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Inizio di primavera. Freddo, ma non pungente. La scena si svolge nei dintorni della baia di Suruga, sulla costa meridionale di Honshu, la principale isola del Giappone. L’anno è il 1830 o giù di lì, verso la fine dello shogunato Tokugawa. Il vento soffia impetuoso da nordovest e l’aria è impregnata di salinità, sembra di avvertire. “Ejiri, nella provincia di Suruga” è la decima stampa del famoso ciclo “Trentasei vedute del monte Fuji” di Katsushika Hokusai. Al giorno d’oggi Hokusai, in Occidente ma anche in Asia, si trova all’apice della considerazione per quanto riguarda l’arte giapponese, ma se aveste detto a qualcuno a Edo alla metà del XIX secolo che sarebbe diventato l’artista giapponese più conosciuto al mondo, non vi avrebbe mai creduto. Xilografie come questa – chiamate Ukiyo-e, vale a dire “pitture del mondo fluttuante” – erano stampate in migliaia di copie da una pletora di editori, ed erano considerate volgari e commerciali. Com’è che un artista che produceva stampe come questa con un mercato di massa ha finito per incarnare la cultura di un’intera nazione?
Cominciamo dalla strada. Una lunga serpentina si snoda attraverso un terreno acquitrinoso, lungo la strada che connetteva Kyoto a Edo (Tokyo al giorno d’oggi). Non è un bel paesaggio, questo, ma un posto qualsiasi, indistinto. Le erbe che costeggiano l’acquitrino ondeggiano perlopiù gentilmente, ma il vento impetuoso piega gli alberi e soffia via le foglioline dai rami. Più che dal paesaggio, la forza del vento si può dedurre osservando i corpi dei viaggiatori. Quello più a destra, piegato, è costretto a tenersi il cappello con entrambe le mani. Piegati controvento procedono pure, un passo dopo l’altro, i due viaggiatori al centro della composizione sullo sfondo. I due in primo piano denotano di appartenere a classi sociali diverse: quello dietro, che tiene fermo il cappello con una mano, è un gentiluomo. Davanti a lui cammina il suo portatore, il cui cappello è volato via da quella specie di cuscino circolare che si nota sulla sua testa. La figura che attrae forse più l’attenzione è quella della viaggiatrice sulla sinistra: il suo kimono blu a righe ha finito per avvolgerle la faccia. Un fascio di carte che portava se ne vola via nell’aria. Gente qualsiasi. Piccoli incidenti di viaggio. Agli alberi non importa nulla di tutto ciò. Nemmeno alla palude, né alla montagna sullo sfondo, l’imponente Fuji. La montagna si staglia contro un cielo quasi del tutto vuoto. In contrasto con l’attività che si dispiega lungo la strada, il Fuji è reso con nient’altro che un singolo tratto calligrafico: su, destra, giù!
(continua)
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© Jason Farago, The New York Times
traduzione e adattamento miei