L'arte è pura convenzione?

Ovviamente hai colto il senso della mia provocazione.
Però noto in te una nota amara, di rimpianto o di amarezza, perchè in fondo l'idea che oggi l'arte sia ritenuta solo una convenzione è forte e vera, al punto che presagisci una fine con botto tellurico o bellico. La tua sembra (in realtà è) una valutazione sul termine di un processo iniziato dalle novità del 900.
E' qui la domanda si fa ancora più forte. Le novità guidano le avanguardie, e le novità sono causa della dissipazione di una serie di valori nati attorno all'estetica.
Questo, è noto che sia una mia ipotesi forte, è dovuto alle acquisite capacità di riproduzione del reale che prima mancavano e che hanno generato nel pensiero filosofico (e nella cultura) uno spostamento dello stesso valore e senso della realtà percepita. Da questo sono scaturite nuove avanguardie e le nuove forme espressive. Qui forse torniamo alla riflessione di qualche tempo fa su quali limiti sono stati oltrepassati e quali andrebbero mantenuti.
Manca oggi forse proprio la consapevolezza che superate certe barriere non solo si distrugge solo una certa idea di arte ma si arriva a distruggere tutto il senso di fare arte?

Forse le cose sono semplici.
Il mercato dell'arte è naturalmente una convenzione. Si tratta di fissare un prezzo, tra quelle che potremmo chiamare domanda ed offerta: serve un accordo (vabbè, poi qualcuno cerca di ottenere una posizione dominante pur nella situazione di trattativa). Fin che restiamo all'oggetto, parliamo di artigianato, dove il valore è dato da materiale+lavoro (+ un sovrappiù se il lavoro è fatto proprio bene). Nel caso dell'arte c'è un valore attribuito che va ben al di là del costo materiale. Questo plus-valore artistico è il "tormento del collezionista"
Il punto è la definizione, il riconoscimento di questo plus di valore. Tante volte abbiamo voluto distinguere valore da prezzo, dove prezzo riguarda il denaro, valore quel plus appena detto.
Poi è logico che in una società dove si parte dal prezzo per stabilire che c'è un valore (quanti studi specialistici di medicina non esagerano nei costi per convincere di essere di grande qualità? O quanti umili medici del quotidiano peraltro non operano gratis o quasi a livello eccelso?) anche nell'arte l'ignorante guardi prima di tutto al prezzo cercandovi riferimenti al valore che egli non è in grado di comprendere.
Ma le due cose oggi viaggiano abbastanza indipendentemente, e questo è il dramma del collezionista.
Pertanto non è l'arte ad essere ritenuta una convenzione, ma il prezzo, se il plus-valore artistico non corrisponde, o non c'è. Il botto tellurico riguarda solo ciò.
Un tempo l'arte aveva un valore comunque "sacrale", generalmente riconosciuto, oggi prevale il diritto del denaro, e un direttore di museo che vi si ribelli rischia grosso.

Capisco dunque le "ansie" di Cris, ma non le condivido granché: come molti, ho speso rischiando anche somme importanti per opere (non parlo di grafica) di cui vorrei che conservassero o aumentassero il valore. Per molte ciò non è avvenuto, ma io sto bene lo stesso: le ho prese per me, per il lato artistico, sapendo che ero entrato in un ambito di convenzioni economiche, nel quale l'opera poteva avere un destino diverso dall'ottimale sperato.
Perché le forze telluriche dell'economia sono ben più incontrollabili che quelle spirituali del prodotto artistico.
 
Scusate se la butto terra terra, ma ritengo che un buon collezionista debba cercare il giusto mix tra "convenzioni economiche" e "piacere spirituale".

Se poi le due cose viaggiano insieme allora "il portafoglio" può dirsi "bilanciato".

Spendere cifre considerevoli fuori da quelle convenzioni solo per soddisfare lo spirito, pur nella consapevolezza di un valore accertato, e' un privilegio che oggi hanno in pochi.

E poi mi sorge un dubbio: chi definisce oggi quel valore? Baleng, Cris70, Argan, Sgarbi, Leo Castelli, pinco pallo?

E quale peculiarità delinea la presenza o assenza di valore in un'opera d'arte se l'estetica e' superata?

Insomma, a prescindere dalle conoscenze più o meno approfondite di ognuno di noi, penso che non vi sia altra strada che entrare in quel mondo di convenzioni fatte da musei, critica, mercato, ecc, e poi provare a districarsi tra mille insidie.
 
Forse le cose sono semplici.
Il mercato dell'arte è naturalmente una convenzione. Si tratta di fissare un prezzo, tra quelle che potremmo chiamare domanda ed offerta: serve un accordo (vabbè, poi qualcuno cerca di ottenere una posizione dominante pur nella situazione di trattativa). Fin che restiamo all'oggetto, parliamo di artigianato, dove il valore è dato da materiale+lavoro (+ un sovrappiù se il lavoro è fatto proprio bene). Nel caso dell'arte c'è un valore attribuito che va ben al di là del costo materiale. Questo plus-valore artistico è il "tormento del collezionista"
Il punto è la definizione, il riconoscimento di questo plus di valore. Tante volte abbiamo voluto distinguere valore da prezzo, dove prezzo riguarda il denaro, valore quel plus appena detto.
Poi è logico che in una società dove si parte dal prezzo per stabilire che c'è un valore (quanti studi specialistici di medicina non esagerano nei costi per convincere di essere di grande qualità? O quanti umili medici del quotidiano peraltro non operano gratis o quasi a livello eccelso?) anche nell'arte l'ignorante guardi prima di tutto al prezzo cercandovi riferimenti al valore che egli non è in grado di comprendere.
Ma le due cose oggi viaggiano abbastanza indipendentemente, e questo è il dramma del collezionista.
Pertanto non è l'arte ad essere ritenuta una convenzione, ma il prezzo, se il plus-valore artistico non corrisponde, o non c'è. Il botto tellurico riguarda solo ciò.
Un tempo l'arte aveva un valore comunque "sacrale", generalmente riconosciuto, oggi prevale il diritto del denaro, e un direttore di museo che vi si ribelli rischia grosso.

Capisco dunque le "ansie" di Cris, ma non le condivido granché: come molti, ho speso rischiando anche somme importanti per opere (non parlo di grafica) di cui vorrei che conservassero o aumentassero il valore. Per molte ciò non è avvenuto, ma io sto bene lo stesso: le ho prese per me, per il lato artistico, sapendo che ero entrato in un ambito di convenzioni economiche, nel quale l'opera poteva avere un destino diverso dall'ottimale sperato.
Perché le forze telluriche dell'economia sono ben più incontrollabili che quelle spirituali del prodotto artistico.

Prima una premessa, per me "espressione artistica" ha un valore più ampio ed inclusivo rispetto a "linguaggio" che corrisponde ad un codice, quello sì anche ad una convenzione, uno strumento/mezzo per comunjcare mentre espressione artistica sottintende anche un'idea ed un'intenzione/volontà dell'autore.

Le frasi di Gino che ho sottolineato sono la perfetta sintesi di quello che volevo esprimere con il mio post.

Sul tema collezionismo-mercato non vedo contraddizioni e le finalità arte-spirito ed arte-investimento possono tranquillamente coesistere, anzi nella maggioranza dei casi credo si tenti di conciliare entrambi gli aspetti.
La mia non rappresenta quindi una visione romantica che prescinde dalle logiche di mercato, ma un sano buon senso che invita a non dare un peso eccessivo al mercato stesso o al parere dei critici, proprio perchè il loro intervento serve a condizionare le ns. scelte prescindedo spesso da elementi più oggettivi (es. direzione di ricerca, curriculum espositivo, storicizzazione) per l'attribuzione del valore. In quel caso davvero l'arte è "convenzione", perchè costruita su un accordo che porta vantaggio alle diverse parti in causa, basato su un metro di giudizio condiviso costituito sostanzialmente dal prezzo
 
Scusate se la butto terra terra, ma ritengo che un buon collezionista debba cercare il giusto mix tra "convenzioni economiche" e "piacere spirituale".

Se poi le due cose viaggiano insieme allora "il portafoglio" può dirsi "bilanciato".

Spendere cifre considerevoli fuori da quelle convenzioni solo per soddisfare lo spirito, pur nella consapevolezza di un valore accertato, e' un privilegio che oggi hanno in pochi.

E poi mi sorge un dubbio: chi definisce oggi quel valore? Baleng, Cris70, Argan, Sgarbi, Leo Castelli, pinco pallo?

E quale peculiarità delinea la presenza o assenza di valore in un'opera d'arte se l'estetica e' superata?

Insomma, a prescindere dalle conoscenze più o meno approfondite di ognuno di noi, penso che non vi sia altra strada che entrare in quel mondo di convenzioni fatte da musei, critica, mercato, ecc, e poi provare a districarsi tra mille insidie.

<Cut>

Sul tema collezionismo-mercato non vedo contraddizioni e le finalità arte-spirito ed arte-investimento possono tranquillamente coesistere, anzi nella maggioranza dei casi credo si tenti di conciliare entrambi gli aspetti.
La mia non rappresenta quindi una visione romantica che prescinde dalle logiche di mercato, ma un sano buon senso che invita a non dare un peso eccessivo al mercato stesso o al parere dei critici, proprio perchè il loro intervento serve a condizionare le ns. scelte prescindedo spesso da elementi più oggettivi (es. direzione di ricerca, curriculum espositivo, storicizzazione) per l'attribuzione del valore. In quel caso davvero l'arte è "convenzione", perchè costruita su un accordo che porta vantaggio alle diverse parti in causa, basato su un metro di giudizio condiviso costituito sostanzialmente dal prezzo
Credo che questa sia la posizione standard del collezionista consapevole. Questa posizione è frutto di logiche di equilibrio, di misurata valutazione di fattori sociali condivisi, di una capacità razioncinante di volontà di abbattimento del rischio a fronte di un investimento non solo umano ma economico.
Questa posizione è soggetta al rischio di venire eterodiretti ma la capacità critica del collezionista consapevole usa criteri quali il 'decalogo' del collezionista condiviso e discusso sull'altro forum.
In questa ottica e riflettendo sul ROI del mercato dell'arte potremmo avvicinare il mercato artistico al mercato editoriale, o a quello della cinematografia, dove gli operatori producono cento opere con la consapevolezza che solo il 10% di quelle opere diventerà profittevole ma questi profitti saranno così elevati che ripagheranno dell'investimento complessivo. In realtà nel mercato dell'arte questo atteggiamento non viene perseguito da nessun operatore ne da nessun collezionista consapevole, questo è un danno per tutto l'ambiente e per questo danno gli artisti sono una categoria in estinzione.
Però in fondo a questo mercato l'artista non serve, serve l'oggetto-merce da introdurre nel meccanismo e alimentare il sistema.

Rispondo alle due domande di Cris, prima a quella su quale peculiarità delinea la presenza o assenza di valore e poi su chi definisce quel valore.

Faccio una breve premessa, vi ricordate di quando non sapevate leggere? Di quella fase della vostra vita nella quale vi mostravano dei segni e questi erano per voi incomprensibili? Oggi probabilmente avete la stessa relazione con il segno del linguaggio arabo, o di quello cinese oppure di quello ebraico.
Beh, rispetto alla nostra forma condivisa di comunicazione verbale avete assunto una consapevolezza, un valore, dal quale non potete tornare indietro.
Avete capitalizzato una conoscenza (in questo caso razionale) di come si usano certi segni e di cosa rappresentano per un gruppo molto vasto di esseri umani.
Questa capitalizzazione è irreversibile. Questa capitalizzazione non riguarda solo voi, riguarda l'intero gruppo culturale che con voi ha condiviso questa 'convenzione' di linguaggio. L'evoluzione della società è fortemente legata all'accumulo di queste capitalizzazioni, la società odierna ha acquisito conoscenze che l'hanno trasformata radicalmente e irreversibilimente rispetto al passato. Che c'entra questo con la presenza o assenza di valore nell'arte? Beh l'arte fa parte di quelle conoscenze culturali che portano ad avanzare ed evolvere la società, il valore è più alto dove più alto è il contributo alle conoscenze collettive. Sul chi definisce quel valore, in conseguenza di quanto detto, risponderei che non sono persone individuali bensì gruppi di persone coese attorno alla consapevolezza di valore di una singola ricerca artistica e attive nella divulgazione di uno specifico stile o linguaggio. Il linguaggio proposta da un'artista diventa arte solo quando e se viene riconosciuto da una massa critica in grado di riconoscere il valore aggiunto di quella specifica proposta espressiva.
 
Sono d'accordo ed apprezzo il paragone tra la conoscenza dei segni grafici della nostra scrittura con la conoscenza condivisa dei valori artistici. Se vogliamo migliorare il rapporto tra prezzo e valore dobbiamo augurarci una sempre maggiore conoscenza e cultura dell'arte da parte dei collezionisti.
 
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In questa ottica e riflettendo sul ROI del mercato dell'arte potremmo avvicinare il mercato artistico al mercato editoriale, o a quello della cinematografia, dove gli operatori producono cento opere con la consapevolezza che solo il 10% di quelle opere diventerà profittevole ma questi profitti saranno così elevati che ripagheranno dell'investimento complessivo. In realtà nel mercato dell'arte questo atteggiamento non viene perseguito da nessun operatore ne da nessun collezionista consapevole, questo è un danno per tutto l'ambiente e per questo danno gli artisti sono una categoria in estinzione.
Però in fondo a questo mercato l'artista non serve, serve l'oggetto-merce da introdurre nel meccanismo e alimentare il sistema.
Direi di no, ogni collezionista sa che molte delle opere scelte non terranno il prezzo (semmai è il possessore di una o due opere "di famiglia" che si illude sul valore o sul prezzo di quei due pezzi). Ancor più cosciente ne è il mercante, se non si è bendato gli occhi e la coscienza (o se non fa televendite). Nemmeno sono d'accordo sul fatto che l'artista non serve, direi che quello che non serve è ... l'arte, cioè la qualità. L'artista è l'etichetta che, applicando i valori dell'individualità all'opera (valori, tra l'altro, di relativamente recente apprezzamento) permette di vendere a ben maggior prezzo di quanto non ci si sarebbe spinti a tirar fuori dal borsellino. Una porcheria di De Chirico viene sempre pagata 100 volte la porcheria anonima. E uno degli strumenti principe del mercatinista è proprio ricondurre il manufatto ad una individualità che gli dia lustro. Tanto è vero che c'è una caterva di materiale "vecchio" che non è riuscito a diventare "antico" in quanto l'autore non rileva: tra l'altro, poi, su un autore di cento anni fa è assai difficile impostare le speranze speculative di un futuro radioso con cui il gallerista avvolge di ottimistici fumi il quadretto della giovine speranza che vi sta bassamente rifilando. Per non dire dei milioni di orinatoi anonimi, cioè non firmati "Mutt" che i galleristi non vedono l'ora di valorizzare ... :prr:


Rispondo alle due domande di Cris, prima a quella su quale peculiarità delinea la presenza o assenza di valore e poi su chi definisce quel valore.

Faccio una breve premessa, vi ricordate di quando non sapevate leggere? Di quella fase della vostra vita nella quale vi mostravano dei segni e questi erano per voi incomprensibili? Oggi probabilmente avete la stessa relazione con il segno del linguaggio arabo, o di quello cinese oppure di quello ebraico.
Beh, rispetto alla nostra forma condivisa di comunicazione verbale avete assunto una consapevolezza, un valore, dal quale non potete tornare indietro.
Avete capitalizzato una conoscenza (in questo caso razionale) di come si usano certi segni e di cosa rappresentano per un gruppo molto vasto di esseri umani.
Questa capitalizzazione è irreversibile. Questa capitalizzazione non riguarda solo voi, riguarda l'intero gruppo culturale che con voi ha condiviso questa 'convenzione' di linguaggio. L'evoluzione della società è fortemente legata all'accumulo di queste capitalizzazioni, la società odierna ha acquisito conoscenze che l'hanno trasformata radicalmente e irreversibilimente rispetto al passato. Che c'entra questo con la presenza o assenza di valore nell'arte? Beh l'arte fa parte di quelle conoscenze culturali che portano ad avanzare ed evolvere la società, il valore è più alto dove più alto è il contributo alle conoscenze collettive. Sul chi definisce quel valore, in conseguenza di quanto detto, risponderei che non sono persone individuali bensì gruppi di persone coese attorno alla consapevolezza di valore di una singola ricerca artistica e attive nella divulgazione di uno specifico stile o linguaggio. Il linguaggio proposta da un'artista diventa arte solo quando e se viene riconosciuto da una massa critica in grado di riconoscere il valore aggiunto di quella specifica proposta espressiva.
Sono d'accordo con tutta la prima parte. Alla seconda trovo che manchi una considerazione sull'importanza del fattore tempo. E' innegabile che il tempo, magari non perfettamente, ma con una fallibilità assai bassa, chiarisca quali valori siano, diciamo, solidi, quali invece effimeri. Se Giotto ancora ci entusiasma significa che qualcosa in lui superava i limiti dell'apprezzamento "per gruppi". Ammiriamo Fidia, e persino i bassorilievi assiri (non nego che però a questo scopo occorra farsi anche una specifica cultura). Alcuni autori assai alla moda vengono dimenticati, altri clamorosamente recuperati. Piero della Francesca e Bach sono stati trascurati per decine o centinaia di anni.
Come orientarsi?
Nel campo dell'esecuzione musicale, tutto è più semplice: chi fu bravo lo era certamente, e così vale per il brocco. Anche nell'artigianato, il pezzo di qualità si impone da solo, almeno per chi abbia una minima cultura specifica, ché altrimenti l'occhio brancola nel vuoto. E' quando occorre rilevare quel plus-valore artistico di cui scrivevo più sopra che elementi spurii possono influenzarci: possiamo parlare di mode che passano, per esempio. Ma perché, per fare un esempio concreto, Max Klinger fu prima osannato, poi "seppellito", poi riportato a giusta luce (e chissà in futuro ...)?
Lascio in sospeso la risposta. Noto però che abbiamo i classici problemi a definire il tempo, mentre non li abbiamo per definire l'evoluzione. :-o Se magari volessimo partire non dal tempo ma dall'evoluzione, potremmo dire che quest'ultima consiste nel mutarsi delle "cose" nella loro forma e sostanza. Io credo (ma penso sia pure l'ideuzza di qualche Einstein non di passaggio) che noi percepiamo solo la modifica di queste "forma e sostanza" e recuperiamo l'identità delle cose utilizzando il concetto di tempo.
Il tempo è il concetto che ci permette di conservare l'identità nostra e del mondo tutto. Sant'Agostino è servito :pollicione:
Scusate la digressione.
 
Magari aggiungo che se il "tempo" è il concetto, o struttura mentale, con cui manteniamo l'identità di ciò che cambia, cioè l'identità nella disuguaglianza, lo spazio è, inversamente, lo strumento con cui poniamo una differenziazione nell'uguaglianza [della percezione]. Posso vedere un foglio, che non muta, ma se ne analizzo l'essenza spaziale, tocco vari punti, ne spezzetto l'identità.
Lo spazio è il concetto che ci permette di moltiplicare l'identità nostra e del mondo tutto.
 
<CUT>Nemmeno sono d'accordo sul fatto che l'artista non serve, direi che quello che non serve è ... l'arte, cioè la qualità. L'artista è l'etichetta che, applicando i valori dell'individualità all'opera (valori, tra l'altro, di relativamente recente apprezzamento) permette di vendere a ben maggior prezzo di quanto non ci si sarebbe spinti a tirar fuori dal borsellino. Una porcheria di De Chirico viene sempre pagata 100 volte la porcheria anonima.<CUT>
Direi una corretta precisazione.
In effetti scrivendo che l'artista non serve, ma serve l'oggetto-merce, sottintendevo proprio quello che tu hai scritto.
La visione del marchio, del logo della merce rappresenta e sostituisce la valutazione sulla qualità. Per l'opera, la visione della firma e del certificato di autenticità, sostituiscono l'artista che viene ridotto a nulla. Si compra la firma per l'opera come il logo per la merce e il collezionista acquista questo, non l'opera. Tutto ciò è figlio delle moderne tecniche di marketing e scrivendo che l'artista non serve ovviamente intendevo che l'artista, ridotto a logo, viene ridotto a nulla (può venire sostutuito da chiunque). Peraltro potrei aggiungere che il falso diventa parte del sistema ed entra in circolo perchè soddisfa un bisogno alimentato dal mercato. L'autenticità dell'opera diviene un fattore secondario rispetto alla forza di espansione del mercato.
 
Ultima modifica:
Alla seconda trovo che manchi una considerazione sull'importanza del fattore tempo. E' innegabile che il tempo, magari non perfettamente, ma con una fallibilità assai bassa, chiarisca quali valori siano, diciamo, solidi, quali invece effimeri. Se Giotto ancora ci entusiasma significa che qualcosa in lui superava i limiti dell'apprezzamento "per gruppi". Ammiriamo Fidia, e persino i bassorilievi assiri (non nego che però a questo scopo occorra farsi anche una specifica cultura). Alcuni autori assai alla moda vengono dimenticati, altri clamorosamente recuperati. Piero della Francesca e Bach sono stati trascurati per decine o centinaia di anni.
Credo che ragionare sul tempo ci porti troppo lontano rispetto ai concetti espressi qui. Il tempo è percepito diversamente dalle diverse culture e percepito diversamente rispetto al passato. L'idea che esista un tempo, un trascorrere, una evoluzione, una mutazione rispetto ad una esistenza nel solo tempo presente non credo si possa approfondire in poche righe. Qui davo per scontato che si possesse considerare accettabile l'idea occidentale del progresso, del divenire, cosa piuttosto controversa sul puro piano filosofico.
 

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