L'arte è pura convenzione?

Forse il tema era altrove richiamato da Heimat come pure ricordo una considerazione di Gino, spero di non sbagliare, sul fatto che "arte è sofferenza", che io ho sempre riferito a "verità/autenticità" dell'essere artista e come tale vivere l'arte con un'ipersensibilità ed una sorta di "nervo scoperto".
Sì, questo intendevo, non che l'arte debba nascere dal dolore come intende Holly (un giorno scopriremo quanta serendipity ci possa essere nelle incomprensioni tra me e lui :piazzista: ).
Si immagini l'artista al lavoro, non è tanto il tratto, l'opera in fieri che nasce dal dolore (può essere, ma è uno dei molti casi). La sofferenza viene subito dopo, sia nel giudicarsi, sia per l'insoddisfazione che un sano perfezionismo non può che procurare anche ai grandi. L'opera, tranne che negli stati di grazia, resiste al suo autore, gli è insieme strada ed ostacolo. Si può ricordare il tormento di Michelangelo verso il suo Mosè, ma gli esempi sono tantissimi.
L'artista che non fa autocritica ha già perso in partenza.
 
Sì, questo intendevo, non che l'arte debba nascere dal dolore come intende Holly (un giorno scopriremo quanta serendipity ci possa essere nelle incomprensioni tra me e lui :piazzista: ).
Si immagini l'artista al lavoro, non è tanto il tratto, l'opera in fieri che nasce dal dolore (può essere, ma è uno dei molti casi). La sofferenza viene subito dopo, sia nel giudicarsi, sia per l'insoddisfazione che un sano perfezionismo non può che procurare anche ai grandi. L'opera, tranne che negli stati di grazia, resiste al suo autore, gli è insieme strada ed ostacolo. Si può ricordare il tormento di Michelangelo verso il suo Mosè, ma gli esempi sono tantissimi.
L'artista che non fa autocritica ha già perso in partenza.

Nulla di misterioso, pensavo alla sofferenza di Leopardi ma è l'esempio sbagliato per l'arte visiva.
La sofferenza dell'artista che si esprime su tela è spesso dovuta alla suo essere incapace (o al solo sentirsi inadeguato) a comunicare con i suoi simili usando le normali forme di comunicazione verbale. L'effetto è quello di ricercare forme comunicative della propria interiorità diverse da quelle verbali.
 
Sì, questo intendevo, non che l'arte debba nascere dal dolore come intende Holly (un giorno scopriremo quanta serendipity ci possa essere nelle incomprensioni tra me e lui :piazzista: ).
Si immagini l'artista al lavoro, non è tanto il tratto, l'opera in fieri che nasce dal dolore (può essere, ma è uno dei molti casi). La sofferenza viene subito dopo, sia nel giudicarsi, sia per l'insoddisfazione che un sano perfezionismo non può che procurare anche ai grandi. L'opera, tranne che negli stati di grazia, resiste al suo autore, gli è insieme strada ed ostacolo. Si può ricordare il tormento di Michelangelo verso il suo Mosè, ma gli esempi sono tantissimi.
L'artista che non fa autocritica ha già perso in partenza.

Direi che ti viene incontro Giulio Paolini in una nota che accompagna l'ultima sua opera acquistata domenica ad Artissima.

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Quello che ci tenevo a chiarire era che noi umani costruiamo il concetto e persino la sensazione di tempo a partire dalla trasformazione, e quindi ancor prima partendo da una identità (propria, delle cose, delle altre persone ...) che deve trasformarsi. A questo punto, però, qualcuno potrebbe obiettare che il tempo è oggettivamente misurabile. Questa misurazione è però basata sull'equivalenza con una trasformazione, che può essere vuoi il movimento delle lancette, vuoi il girare della terra intorno al sole, vuoi l'oscillare di alcuni atomi. Ma anche qui c'è una tautologia: nel momento in cui io delego le lancette dell'orologio (ecc.) a indicare un passaggio temporale, ovvio che poi si confermi questa corrispondenza quando guardo "che ora è".

Se trattare ancora del tempo non disturba, vorrei indicare un'altra conseguenza del considerare il tempo solo come modificazione di identità (cioè che noi diciamo "tempo" intendendo "modificazioni"). Ed è che la famosa macchina del tempo, con cui andare a ritroso al tempo di Cesare o vedere il 3000, non può esistere. Grazie tante, infatti non c'è, dice l'obiezione. Il fatto è che pasticciando con le teorie di Einstein si vorrebbe invece far passare un concetto di tempo anche reversibile. Ma se ogni modifica nel mondo fisico è irreversibile, e il tempo è il nome con cui chiamiamo quelle modifiche, ne esce automaticamente che la macchina del tempo dovrebbe quantomeno saper invertire il senso di quelle modifiche, cosa per il momento :rolleyes: impossibile. E comunque dovrebbe agire modificando il mondo, o una parte di esso, non "muovendosi" tra stati diversi, dei quali alcuni non esistono più, altri sono immaginabili solo per il mondo minerale.
L'obiezione alla Einstein di solito porta l'esempio dell'astronauta per cui il tempo è diverso da quello di chi resta a terra, per cui dei due gemelli poi uno sarà più giovane. Però questo esempio tratta di uno scorrere diverso dei tempi, ma sempre nella direzione verso avanti, non verso indietro. Non è incompatibile con la definizione di tempo come metamorfosi delle identità. Inoltre, credo, è legato ai fenomeni della luce e al senso della vista, che però non sono affatto l'unica porta che noi abbiamo verso il mondo.

Esiste comunque il fenomeno di certe meduse che divengono polipi, poi tornano meduse e ... non muoiono mai, ringiovaniscono e invecchiano, ringiovaniscono e invecchiano ... Anche qui, però, è uno scorrere del tempo/metamorfosi in forma " a spirale": ma a livello materiale i componenti minerali dei polipi fase 4 non saranno gli stessi dei polipi fase 2.
Quello che invece fa riflettere è la possibilità che i componenti "vitali" delle due fasi possano essere gli stessi. Ma se immagino lo scorrere di un fiume quando incontra un grosso masso e si forma una increspatura, un'onda ferma, che pare sempre la stessa, vedo che quella forma sempre uguale è composta di materia continuamente rinnovantesi. Ugualmente il nostro biologico vive un continuo rinnovo. Quello che appare immota è la sua "forma": a livello inferiore essa comunque si modifica pian piano, ma magari a livello superiore, "l'io", no.

Infine, aprendo un'altra porta, a Venezia c'era un certo Padre Pellegrino Ernetti, che insegnava anche al Conservatorio di Venezia. Da Wikipedia: Pellegrino Ernetti - Wikipedia

In tempi relativamente recenti ha fatto scalpore la notizia pubblicata sui mass media a partire da un'intervista a Ernetti del 1972 nella quale egli affermava che sin dalla seconda metà degli anni cinquanta, insieme a un gruppo di famosi scienziati tra i quali l'italiano Enrico Fermi e il tedesco Wernher von Braun, avrebbe progettato e infine costruito il cronovisore, una macchina che avrebbe permesso di vedere avvenimenti accaduti nel passato, che Ernetti chiamava "macchina del tempo".

Il principio fisico che permetterebbe il funzionamento di questa macchina sembrerebbe riassumersi nella teoria secondo cui ogni essere vivente lascia dietro di sé nel tempo una traccia costituita da una non ben identificata forma di energia. Tali tracce visive e sonore rimarrebbero "impresse" nell'ambiente nel quale si manifestarono.

Ernetti raccontò, in una delle sue prime e uniche esternazioni sulla presunta invenzione, di aver assistito, attraverso il cronovisore, alla rappresentazione del Tieste nel 170 a.C., una tragedia perduta del poeta latinoEnnio e di aver completato l'opera trascrivendo le parti mancanti. Ernetti affermava anche di aver udito le voci di Benito Mussolini e di Napoleone Bonaparte e di aver assistito alla passione e crocifissione di Gesù Cristo, di cui avrebbe realizzato una foto (tale immagine è stata contestata in quanto identificata con la foto di un crocifisso ligneo dell'artista Lorenzo Coullaut Valera, proveniente da un santino acquistato nel Santuario dell'Amore Misericordioso di Collevalenza, presso Todi).
Più recentemente il teologo ed esperto di "transcomunicazione strumentale" padre François Brune ha riportato dopo molti anni alle cronache l'avveniristico ed ipotetico cronovisore, con un suo libro pubblicato nel 2002. Lo scrittore francese sostiene infatti che dell'invenzione fu immediatamente messo al corrente il Vaticano nella persona stessa del papa di allora. Da qui si è diffusa una leggenda urbana, popolare tra i teorici dei complotti, che vuole la macchina trasportata proprio nella cittadella sacra, dove i suoi segreti sarebbero ancora oggi custoditi.

Il racconto di Brune della vicenda che vede padre Ernetti come principale protagonista è scritto come una sorta di giallo, nel quale l'autore corre in lungo e in largo per l'Europa interrogando testimoni alla ricerca di nuovi indizi su questa misteriosa macchina del tempo, a partire proprio dai lunghi colloqui avuti dallo stesso autore con Padre Ernetti, che aveva conosciuto in tempi trascorsi a Venezia, quando l'autore dell'inchiesta non era stato ancora ordinato prete. Nemmeno Brune, tuttavia, vide mai la macchina di Ernetti.
L'esistenza della macchina tuttavia non è mai stata dimostrata e padre Ernetti per il resto della propria vita si chiuse in un riserbo assoluto su questo argomento.

Anch'io ebbi occasione di porgli qualche domanda sull'argomento, ma, in sostanza, pur ritenendosi convinto, il benedettino non rispose. In pratica, comunque, il principio era che, una volta prodotte certe "onde" (visive, sonore o altro) esse continuano ad espandersi nell'universo, dunque è solo questione di capire come percepirle. Poiché in questo caso non si tratta di entrare in mondi passati (o futuri, di per sé in contraddizione con la libertà umana), la cosa, ponendosi solo come spettatori, potrebbe anche avere un senso.
 
Sulla concezione di tempo di Einstein io credo che siano state mitizzate delle rappresentazioni poste come conseguenza della sua idea completamente sballate. La più nota è sicuramente quella del paradosso dei gemelli. Queste mitizzazioni sono state forse anche alimentate in gioventù dallo stesso Einstein e poi rinnegate in età più matura.
La questione è secondo me piuttosto semplice, E. si è posto il problema di 'come' misurare il tempo in modo coerente con la filosofia Kantiana, e la risposta che si è dato è che il farlo non è possibile.
E' partito dal cercare un mezzo per effettuare la misurazione ed ha adottato la luce come mezzo. Dalla constatazione che la luce ha una velocità elevatissima ma non infinita derivano tutte le considerazioni nate sulla natura del tempo.
Qui vi sono due errori di fondo. Il primo è che il fatto che esistano mezzi per effettuare le misurazioni del tempo più veloci della luce non è affatto certo. Il secondo è che il fatto che la riflessione sul comportamento della realtà debba limitarsi a ciò che possiamo misurare è un vincolo errato, esso ha senso solo in una realtà puramente operativa.
 
Anch'io ebbi occasione di porgli qualche domanda sull'argomento, ma, in sostanza, pur ritenendosi convinto, il benedettino non rispose. In pratica, comunque, il principio era che, una volta prodotte certe "onde" (visive, sonore o altro) esse continuano ad espandersi nell'universo, dunque è solo questione di capire come percepirle. Poiché in questo caso non si tratta di entrare in mondi passati (o futuri, di per sé in contraddizione con la libertà umana), la cosa, ponendosi solo come spettatori, potrebbe anche avere un senso.
In scienza spirituale si parla di Cronaca dell'Akasha, che sarebbe il grande "libro" in cui il chiaroveggente legge la storia dell'umanità. Evidentemente il principio è simile a quello di Padre Ernetti. Solo che il tutto avviene all'infuori del mondo fisico, esattamente come i pensieri e i ricordi. Il chiaroveggente riuscirebbe a trovare il modo di comunicare con il "ricordo dell'umanità".
Dico questo solo perché si conferma che il chiaroveggente non opera "facendo andare il tempo all'indietro", che implicherebbe un intervento sulla materia, se consideriamo che sono le modificazioni della materia ciò che noi chiamiamo tempo, bensì ad un altro livello immateriale. Capisco che ciò possa non soddisfare lo scienziato doc, ma almeno non entra in contraddizione con la definizione data di tempo e spazio.
Quando certi chiaroveggenti prendono in mano un oggetto, sanno che esso è il punto estremo di una serie di trasformazioni materiali (per esempio molto del suo materiale era silice in fondo al mare), così come lo è la persona che hanno di fronte.

Mi scuso se ho portato il discorso su arte e convenzione troppo fuori strada.
In realtà la domanda di Fabio era semplice: siamo davvero obbligati ad accettare come arte ciò che il mondo (commerciale) che le gira intorno propone come tale? (almeno, io la interpreto così).
La risposta è per me no, ma occorre ammettere, come hanno notato altri, che il collezionista è opportuno non faccia solo di testa sua trascurando le cosiddette leggi del mercato.
Se io colleziono Monet, e pago milioni di € per un suo lavoro, mentre il lavoro solo un po' inferiore, almeno all'apparenza, di un suo coetaneo di secondo piano, costa 10 mila €, significa che credo che le convenzioni del mercato siano solide e promuovano il giusto. Chiaro che il problema si pone sempre: è giustificato il prezzo che mi chiedono per questo lavoro? O è solo una convenzione temporanea? E in questo caso, la prospettiva è in un aumento o in un calo delle quotazioni (cioè la domanda rimarrà solida? )

Dall'opposto punto di vista: le convenzioni del mercato promuovono sempre il giusto? Quasi mai, naturalmente, salvo pubblicizzare il pezzo che ha avuto successo e mettere in oblio i 200 che non l'hanno avuto ...:ihih:
 
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