L'UNICA COSTANTE NELL'UNIVERSO E' IL CAMBIAMENTO

Ed arriviamo a casa nostra. Con i soliti menarelli dai piedi freddi.
Ed il kulo al caldo.


Riprende il grande torneo di scarica barile.

Sul coprifuoco si consuma l’ultima sfida tra governo e Cts.

A quanto apprende l’agenzia di stampa Agi, tra i tecnici del Cts serpeggia un certo malumore
per l’attribuzione al Comitato dell’indicazione al centro delle polemiche di queste ore.

“La decisione di conservare il limite per rientrare a casa alle 22 non è un’indicazione del Comitato tecnico-scientifico,
che non è stato mai consultato su questo specifico aspetto”.

E sottolinea che “è sempre stata una decisione politica”.





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I ministri Gelmini e Patuanelli, infatti, avevano fatto sapere che la scelta di rimanere per il momento
con il coprifuoco alle 22 è stata presa “ascoltando il Cts”.

La risposta?

“In realtà noi del coprifuoco non abbiamo mai parlato – viene spiegato all’Agi –

è sempre stata una valutazione politica, non ci è mai stata sottoposta alcuna istanza in tal senso”.


Come avvenne peraltro, viene fatto notare, quando fu istituito, ormai sei mesi fa.



Ennesima figuraccia per il governo, dunque.


E a proposito di questo, la Gelmini aveva detto:

“Il coprifuoco evoca brutte cose, quindi tutti noi non vediamo l’ora di allungare l’orario e di poterlo poi abolire,

però tutto si tiene in una gradualità. Noi abbiamo proposto alle 22 perché abbiamo ascoltato il Cts

e perché il ritorno alla normalità deve essere graduale per evitare impennate del virus”.



Poi Gelmini parlando a nome del governo ha aggiunto:

“È Chiaro che dalla parte del governo, c’è la volontà e la fiducia che i comportamenti corretti delle persone

ci porteranno gradualmente a passare dalle 22, alle 23 e poi alle 24, per togliere del tutto il coprifuoco.

C’è la volontà di allentare le misure gradualmente senza consentire al virus di ripartire”.
 
Se di colpo tornasse la normalità per i tanti "scienziati" diventati vip della tv sarebbero davvero guai.

Il Covid, infatti, rende noti.

Sparirebbero dai palinsesti, dalle radio, dai giornali.

E così, mentre Draghi deve ancora avviare le prime “riaperture”,
queste nuove star televisive premono per bloccare tutto e tenere l’Italia chiusa.

Del resto, cosa importa loro se si suicida un’altra partita Iva, o se chiude l’ennesimo ristorante.

Come scrive in un’interessante analisi Pietro Senali

“è una professione che va all’incontrario. Quando il mondo è in ginocchio, piegato dalla pandemia,
l’economia stramazza e la depressione diventa sentimento collettivo, loro toccano l’ apogeo.
Più il virus dilaga, più il virologo vive il suo momento di gloria, guadagna, diventa famoso”.





virologi-in-tv.jpg



E così questa pandemia che si avvia fortunatamente a diminuire, per qualcuno di loro è un duro boccone da mandar giù.

Le luci si spengono, sipario.

“Anche perché, quando i ristoranti apriranno e la gente scenderà in strada,
a loro toccherà trasferirsi dallo studio tv al laboratorio, senza neppure la consolazione di raccontare la propria battaglia in un libro,
perché a quel punto nessuno vorrà più saperne nulla del Corona. Più si apre, più gli studiosi strillano”.


Ovviamente, specifica anche il giornalista, non è solo un motivo di vanagloria,
i numeri continuano davvero a preoccupare, anche perché c’è un governo di incapaci al timone del Paese.

Un governo assai simile al precedente, quello che la pandemia l’ha vista scoppiare
e non ha saputo far nulla a parte chiudere tutti in casa.



Conclude Senaldi:

“Per il nostro bene, ed è giusto anche ringraziarli, questi virologi hanno lavorato come matti ma,
a differenza di chi vorrebbero tenere ancora chiuso a quattro mandate, hanno anche continuato a guadagnare.
Senza riuscire, pur parlando in stereofonia tutti i giorni, a suggerire alla politica una sola strategia vincente per fermare il contagio.
Non occorre uno scienziato per capire che la chiusura è una misura emergenziale che non può durare oltre un anno.
L’economia è come un subacqueo, può inabissarsi in apnea a grandi profondità e risalire sana, purché resti poco senza fiato;
viceversa, se vegeta anche un solo metro sotto l’ acqua troppo a lungo, muore”.
 
In un videomessaggio di introduzione al webinar di ascolto dei rappresentanti della società civile
in vista del prossimo 21 maggio, il premier Mario Draghi ha evidenziato gli errori fatti nella gestione dell’emergenza Covid.

Tra le sue riflessioni, Draghi ha detto alcune frasi che sono sembrate a tutti un vero attacco a Ranieri Guerra e al ministro Speranza,
incollatissimo alla poltrona malgrado tutto:

“Non eravamo pronti ad affrontare una crisi sanitaria di tale portata.
Ci mancava la capacità di rilevare la pandemia attraverso un sistema di allerta precoce.
I nostri piani di emergenza erano obsoleti e insufficienti”.

E la domanda a questo punto sorge spontanea:

allora perché ha confermato Speranza in quel ruolo?

E perché lo difende dalla sfiducia?



“Il nostro lavoro deve iniziare ora – continua Draghi -.
Dobbiamo sostenere la ricerca, rafforzare le catene di approvvigionamento e ristrutturare i sistemi sanitari nazionali.
Dobbiamo rafforzare anche il coordinamento e la cooperazione globali.
L’ anno scorso la produzione globale ha subito la contrazione più profonda dalla Seconda Guerra mondiale,
colpendo sia le economie avanzate che i mercati emergenti”.


E dopo aver fatto quella tirata d’orecchie a Speranza e a chi non si è curato di aggiornare i piani pandemici, Draghi sostiene:

“Nonostante tutto il coraggio dei nostri medici e infermieri,
il virus ha messo in luce le fragilità dei nostri sistemi sanitari. Ma abbiamo mostrato la capacità di reagire”.

E anche su questo ci sarebbe molto da ridire.
 
Nuove grane giudiziarie per Domenico Arcuri:

la procura di Roma ha aperto una inchiesta
in relazione all’acquisto di 157 milioni e 100mila siringhe destinate ai vaccini da parte dell’ex commissario all’emergenza Covid.


Secondo quanto si apprende, gli accertamenti sono stati affidati al pm Antonio Clemente.

Il procedimento, allo stato, risulta senza indagati e senza ipotesi di reato.


“Il procedimento trasferito dalla Procura di Napoli a quella di Roma che segue il procedimento già aperto dalla Corte dei conti
è, ad ora, contro ignoti perché, come sembra da indiscrezioni, è stato consegnato al pm da pochi giorni – scrive in una nota Rivellini, seguito dall’avvocato Luigi Ferrandino -.
La domanda sorge spontanea: poiché le siringhe sono state acquistate da Arcuri e il suo staff
anche per le garanzie procedurale degli eventuali futuri imputati sarà indagato Arcuri o qualcuno del suo staff?
La vicenda è arcinota e si tratta dell’acquisto di 157.100.000 siringhe ‘luer lock’
dal costo di circa sei volte più alto delle normali siringhe ad incastro che tutto il mondo sta usando per iniettare il vaccino anti covid“.



La vicenda è oscura perché il bando è stato assegnato ad aziende straniere
che normalmente non si occuperebbero di tali articoli,
le ‘luer lock’ si sarebbero dimostrate, in alcuni casi, inadeguate,
perché non pare vero che siano state consigliate da enti e strutture tecniche
ma soprattutto perché non si tratterebbe di un acquisto fatto in piena emergenza
“.

Bensì assolutamente programmabile.

“Difatti è da molti mesi che la struttura commissariale, il ministero della Salute e il governo sono a conoscenza,
e fanno fede gli ordini che la stessa struttura commissariale ha effettuato alle industrie farmaceutiche,
che la consegna dei vaccini era per fine anno 2020”, si legge nell’esposto.
 
Vediamo se scenderà in campo lo White Lives Matter


Un babysitter afroamericano residente a El Paso, Texas è accusato di omicidio nei confronti del bimbo di un anno (bianco)
che stava sorvegliando per conto dei genitori, dopo avergli praticato «diverse mosse in stile wrestling e una presa da football».

Per Marvin Rex Lake si sono aperte le porte del carcere della città texana.

La vittima è il piccolo Ahren Joshua DeHart, dalla cui autopsia sono emerse lesioni multiple,
tra cui la frattura del cranio, danni cerebrali e una emorragia polmonare.


L’emittente KFOX14 riferisce che Lake avrebbe inizialmente detto agli investigatori
di non sapere come il bambino si fosse procurato quel genere di lesioni.

In seguito avrebbe ammesso di aver eseguito sul piccolo le mosse da wrestling:

«Mi ero arrabbiato perché Ahren aveva strappato un cuscino», ha dichiarato.

Poi l’incredibile giustificazione, se così la si può chiamare: «Non gli ho fatto male alla testa. Ho causato solo lesioni interne».


Lake era stato incaricato di sorvegliare il piccolo assieme ad altri due bambini
durante la sera del 13 aprile, mentre le loro madri erano al lavoro.

Stando al racconto della mamma della vittima, in una videochiamata avvenuta a inizio serata
DeHart appariva «in buona salute e vigile, ma piangeva e si agitava».

Alle 21.30, poco più di quattro ore dopo, il babysitter aveva chiamato per avvertire che il bimbo «aveva vomitato qualcosa di rosso».

La madre rincasata poco prima di mezzanotte, aveva trovato il figlio privo di coscienza.
Anche gli altri due bambini affidati alle cure di Lake erano feriti.


Ahren è morto il 16 aprile, dopo cinque giorni passati in terapia intensiva lottando tra la vita e la morte.

«Venerdì intorno alle 14:30 i medici hanno deciso di staccare le macchine e lasciarlo morire»,
specifica lo zio della vittima.
 
Gentile senatrice Paola Taverna, ho letto la sua indignazione per il vitalizio restituito,
per la decisione della commissione giurisdizionale del Senato, all'ex presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni,
che sta scontando una condanna passata in giudicato.


Stessa cosa avverrà per Ottaviano Del Turco e molti altri.


Ma la prego, fermi subito la sua indignazione, e non la ripeta davanti a ognuno cui verrà applicata una legge che non c'era, ma che oggi c'è.

Sa perché le chiedo questo favore?

Perché che Formigoni, Del Turco e tanti altri possano riavere quel vitalizio,
e addirittura che la pensione o qualsiasi altra indennità sociale sia garantita anche a tutti i capimafia in carcere
è stato deciso non una vita fa
.

Ma nel marzo 2019.

Sa da chi?

Da lei, senatrice Taverna
.

Da lei e da tutti i senatori del M5s, nessuno dei quali ha storto il naso.

E poi da tutti i suoi colleghi di movimento alla Camera che hanno preso quella decisione in seconda lettura.

E infine ancora da lei, signora Taverna.

E da tutto il movimento 5 stelle che ha scelto di ridare il vitalizio a Formigoni &c
e di non toccare l'assegno pensionistico o qualsiasi altro
nemmeno al peggiore mafioso con condanna definitiva in carcere
votando per ben due volte (i più convinti di tutti eravate) la norma che quello stabilisce.



Ed ora le svelo anche quale è: la legge sul reddito di cittadinanza, la numero 26 del 28 marzo 2019.

E' lì che l'articolo 18 bis che lei due volte ha votato
(e due in più con il voto finale sulla legge), pure esultando,
stabilisce che
la pensione
il reddito di cittadinanza,
qualsiasi indennità o vitalizio
debba essere erogato anche a mafiosi e terroristi
oltre che a tutti i condannati definitivi a pene superiori a due anni a patto di non essersi sottratti all'applicazione della pena.



Prendi la condanna e la espii?

Nessuno ti può togliere nulla.


Ma se sparisci da casa il giorno della carcerazione, ti rendi irreperibile,
diventi latitante o evadi dalla prigionia, ogni assegno viene sospeso.


Solo in quell'unico caso.


Lo stabilisce la legge, che non c'era, ma che oggi è così perché lei l'ha votata insieme a tutti i suoi colleghi di movimento, esultando.


Può essere che non abbia letto né capito, e se lei lavora in questo modo si faccia un esame di coscienza.

E non cerchi la più banale delle scuse: questo testo che grazia anche i mafiosi
(che quindi possono benissimo prendere il reddito di cittadinanza),
è passato al primo esame in commissione grazie a un emendamento della Lega,
allora vostra alleata, a prima firma Massimiliano Romeo.


Il testo è suo.

Ma in commissione l'hanno letto e hanno dato parere favorevole, entusiasti, il relatore:

Nunzia Catalfo, sua collega M5s che poi sarebbe diventata pure ministra della materia.


Ed il governo, lì rappresentato dal sottosegretario al Lavoro, Claudio Cominardi. Anche lui 5 stelle.


Cara senatrice Taverna, l'indignazione la riservi allo specchio in questa occasione...
 
Questo il testo completo dell'articolo 18 bis, introdotto dopo l'emissione del DL, ed approvato dal Parlamento.


Dopo l'articolo 18 e' inserito il seguente:
«Art. 18-bis (Sospensione dei trattamenti previdenziali). - 1.
Ai soggetti condannati a pena detentiva con sentenza passata in
giudicato per i reati di cui all'articolo 2, comma 58, della legge 28
giugno 2012, n. 92, nonche' per ogni altro delitto per il quale sia
stata irrogata, in via definitiva, una pena non inferiore a due anni
di reclusione, che si siano volontariamente sottratti all'esecuzione
della pena, e' sospeso il pagamento dei trattamenti previdenziali di
vecchiaia e anticipati erogati dagli enti di previdenza obbligatoria.

La medesima sospensione si applica anche nei confronti dei soggetti
evasi, o per i quali sia stato dichiarato lo stato di latitanza ai
sensi degli articoli 295 e 296 del codice di procedura penale.
2. I provvedimenti di sospensione di cui al comma 1 sono
adottati con effetto non retroattivo dal giudice che ha emesso la
dichiarazione dello stato di latitanza prevista dall'articolo 295 del
codice di procedura penale ovvero dal giudice dell'esecuzione su
richiesta del pubblico ministero che ha emesso l'ordine di esecuzione
di cui all'articolo 656 del codice di procedura penale al quale il
condannato si e' volontariamente sottratto, anche per le
dichiarazioni pronunciate o per gli ordini di carcerazione emessi
prima della data di entrata in vigore della legge di conversione del
presente decreto.
3. Ai fini della loro immediata esecuzione, i provvedimenti di
sospensione di cui ai commi 1 e 2 sono comunicati dal pubblico
ministero, entro il termine di quindici giorni dalla loro adozione,
all'ente gestore dei rapporti previdenziali e assistenziali facenti
capo ai soggetti di cui al comma 1.
4. La sospensione della prestazione previdenziale puo' essere
revocata dall'autorita' giudiziaria che l'ha disposta, previo
accertamento del venir meno delle condizioni che l'hanno determinata.

Ai fini del ripristino dell'erogazione degli importi dovuti,
l'interessato deve presentare domanda al competente ente
previdenziale allegando ad essa la copia autentica del provvedimento
giudiziario di revoca della sospensione della prestazione. Il diritto
al ripristino dell'erogazione delle prestazioni previdenziali decorre
dalla data di presentazione della domanda e della prescritta
documentazione all'ente previdenziale e non ha effetto retroattivo
sugli importi maturati durante il periodo di sospensione.
5. Le risorse derivanti dai provvedimenti di sospensione di cui
al comma 1 sono versate annualmente dagli enti interessati
all'entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnate ai
capitoli di spesa corrispondenti al Fondo di rotazione per la
solidarieta' alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste
estorsive, dell'usura e dei reati intenzionali violenti nonche' agli
orfani per crimini domestici, e agli interventi in favore delle
vittime del terrorismo e della criminalita' organizzata, di cui alla
legge 3 agosto 2004, n. 206».
 
Curare il Covid a casa non è un’assurdità.

Il gruppo di medici raccolti dall’Associazione Terapie domiciliari Covid-19, fondato dall'avv. Erich Grimaldi,
è impegnato, sin dall’esordio della pandemia, nella cura casalinga di malati Covid.

L’Associazione si è scontrata con le linee guida AIFA, che consigliavano una vigile attesa all’esordio dei sintomi,
e ha ottenuto che il Senato approvasse un Odg che impegna il governo a rivedere le linee guida.

Di tutto questo ne abbiamo parlato con il dott. Andrea Mangiagalli,
medico di medicina generale dal 1987 e membro dell’Associazione Terapie domiciliari Covid-19.


"Il gruppo di medici di cui faccio parte viene contattato dalla pagina Facebook Terapie domiciliari Covid-19.
In tempi abbastanza rapidi uno dei medici disponibili in quel momento viene contattato dalle moderatrici del gruppo
e chi dà disponibilità prende in carico il paziente.
Se si trova nell’ambito territoriale del paziente si riesce a fare anche una valutazione domiciliare".


"Sembra quasi una bestemmia considerando quello che sentiamo dire ogni giorno.
Fortunatamente la maggior parte dei pazienti ha una evoluzione benigna della malattia ma,
per la legge dei grandi numeri, la quota piccola che sviluppa la malattia in maniera più severa è sotto gli occhi di tutti.

Se i numeri di ricoveri e mortalità continuano ad essere elevati è evidente che c’è un rifornimento continuo
di malati che si complicano e che arrivano in ospedale in fase avanzata.
Questa malattia può essere intercettata precocemente non facendo, banalmente,
una vigile attesa ma facendo una vigile operatività.

Diciamo che il tempo medio di intervento per capire se iniziare una terapia
è nell’ordine delle 24-48 o 72 ore se il paziente si mette in contatto presto.
Tenga conto che noi spesso siamo contattati da pazienti che hanno sviluppato sintomi già da 6-7 giorni ma che non hanno assunto farmaci".


"Il consiglio di effettuare una vigile attesa andrebbe stratificato per fasce di rischio, cosa che Aifa non fa.
Fare la vigile attesa per un soggetto mediamente in buona salute, giovane e senza patologie è sicuramente ragionevole.
Nella fascia over 50 è importante stratificare il rischio con maggior attenzione.
Se andiamo a guardare le fasce di mortalità vedremo che è dopo i 50 anni
che il rischio aumenta e che c’è un aumento progressivo per ogni decade.

Quindi l’età ed eventuali patologie preesistenti al Covid indicano i pazienti che non andrebbero messi in attesa.
Non parlo solo di gravi patologie debilitanti ma anche di un diabete ben compensato,
di una obesità addominale o di una iniziale perdita di funzionalità renale.
Queste sono già condizioni ad alto rischio per il Covid".


"Il nostro gruppo è partito il 27 febbraio di 2020.
Un mese dopo noi - più esperti del gruppo - decidemmo ed abbiamo stabilito una terapia che è quella che pratichiamo ancora oggi.
All’epoca riscontrammo subito una risposta positiva nei pazienti che trattavamo.
Poi c’è stato lo stop dell’AIFA e degli organismi internazionali sull’utilizzo dell’idrossoclorochina.
Stop arrivato dopo un lavoro pubblicato su Lancet e poi ritirato.

Poi c’è stata la vittoria al Consiglio di Stato che ha riammesso, pur con dei limiti
e con un consenso debitamente informato, l’utilizzo di questo farmaco.
Poi sono uscite una serie di reprimende sul fatto che si dava il cortisone troppo presto,
poi ci hanno rimproverato per l’uso di antibiotico…

È stato tutto un tendere al limitare o a dare dei consigli sul non fare
che ha creato difficoltà a chi ha provato a curare la malattia.
Noi ci siamo resi conto che i risultati c’erano.
Gli altri si sono attenuti alle regole che hanno dato e hanno fatto quello che hanno potuto".


"Non vorrei che si trasformasse in una vittoria di Pirro.
È una vittoria avere portato così in alto loco le nostre idee che, voglio specificarlo, non sono solo nostre.
Qui si pensa che ci sia un gruppo di scalmanati che ha deciso di fare una cosa originale e fuori dalla logica medica
ma invece ci sono fior di lavori nella letteratura internazionale che parlano di intercettare i malati precocemente e di non attendere inutilmente.

Per altro la fisiopatologia di questa malattia è ben nota, per lo meno a chi ha voluto documentarsi,
e c’è una fase in cui la malattia può virare da una fase tranquilla a una molto più grave che non è un tempo infinto,
dall’esordio dei sintomi può essere la quinta o la sesta giornata.
Da quando ci contatta il paziente può essere la terza quarta.
Non è una malattia che ti consente di avere dei margini enormi di tempo da sprecare".

MONOCLONALI
"Gli anticorpi monoclonali sì e no.
Questi farmaci funzionano molto presto nella malattia e deve prescriverli il medico di famiglia.
Però i monoclonali non sono presenti ovunque, non ci sono nel piccolo ospedale di provincia, isolato dal contesto urbano.
Probabilmente i monoclonali ci sono nei grandi ospedali cittadini, in pochi di loro,
e non sono nemmeno disponibili per i numeri dei pazienti che abbiamo oggi da trattare.
È una procedura che deve essere fatta per endovena, se funzionano bene è un vantaggio per tutti
ma portarli capillarmente ai primi sintomi a tutti i pazienti, magari fuori da grandi città, la vedo piuttosto difficile.
Pensiamo ai paesi del centro Appenino dell’Italia, alla Sila profonda o al centro della Sardegna,
raggiungere un ospedale dove ci sono i monoclonali è impossibile.
Ma anche io qui a Milano non saprei dove indirizzare un mio paziente per andare a fare i monoclonali.
A meno che non si pretenda, come si sta facendo dall’inizio, di dover portare tutti i pazienti per forza in ospedale.
Quindi oltre a quelli che entrano per il pronto soccorso ci devono entrare anche quelli che vanno a fare i monoclonali.
Non credo che gli ospedali siano pronti ad affrontare questa massa di persone".

PLASMA IPERIMMUNE
"Avrebbe dovuto essere raccolto prima, in tutti gli ospedali. Non so quanto sia stato raccolto.
Tra tutte le persone che conosco, amici e pazienti che ho trattato e che hanno avuto il Covid-19,
conosco solo una persona, in Liguria, che è stata chiamato e le è stato prelevato del plasma.
Quindi di fatto siamo al punto di partenza.
Non sappiamo se funziona, non sappiamo chi ce l’ha, non sappiamo quali sono i pazienti che devono essere trattati. Ritorniamo alla casella del via".


È possibile che gli ospedali siano così sovraffollati anche per una cattiva gestione di quei casi di malati che potevano essere curati a casa?
"Penso di sì, senza ombra di dubbio.
Il problema è che non è stata preparata una rete territoriale per la gestione di questi malati.
Lei pensi che se io volessi curare a casa dei malati che hanno bisogno di esami specifici
come elettrocardiogramma, prelievo, ecografia e volessi farli a domicilio, io a Milano,
nella provincia di Milano dove lavoro, non ho la possibilità di farlo.
E parlo di esami molto semplici da eseguire a domicilio.
Al momento si è preferito concentrare tutte le risorse negli ospedali,
potenziando le rianimazioni, e smontando, di fatto, l’architettura di un ospedale per ricoverare i malati Covid".


Lei si fida dei vaccini?
"La scienza non fa affidamento sulla fede ma sui dati.
Se i dati che ci hanno dato fino ad adesso sono veri la protezione è quella che ci è stata comunicata.
Il problema è che ora abbiamo una crisi di credibilità della sicurezza dei vaccini
perché ci sono stati troppi cambiamenti, troppe variazioni, di classe di età
e questo non fa bene alla scienza in generale e ai pazienti che si devono fidare, o meglio,
affidare alle conoscenze che la scienza medica offre.
È evidente che, per quanto studiato, un vaccino dispiega la sua efficacia solo nel corso dei mesi quando lo provi sul campo.
Farlo in questo momento ci espone a qualche rischio ineliminabile".


"Ogni giorno utilizziamo farmaci con eventi avversi anche importanti, e non ci diamo peso perché ci siamo abituati.
Il vaccino non è esente da questo limite.
Ovviamente c’è anche una guerra dal punto di vista commerciale tra paesi e tra vaccini che ha danneggiato la comunicazione.
Prima dell’inizio della vaccinazione è stata fatta una corsa a dire che il vaccino ci avrebbe salvato
e che saremmo stati tutti pronti per l’estate a fare una vita normale.
La campagna vaccinale è stata caricata di un’aspettativa enorme sapendo che ci sarebbero state indubbie difficoltà
perché portare il vaccino in tutta Italia a 60 milioni di persone nella maggior parte dei casi con doppia dose,
nel giro di poco tempo era ragionevole attendersi che non sarebbe stato possibile.
Quando poi ci sono stati i primi eventi avversi, enfatizzati dalla stampa, questo ha creato la più grande dose di incertezza".


Secondo lei ce n’è uno più sicuro degli altri?
"Questo non lo possiamo dire. Quelli che abbiamo visto ora sono effetti avversi nell’immediato, verificatisi nei 15-20 giorni successivi alla vaccinazione. Ovviamente un farmaco come un vaccino la sicurezza deve garantirla nell’arco degli anni. Noi abbiamo avuto casi di farmaci rimasti sul mercato per molti anni, poi si è raggiunta una massa critica di eventi avversi che ha fatto capire che quel farmaco non andava bene e andava ritirato dal mercato. Non è una cosa nuova in medicina usare un medicinale per tanto tempo e poi scoprire che non è sicuro. Nemmeno i vaccini sfuggono a questa logica. Oltretutto il vaccino non incontra una condizione stabile come quella del farmaco che si dà per una specifica patologia che mediamente non cambia, qui impatta un virus che è in grado di modificarsi e cambiare la sua capacità di essere intercettato dal sistema immunitario. Quindi anche qui lavoriamo in una situazione che cambia continuamente".

Lei l’ha fatto il vaccino?
"Sì, sono stato vaccinato rapidamente con Pfizer perché all’epoca c’era solo questo per i sanitari.
Ma mi sarei sottoposto a vaccinazione in ogni caso.
Tutti noi dobbiamo dare disponibilità per aumentare le conoscenze.
Il rischio di accettare la vaccinazione possiamo farlo tutti.
Poi capisco le posizioni di chi è contrario all’obbligatorietà perché secondo me non dovrebbe essere così
ma, a parte questo, le vaccinazioni negli ultimi 50 anni hanno cambiato la storia dell’uomo.


E se rimarranno delle sacche di popolazione non vaccinate nei paesi poveri cosa succederà?
"Il virus continuerà a riemergere. Ho i mei dubbi che la popolazione del Mali o del Burkina Faso sarà vaccinata come quella di Rozzano.
La vaccinazione sulle malattie funziona se larga parte del mondo è vaccinata.
Quando tutti ci spostavamo in paesi tropicali eravamo costretti a fare la vaccinazione per la febbre gialla, l’epatite e quant’altro.
Se si va in un territorio e lì non c’è alcun tipo di protezione e i batteri e i virus circolano in maniera normale il rischio di ammalarsi è molto alto.
Il virus potrà arrivare dalle persone che non sono vaccinate.
Bisognerà capire quanto durerà l’immunità del vaccino, dopo quanto tempo bisognerà fare il richiamo…
insomma ci sono tanti aspetti non chiari della vaccinazione.
Anche perché in quei territori la mortalità si vede meno perché sono abitati da persone mediamente più giovani
che forse sviluppano la malattia in maniera asintomatica, e non abbiamo la percezione di una ecatombe come quella che vediamo nei paesi occidentali.
Lì potrebbe esserci una condizione che non vediamo e non conosciamo perché ci mancano i macroeventi, le morti a decine di migliaia di persone".

In che modo i medici di base possono collaborare alla campagna vaccinale?
"I medici potevano essere di aiuto, soprattutto all’inizio, nel selezionare le categorie
e le persone meritevoli di una vaccinazione anticipata, invece di ricorrere al banale criterio anagrafico.
Così non è stato fatto, ci si è affidati ad altri criteri (Legge 104 o assunzione di determinati farmaci, per esempio)
e così facendo si sono perse per strada tante persone.
Vaccinare nei nostri studi non sarebbe affatto facile perché avremmo il problema del rispetto del distanziamento, per esempio,
oltre al fatto che i medici di base devono visitare i pazienti, controllare i loro malati Covid, rispondere al telefono.
I vaccini vanno fatti in grandi hub, aperti tutto il giorno, superata l’emergenza ci sarà la possibilità di accedere liberamente,
quella deve essere la strada maestra.
Anche perché pensi a dover consegnare i vaccini a 44mila medici in tutta Italia
con la catena del freddo, diventa un lavoro improbo, non ce la farebbe nemmeno Amazon con i droni.
Non è che si può chiamare i medici famiglia solo quando le cose non funzionano, ognuno ha le sue competenze".
 
Una notizia come quella del presidente del Ciad,
morto in combattimento alla testa delle sue truppe,

probabilmente la stampa moderna non ha mai avuto occasione di scriverla.

In Inghilterra l’ultimo re a morire in battaglia fu Riccardo III al termine della guerra delle Due Rose (1485).

Nell’era contemporanea non si ha ricordo di sovrani sui campi di battaglia
se non si riporta indietro il tempo a San Martino e Solferino, 1859,
Seconda guerra d’Indipendenza, dove si fronteggiarono Vittorio Emanuele II, Napoleone III e Francesco Giuseppe.


Il presidente Idriss Déby, 68 anni, governava il Ciad dal 1990 quando aveva preso il potere con un colpo di Stato.
Militare di carriera, aveva perfezionato i suoi studi in Francia e aveva raggiunto il grado di maresciallo,
corrispondente ad un generale a quattro stelle.
La sua morte è giunta il giorno seguente ai risultati delle elezioni,
che lo avevano confermato per la sesta volta presidente, evento non ben gradito dalle opposizioni.



Aveva raggiunto gli avamposti del suo esercito impegnato a contrastare unità del gruppo ribelle del Fact,
Fronte per l’alternanza e la concordia in Ciad, creato nel 2016 da ex membri dell’esercito ciadiano
contrari al governo di Déby e stabilitosi al confine con la Libia, a nord del Paese, in un’area in gran parte desertica e disabitata.

È deceduto a seguito delle ferite riportate negli scontri che, secondo le fonti dell’esercito,
hanno costretto il ritiro delle unità ribelli che, a seguito delle elezioni, da alcuni giorni avevano attraversato il confine con la Libia
e si erano spinte a sud, fino ad arrivare ad alcune centinaia di chilometri dalla capitale N’Djamena.


Déby è morto pertanto da sovrano combattente in testa al suo esercito, anche se di epico e regale pare avesse ben poco.
Governava con l’autorità necessaria a mantenere saldo per decenni un regime che nominava e controllava tutti i poteri dello Stato.
Un regime che ha portato un Paese ricco di petrolio a classificarsi tra gli ultimi del pianeta in ogni indice:
povertà, mortalità infantile, aspettative di vita e alfabetizzazione.
Un Paese non libero ma utile a tutti e forte alleato dell’Occidente, soprattutto di Francia e Stati Uniti
che lo hanno ritenuto essenziale nella lotta al terrorismo nell’area del Sahel, dove ora opera anche una missione militare italiana.


L’esercito ha comunicato che il presidente sarebbe morto
esalando il suo ultimo respiro mentre difendeva la nazione sovrana sul campo di battaglia
e che ora Governo e Parlamento sono stati sciolti.

Il figlio trentasettenne del sovrano ucciso, Mahamat Idriss Déby, come da tradizione di ogni regno, pur se immaginario,
ha ereditato il potere e guiderà un governo provvisorio che porterà a nuove elezioni tra 18 mesi.

Certo è che l’instabilità del Ciad preoccupa non poco, per le ripercussioni che potrebbe avere in tutta l’area
e in particolare nella confinante Libia, da poco avviata in un processo di pacificazione.


La comunità tradizionale è tutt’altro che tranquilla e l’evacuazione di alcune ambasciate,
unita alla presenza dell’esercito in ogni angolo della capitale,
fa supporre che la situazione non sia sotto controllo e che possa essere suscettibile di ogni sviluppo.
 

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