
per effetto di un trattamento invasivo che interviene nel processo di trasformazione dell'uva".


L'introduzione della dealcolazione parziale e totale come nuove pratiche enologiche, secondo il presidente Ettore Prandini,
"rappresenta un precedente pericolosissimo che metterebbe a rischio l'identità del vino italiano e europeo,
anche perché la definizione naturale e legale del vino vigente in Europa prevede il divieto di aggiungere acqua".


Tutto questo si inserisce in un contesto comunitario preoccupante per il settore, spiega Coldiretti,
con la Commissione Ue che potrebbe eliminare addirittura il vino dai programmi di promozione
dei prodotti agroalimentari magari proprio per favorire le nuove bevande annacquate.


La proposta di annacquamento va ad aggiungersi ad altre insidie da parte di Bruxelles,

che ha già legalizzato l'aggiunta dello zucchero nei paesi del Nord Europa per aumentare la gradazione del vino;


questo, nonostante lo zuccheraggio sia sempre stato vietato nei paesi del Mediterraneo,

con l'Italia che ha combattuto contro un 'trucco di cantina'

e per affermare la definizione di vino "quale prodotto interamente ottenuto dall'uva".


Ma l'Ue ha dato anche il via libera anche al vino 'senza uva',

ovvero ottenuto dalla fermentazione di frutta, dai lamponi al ribes,

pratica enologica che, spiega la Coldiretti, altera la natura stessa enologica

che per tradizione è solo quello interamente ottenuto dall'uva.
 
In questa eterna emergenza sanitaria, tra le tante costose idiozie,
in termini di risorse umane e materiali, spicca quella del tracciamento.


Ossia la ricerca a casaccio, per mezzo di centinaia di migliaia di tamponi quotidiani,
dei soggetti positivi al Sars-Cov-2, con l’intento di togliere dalla circolazione il medesimo virus.


Si tratta di un tentativo insensato, dal momento che oramai il coronavirus è divenuto endemico,
essendosi saldamente installato anche nella nostra società.



Tutto questo anche in considerazione di alcuni studi e rapporti scientifici, i quali dimostrerebbero tale assunto.

Già alla fine dell’estate scorsa, infatti, l’Organizzazione mondiale della sanità
valutava che almeno il 10 per cento della popolazione del Pianeta era venuta in contatto con il virus;
mentre alcuni studi sulle acque reflue di alcune città lombarde accreditavano la tesi secondo cui
il medesimo virus circolasse in Italia già nell’autunno del 2019.


Risulta pertanto evidente la costosissima inutilità di continuare a combattere la “battaglia” del tracciamento.


Occorrerebbe invece concentrare le nostre energie e risorse nella cura dei malati

e nella protezione delle persone deboli, lasciando che nei mesi caldi,

in cui questo virus respiratorio non causa patologie gravi,

il Sars-Cov-2 circoli liberamente tra la popolazione sana,

in modo da creare una barriera naturale alla sua diffusione.
 
Adiós Pablo Iglesias.

Il leader di Unidas Podemos annuncia il ritiro dalla politica
dopo la vittoria in Spagna dei Popolari alle elezioni amministrative per la Regione di Madrid.

Il candidato del partito di sinistra ed ex vicepremier fa i fagotti dopo il risultato deludente portato a casa:
tre i seggi recuperati nella tornata elettorale segnata da un’affluenza record nonostante l’emergenza Covid.


“Quando uno non è utile deve sapersi ritirare” ha commentato Iglesias, che ha aggiunto:

“Me ne vado”.

Il timone, a questo punto, dovrebbe passare a Yolanda Diaz,
che lo ha già sostituito come vicepremier e che è anche ministro del Lavoro.


Dati alla mano, ai Popolari di Isabel Diaz Ayuso per continuare a governare servirà il sostegno di Vox, partito di estrema destra.

Male la sinistra: Mas Madrid, compagine progressista in netta crescita, ha agguantato i socialisti ora immersi in una valle di lacrime.

Angel Gabilondo, candidato regionale, ha notato: “I risultati non sono buoni e non ce lo aspettavamo”.


Tracollo dei liberali di Ciudadanos, passati dal 19 per cento a meno del 4 per cento.

La presidente uscente Ayuso, ha guadagnato più del doppio dei seggi di due anni fa
e si è fermata a quattro dai 69 necessari per governare da sola, dovrà contare solo su Vox per la riconferma.


Formazione, quest’ultima, che ha migliorato il risultato passando da 12 a 13 seggi.
 
Nel Movimento Cinque Stelle c’è stato un terremoto dell’ottavo grado della scala Richter

ma i media ne hanno parlato poco perché non si può disturbare il manovratore (Mario Draghi)

con la richiesta, ancorché legittima, di un certificato di esistenza in vita

della creatura politica di Beppe Grillo e del defunto Gianroberto Casaleggio.



Il Paese vive un momento delicato.

Tutti gli sforzi sono diretti a chiudere la funesta stagione pandemica.

In vista di questo obiettivo c’è stata una generale chiamata alle armi
alla quale quasi tutti i partiti presenti in Parlamento hanno risposto affermativamente.

Anche il Cinque Stelle, che in termini di numeri parlamentari resta la prima forza politica presente sia alla Camera sia al Senato.

Di loro, quindi, c’è ancora bisogno anche se non si capisce più cosa siano.

E se siano, in quanto realtà politica in grado di sostenere un’offerta programmatica autonoma e compiuta.

A un certo punto della loro travagliata storia sembrava che un leader idoneo a rappresentare il Movimento
e a trascinarlo fuori dalla palude delle contraddizioni nella quale era precipitato vi fosse.

L’uomo del futuro pentastellato avrebbe dovuto essere Giuseppe Conte.

Ma lui, l’avvocato delle mezze misure, delle “interlocuzioni” che non portano da nessuna parte, continua a tentennare.

Insomma, lo è o non lo è il capo che Beppe Grillo avrebbe voluto calare dall’alto sulla testa di un popolo (grillino) sempre più inquieto e disilluso?

Vallo a sapere.


Si dirà: c’è l’Associazione Rousseau, con la sua piattaforma digitale,
a garantire l’ordinario funzionamento del cervello creativo del Movimento.

Sbagliato!

Da qualche mese tra Davide Casaleggio e i parlamentari del Cinque Stelle è guerra aperta.

Il pomo della discordia sarebbe il mancato pagamento, da parte di molti eletti grillini,
delle quote dovute a Rousseau per garantirne il funzionamento.

Ma si tratta di una verità di superficie.

Al fondo c’è la definitiva divaricazione tra la testa pensante – l’Associazione che fa capo a Casaleggio junior –
e il corpaccione del Movimento che presidia gli scranni istituzionali.


Mentre a Milano, dove ha sede operativa Rousseau, si combatte per difendere la “purezza” del progetto iniziale,
sostanzialmente derivato dalla visione della società e della democrazia diretta prefigurata da Gianroberto Casaleggio,
a Roma i portavoce della prima e della seconda ora della politica direttamente partecipata dai cittadini
e non intermediata dalla forma partito hanno scoperto quanto avesse visto lungo il compianto Giulio Andreotti
nel sentenziare che: il potere logora chi non ce l’ha.


E visto che loro, i grillini in doppiopetto, il potere l’hanno occupato, non hanno alcuna voglia di mollarlo per inseguire un’utopia.


Perciò, per restare a galla e sperare di sopravvivere a se stessi, i vari Luigi Di Maio, Roberto Fico
e il codazzo di fedelissimi a seguire hanno pensato bene di farsi concavi e convessi pur di mantenere la cadrega.


E il vincolo dei due mandati a cui attenersi in quanto principio costitutivo del Movimento?


Un arnese del vecchio armamentario propagandistico del Cinque Stelle della prima ora del quale disfarsi al più presto.


Casaleggio il giovane non l’ha presa bene.

Da qui, col pretesto del debito accumulato dai parlamentari grillini morosi,
ha interrotto il servizio offerto al Movimento tramite l’accesso alla piattaforma digitale,
come farebbe l’Enel con i cattivi pagatori.

Lo stop al collegamento ha come principale conseguenza l’interruzione del canale di dialogo
tra il vertice dell’organizzazione e la base degli iscritti.

Ne consegue che, al momento, il Cinque Stelle è un accrocco di capi, capetti e sottocapi che non ha una base di militanti alle spalle.

Condizione che non vanta significativi precedenti nella storia repubblicana.


Resta, o almeno restava, finora la figura indefinita di un improbabile reggente nella persona di Vito Crimi.

Un “mezzemaniche”, scelto per anzianità di servizio, a rappresentare il Movimento dopo le dimissioni dall’incarico di Luigi Di Maio,
l’unico a essere stato votato come leader dalla base degli iscritti della piattaforma Rousseau.

Era il 22 gennaio 2020 quando l’enfant prodige di Pomigliano d’Arco
si sfilò la cravatta donatagli da Gianroberto Casaleggio come gesto simbolico della sua detronizzazione.

L’allegoria: la cravatta come scettro per raccontare l’abdicazione di un leader.

La fine della stagione del capo assoluto si consumava con l’accoglimento da parte della base degli iscritti
della proposta di restaurare la funzione collegiale per la guida del Movimento.


Complice la pandemia e i troppi sussulti interni, i grillini hanno impiegato un anno
per definire la modifica dello Statuto che di fatto reimpiantava l’organo collegiale alla testa dell’organizzazione.

Il 17 febbraio 2021, con 9.499 Sì (79,5 per cento) contro 2.448 No (20,5 per cento),
gli 11.947 partecipanti al voto sulla piattaforma Rousseau si pronunciavano a favore dell’eliminazione del capo politico unico
e della contestuale introduzione di un Comitato Direttivo composto da 5 membri, per la durata di 3 anni,
al cui interno sarebbe stato individuato il rappresentante legale del Movimento.


Nel frattempo, Vito Crimi il “grigio” restava lì, nel suo incarico, a guardia del bidone vuoto di benzina.


E da reggente provvisorio, il primo precario d’Italia, si è fatto le elezioni in sette regioni con risultati disastrosi,
la campagna del Conte bis e, in successione, quella per la composizione del Governo Draghi.


Nel mezzo, un filotto di nomine nelle partecipate di Stato e negli incarichi nella Pubblica amministrazione
che hanno consentito di estendere la rete d’influenza grillina.


Ma anche una vagonata di espulsioni di tutti coloro che si erano messi di traverso alla nascita del Governo Draghi.

Stando allo Statuto riformato si sarebbe dovuto procedere sollecitamente all’elezione dei cinque saggi del costituendo Comitato Direttivo.

Ma le trame interne e, soprattutto, la paura che la votazione degli iscritti si trasformasse in un plebiscito a favore dell’eretico Alessandro Di Battista
hanno rallentato le procedure elettorali interne per poi depistarle verso un binario morto.


Fino al momento in cui “l’elevato” Beppe Grillo ha deciso motu proprio di consacrare Giuseppe Conte come leader del nuovo corso grillino,
letteralmente fregandosene di come la base degli iscritti si fosse espressa riguardo all’eliminazione della figura dell’uomo-solo-al-comando.


Nell’attesa dell’incoronazione del nuovo sovrano Vito Crimi è rimasto al suo posto di reggente, immobile come un palo della luce.


Peccato però che dalla Corte di Appello del Tribunale Cagliari sia arrivata una bordata dritta alla chiglia della navicella grillina.

I giudici hanno dichiarato inammissibile il ricorso presentato da Vito Crimi
contro il decreto del presidente del locale Tribunale che aveva accolto l’istanza d’impugnazione del provvedimento d’espulsione dal Movimento
presentato dalla consigliera regionale grillina, Carla Cuccu.

Contestualmente, la Corte ha confermato la nomina di un curatore speciale per il Cinque Stelle, come stabilito dal giudice di prima istanza.

Per effetto della sentenza, la consigliera Cuccu è reintegrata nel Movimento.

La motivazione con la quale i giudici dell’Appello hanno dichiarato inammissibile il ricorso di Vito Crimi
ha riguardato il difetto di legittimazione del reggente a stare in giudizio in rappresentanza dell’Associazione Movimento Cinque Stelle.


Tutto ciò, tradotto in linguaggio corrente, significa che:
il Movimento non ha un rappresentante legale e quindi neanche un capo;


la pronuncia in Appello crea un precedente per tutti gli eventuali ricorsi che gli espulsi da Vito Crimi vorranno presentare;

il loro rientro, imposto per via giudiziaria, modificherà i rapporti di forza interni che hanno portato alla rottura con l’Associazione Rousseau;

i tempi per un sempre più improbabile arrivo di Giuseppe Conte alla guida del Movimento si allungano,
dovendo essere preventivamente modificato lo Statuto con la reintroduzione della figura del capo unico;

la modifica statutaria non si può fare fin quando Davide Casaleggio non ristabilisce il servizio della piattaforma digitale,
cioè fin quando non saranno saldati i debiti pregressi;

se pure si volesse risolvere in via formale il pasticcio decidendo di convertire la figura del leader
in quella statutariamente consentita di presidente del Comitato Direttivo,
Giuseppe Conte non potrebbe essere della partita perché per candidarsi a componente del Comitato Direttivo
bisogna essere un iscritto al MoVimento 5 Stelle almeno dalla data del 30 giugno 2020.


E lui non lo è.


Intanto, Vito Crimi è privato di ogni potere.


E il Cinque Stelle?

Rivolgersi a Silvio Demurtas, il curatore speciale del Movimento nominato dal Tribunale di Cagliari.


Tocca a lui adesso decidere le sorti del Paese essendo l’unico legittimato a parlare in nome e per conto del primo partito italiano.


Se non è follia questa.
 
Ma dai...........



Riaprire tutto e togliere il coprifuoco.

L’Italia non può aspettare ancora a lungo, pena l’aggravarsi di una crisi economica oramai insostenibile per milioni di lavoratori.

E non ci sono più scuse, visto che dalla prossima settimanaquasi tutte le regioni saranno in zona gialla.

Nonostante questo il governo continua a fischiettare, tergiversando in modo alquanto imbarazzante.

Eppure anche il “rigorista” Luigi Di Maio inizia a capire l’urgenza delle riaperture.


Il ministro degli Esteri ha così buttato là un possibile giorno: il 16 maggio.

Credo che sia una data auspicabile per superare il coprifuoco”,
dice Di Maio intervenendo a L’Aria che tira su La7.

Ma “non è un liberi tutti”, precisa poi l’ex capo politico del M5S.

Ma cosa intende Di Maio per superamento del coprifuoco?

Il 16 maggio verrà tolto o semplicemente attenuato alle 23 (o al limite a mezzanotte) come fatto intendere da Marcucci?

L’esponente grillino non chiarisce, si limita a dire che è necessario fare in modo
di superare il coprifuoco per “come lo conosciamo e non rientrarci pochi mesi dopo”.

E “non vale solo per l’Italia questa situazione”, perché “tutti vogliamo uscire da quest’incubo”.


Quando si dice scoprire l’acqua calda.


Nel frattempo però non solo il centrodestra incalza per rimuovere il coprifuoco.

Prova ne è la spaccatura in seno alle forze della maggioranza di governo.


“Per me il coprifuoco non ci deve più essere.
Va tolto, perché non serve più, ci sono ogni giorno 500mila vaccinati.
Per me va tolto del tutto”, dice Matteo Renzi a Dritto e Rovescio su Rete 4
.


Mentre Andrea Marcucci, senatore ed ex capogruppo Pd al Senato, non vuol cedere alle pressioni.

“Vedo che i dati sono incoraggianti, mi aspetto una attenuazione del coprifuoco, alle 23 o a mezzanotte.
Salvini deve dimenticarsi per un minuto almeno di Giorgia Meloni. Per metà maggio, mi auguro siano possibili nuove riaperture”.


Auspici, speranza, parziali aperture.


Un teatrino che francamente ha stufato tutti.


Ora serve semplicemente ammettere che mantenere il coprifuoco non è giustificabile.
 
il Divin Codino, parla di sé, del proprio passato e del proprio presente e, ovviamente di calcio in una recente intervista.

Tra la malinconia degli stadi senza pubblico e una “frecciatina” ai colleghi divenuti commentatori,
l’ex nazionale offre come sempre uno spunto inedito sullo sport.


“Il calcio senza pubblico è tristissimo, mi fa piangere” dice intervistato per Il Venerdì di Repubblica.

“Non guardo le partite, non mi divertono quasi mai.
Mi dette disagio dare giudizi sugli altri, non vado in tv.
Vedo colleghi che sentenziano da professori,
ma me li ricordo incapaci di fare tre palleggi con le mani”.


Questa frase, nello specifico, ha gettato i social nella totale confusione:
per molti, infatti, il riferimento sarebbe a Lele Adani che dall’emergere delle dichiarazioni
è pure entrato – suo malgrado – nei trend topic di Twitter.


“In questo calcio sarei più competitivo perché gli attaccanti sono più protetti” dice ancora Baggio

“Quelli che senza pallone si sentono appagati e felici, sono dei falliti?
Lasciare il calcio mi ha ridato vita e ossigeno. Stavo soffocando, troppo dolore fisico“.


Il Divin Codino è felice della sua vita e sembra avere una grande saggezza:

“Faccio la cosa più bella, sono a contatto con la natura.
Spacco la legna, uso il trattore e la sera sono così stanco che mi gira la testa.
Totti non voleva smettere, io non vedevo l’ora. Ibrahimovic è della stessa pasta di Francesco”.

Poi Roby Baggio parla dell’amarezza lasciatagli dalla morte di Paolo Rossi:
“La sua morte è stata ingiusta, si era rifatto una vita anche lui e meritava di avere più tempo.
Se da Maradona ti aspettavi una fine improvvisa, da lui no”.


Poi, il solito rimpianto
: “Ancora non mi perdono il rigore sbagliato nella finale del Mondiale di Usa ’94 contro il Brasile.
Non c’è religione che tenga, quel giorno avrei potuto uccidermi e non avrei sentito niente”.


Dopo i colleghi commentatori, l’ex Juve e Brescia si toglie qualche sassolino dalla scarpa con gli allenatori (non tutti):

“Arrigo Sacchi non mi portò agli Europei del 1996 per dimostrare che gli schemi sono più importanti dei giocatori: non è arrivato ai quarti di finale…
Non ce l’ho con gli allenatori, ma l’unico con cui mi sono trovato bene è Carletto Mazzone:
un uomo libero e realizzato che non si metteva in competizione con i calciatori”.
 
Un principio fondamentale del diritto,
ormai abbandonato nell’epoca dell’irrefrenabile positivismo giuridico indotto dall’onnipotenza parlamentare,
alle mie orecchie antiquate suona così:


“Se non è indispensabile, è una cattiva legge”.

Non basta l’utilità a fare una buona legge, infatti, sebbene l’utilità generale sia alla base del vero diritto.

La “legge Zan” costituisce di per sé un modello esemplare di violazione di quel principio
che mi sta tanto a cuore da desiderarne la sanzione costituzionale
e l’iscrizione nell’aula della Camera e del Senato alle spalle della presidenza,
monito visibile a tutti i parlamentari.


Cosa pretende la legge che darà a Zan e al Parlamento la fama che meritano?

La “legge Zan” persegue l’impossibile mediante l’inutile.

Affida alla legislazione e alla repressione quello che appartiene all’educazione.



Più di due secoli fa, Jean-Louis de Lolme scrisse che
“il Parlamento può far tutto fuorché mutare un uomo in donna e viceversa”.

Oggigiorno abbiamo capito che quello studioso, estimatore del governo costituzionale britannico, sbagliava per difetto.

Molti Parlamenti del mondo, ma non di tutto il mondo, stanno riuscendo dove de Lolme giudicava impossibile.


L’esempio paradigmatico dell’articolo 1 della legge che ribolle nelle Camere italiane dimostra che, anzi,
il nostro legislatore è ancora più avanti sulla strada del progresso.

Finora le leggi della Repubblica davano per scontato il sesso.

La natura lo determinava.


Le leggi vi facevano derivare le conseguenze previste, compreso il cambio di sesso conseguito dagli interessati.


Da adesso in poi, come desiderano i benintenzionati propugnatori della norma,

non sarà la biologia a stabilire il sesso, per quanto mutevole, bensì la mera volontà dichiarata dell’interessato,

pur essa mutevole, ma ad nutum, senza parametri al di fuori del mero desiderio del dichiarante.


L’articolo 1 sarebbe involontariamente ironico, se non fosse folle.



Una legge che dice quel che vi è scritto sembra uscita da una mente orwelliana.

Io chiedo ai lettori di riflettervi leggendo l’articolo 1, dove per la prima volta nella storia
un Parlamento, non un poeta o un letterato, ardisce di definire l’amore, una passione indefinibile di per sé.


“L’attrazione sessuale o affettiva nei confronti di persone di sesso opposto, dello stesso sesso,
o di entrambi i sessi” deve intendersi “orientamento sessuale”.


L’amore eterosessuale ed omosessuale degradato a “orientamento sessuale”.


Hanno copiato da qualche vocabolario la definizione.


Per “sesso” s’intende… per “genere” s’intende… per “orientamento sessuale” s’intende… per “identità di g
enere” s’intende, eccetera eccetera.


I sostenitori della “legge Zan” affermano che serve a proteggere gli appartenenti a quelle categorie
dallo scherno e dalla denigrazione che potrebbero trasmodare nell’istigazione a commettere reati a loro danno.

In questo essa costituisce un modello esemplare altresì del “dirittismo”.

Cos’è il “dirittismo”?

“Ogni pretesto che giustifica la pretesa di un diritto”.


Solo il “dirittismo”, un’aberrazione del diritto, riesce a conferire a gruppi d’individui, senza ragione sufficiente,
una protezione speciale che risulta semplicemente illegittima alla luce dell’uguaglianza legale, la base della democrazia liberale.



Non basta.

L’articolo 4 non è meno aberrante.

Ecco il testo:

“Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni
nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte,
purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”
.


Questo articolo è, all’evidenza, incostituzionale per diversi motivi.


L’articolo 21 della Costituzione, definito dalla Consulta “pietra angolare dell’ordine democratico”,

viene “riscritto” dall’articolo 4 della “legge Zan” per modo che,

con un’acrobatica inversione della gerarchia delle fonti,

quando ci sono di mezzo persone di quelle categorie “protette”,

sarà la Costituzione ad essere interpretata in conformità della legge anziché viceversa.


I reati aggravati o istituiti dalla “legge Zan” sono già previsti da altre leggi.



Sono i magistrati, non il Parlamento
(a meno che non introduca chiaro e tondo l’espresso divieto di nominare invano il semplice nome delle persone “protette”)
a dover giudicare le fattispecie concrete, cioè le caratteristiche soggettive ed oggettive delle condotte incriminate,
nelle quali la libertà di manifestazione del pensiero possa integrare, in quel caso specifico, la fattispecie astratta del reato già previsto.


È stupefacente che una proposta di legge, esaminata dalla commissione giustizia,

con il parere della commissione Affari costituzionali,

rivista magari dal comitato per la legislazione,

possa contenere una norma liberticida, pericolosa, incostituzionale come l’articolo 4.



Se anche il Senato dovesse adottare il monstrum della Camera,
il costituzionalista Sergio Mattarella, presidente della Repubblica, dovrebbe rinviare la legge alle Camere,
almeno per scuoterle dalla torpida mentalità che affligge i corrivi adoratori dell’idolum fori.
 

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