L’inflazione da materie prime è ancora segno di salute?

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Recessione mondiale o i problemi resteranno limitati agli Stati Uniti ed al settore finanziario?

Da un punto di vista fondamentale, assistiamo ad una strana dicotomia. Da una parte nel settore finanziario le perdite legate alla crisi subprime si accumulano mentre l'economia reale sembra in generale ancora vivace ed in crescita smentendo i timori legati alla recessione negli Stati Uniti. Oggi diamo un'occhiata al settore delle materie prime che sembra in grado di fornire delle interessanti chiavi di lettura sullo stato reale dell'economia. Ospitiamo un contributo di Alessandro Fugnoli, analista strategico di Abaxbank.

Lapis philosophorum. L’inflazione da materie prime è ancora segno di salute?
(di Alessandro Fugnoli)

Dai sapienti della tradizione ermetica fino ad Harry Potter molti si sono occupati della pietra filosofale, la pietra che oltre a conferire l’immortalità permette di trasformare i metalli vili in oro. Molti alchimisti hanno accumulato grandi ricchezze, ma non è dato sapere se per la consuetudine con le forze occulte, per meriti metallurgici o per abilità di marketing. I loro successi sono dunque controversi. Innegabile è invece il grande risultato dei produttori brasiliani di minerale di ferro che, nei negoziati annuali conclusisi nei giorni scorsi, hanno spuntato dalle acciaierie giapponesi e coreane un aumento di prezzo del 65 per cento, ben superiore al 40 per cento di crescita del prezzo dell’oro negli ultimi 12 mesi.
L’aspetto più interessante di questo ennesimo aumento del minerale di ferro è che il prezzo negoziato riflette alla perfezione il rapporto tra produzione e domanda finale. Non ci sono cioè di mezzo fondi commodity, fondi hedge, ETC, fondi sovrani, prodotti strutturati, futures, investitori e speculatori crossover che vanno e vengono. Il grado di finanziarizzazione del minerale di ferro è zero. Se ne occupano solo i veramente dedicati, non i perditempo. L’aumento del minerale di ferro dà quindi la garanzia conclusiva che il petrolio di nuovo a 100 dollari e la ripresa brillantissima di non ferrosi, preziosi, derrate e bestiame (tutti in rialzo rispetto a inizio anno) non sono il risultato di offerta. Il fenomeno è affascinante.
Uno gira tra i desk di fixed income e sente bisbigliare il De Profundis per una lista sempre più lunga di soggetti e di prodotti (con gli ultimi arrivati, gli auction-rate bond e i CPDO, fin troppo chiacchierati, almeno i primi, rispetto alla loro reale pericolosità). Nel fixed income la recessione è una certezza fisicamente percepibile. I desk di materie prime danno invece l’idea di un mondo vivace, con una domanda finale esuberante e vorace che non si cura del prezzo. Sembra di vivere ancora nel mondo di un anno fa che conosceva i subprime, quando li conosceva, solo come interessante opportunità di alto rendimento. Ah, les beaux jours. L’equity è una via di mezzo. Giustamente, perché è fatto di banche ma anche di petroliferi e minerari.
Che cosa ci dice la forza delle materie prime? Per rispondere bisogna capire se siamo di fronte a una reale esuberanza della domanda (nel qual caso dobbiamo chiederci di che cosa ci stiamo preoccupando da agosto in qua) o se invece è l’offerta ad avere strozzature (nel qual caso alla delizia del rallentamento globale dobbiamo aggiungere la gioia di un’inflazione persistente, con una somiglianza ogni giorno maggiore con gli anni Settanta). In realtà sono presenti entrambi i fattori, domanda e offerta, e grosso modo si equivalgono. Cominciamo con la domanda.
La domanda è ancora abbastanza forte e certamente non è una domanda da recessione. Le acciaierie, le raffinerie, le società in genere che trasformano materie prime in semilavorati o prodotti finali non sono però dotate di superpoteri che permettono loro di stimare la domanda finale dei loro prodotti molto meglio dei mercati finanziari. Possono benissimo sbagliarsi anche loro e riempire i capannoni, i silos e i piazzali di materie prime che se ne resteranno lì (o che verranno trasformate in prodotti che resteranno invenduti nei punti di distribuzione finali). Sta di fatto che per il momento comprano.

Prendiamo il petrolio. In America e in Europa la domanda è stabile da qualche tempo. La produzione industriale, del resto, è in vistoso rallentamento, ma non in diminuzione. Il riscaldamento non lo taglia nessuno e la benzina che i pendolari americani consumano per fare i 50-100 chilometri da casa al lavoro (e viceversa) verrà consumata meno solo il giorno in cui resteranno a casa perché licenziati. In Cina, invece, i consumi industriali e privati non smettono di aumentare. La domanda mondiale, quindi, sta ancora crescendo.

Il lato dell’offerta è più complesso. Intanto va detto che ci si era disabituati, in questi anni, a guardare le cose da questo lato. Ci si ripeteva infatti ogni giorno (giustamente) che era la domanda a crescere, che questo era un segno di salute e che l’inflazione da materie prime era benigna e si autocorreggeva (si limitava cioè a raffreddare gli ardori della domanda senza produrre danni collaterali). Da qualche tempo, invece, anche l’offerta ci infligge qualche problema.
I problemi dell’offerta, tipicamente, possono essere politici (l’embargo petrolifero del 1973 dopo la guerra del Kippur), bellici, di cartello, tecnici, accidentali (incendi, incidenti, epidemie di bestiame, siccità), sindacali (scioperi), esogeni (interruzioni nel sistema dei trasporti, black-out e brown-out brevi o prolungati per mesi), di aumento del costo dei fattori (costo del lavoro, royalties rinegoziate, costo delle infrastrutture).
In questo momento c’è di tutto. Proprio perché c’è di tutto bisogna distinguere tra complicazioni momentanee (qualche settimana), prolungate (qualche mese) e strutturali (misurabili in anni). Mancano per fortuna la complicazioni meno prevedibili per portata e durata (da embargo o da guerra guerreggiata), che proprio in quanto difficili da stimare hanno generalmente le conseguenze più devastanti sui prezzi, perché generano psicosi da accaparramento.
Sono complicazioni momentanee (anche se molto significative) l’ondata di gelo in Cina, che ha tuttora conseguenze sull’attività di estrazione di carbone, alluminio, rame, nickel e ripercussioni a catena su scala globale. Lo stesso per il freddo superiore alla media in Canada. Saranno complicazioni prolungate la crisi della rete di distribuzione dell’energia in Sud Africa o la disputa legale tra Exxon e Venezuela, così come la siccità in Brasile.
Sono strutturali, ahinoi, gli aumenti dei costi di prospezione, del lavoro, delle infrastrutture, della tecnologia e la volontà politica dei paesi produttori di produrre sempre di più in proprio, anche se questo è inefficiente.
Strutturale, anche se sul piano politico, è l’asse tra Iran e Venezuela. Strutturale è il crescente controllo monopolistico russo sulla distribuzione del gas.
Ricapitolando, abbiamo detto che i problemi buoni da domanda e quelli cattivi da offerta si equivalgono come peso. Tra i problemi da offerta possiamo ipotizzare un 45 per cento di strutturale, un 25 di prolungato e un 30 di momentaneo (i decimali, come dice Greenspan quando gli chiedono la probabilità precisa di recessione, non siamo in grado di offrirli).

Visto dalle banche centrali il lato della domanda è confortante, mentre quello dell’offerta è preoccupante ma non troppo, non tanto in ogni caso da indurre a un ripensamento delle politiche monetarie. In Europa l’inflazione da materie prime dà più fastidio perché arriva insieme con i notevoli aumenti salariali tedeschi che si stanno definendo in questi giorni su livelli superiori alle stime. Le banche centrali, del resto, non hanno in questo momento solo il problema di prevenire una recessione (o limitarne al minimo la portata), ma anche quello di evitare incidenti e avvitamenti nel fragile mondo della finanza. Certo, il petrolio di nuovo a 100 dollari dà un grandissimo fastidio, per l’impatto sui consumi e, ancora di più, per l’altissima visibilità e rilevanza psicologica. Fa niente. Questi sono mesi ingrati, per i banchieri centrali. Vuol dire che saranno ancora più ingrati.

Sul piano operativo, benché convinti della natura secolare del bull market delle materie prime riteniamo che questo non sia il momento migliore per comprare. Sui bond governativi ribadiamo la vulnerabilità delle scadenze lunghe, mentre per l’unica loro funzione in questa fase, quella di parcheggio, vanno benissimo le scadenze brevissime. Le borse sono in temporaneo equilibrio. Il positioning non è sbilanciato (i portafogli non sono nè troppo carichi nè troppo scarichi) e questo aiuta a restare in un range in attesa di novità. La strada da qui a fine maggio, quando inizieranno a sentirsi gli effetti del pacchetto fiscale americano, è ancora lunga e può essere costellata di trappole (false partenze da una parte, incidenti di credito veri o supposti dall’altra, con i dati macro alternati tra debolmente positivi e negativi). Meglio aspettare.

da Il Rosso e Il Nero (22.02.2008), settimanale di strategia. Alessandro Fugnoli è strategist di Abaxbank, Banca d'Investimento del Gruppo Credem (www.abaxbank.com).

http://www.longshortinvest.com/4576.html
 

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