Val
Torniamo alla LIRA
Ma resta un argomento assurdo pure per altri due motivi.
Intanto, perché non è l’unione coatta a scongiurare i massacri.
Spesso accade (ed è accaduto molte volte nella storia) esattamente il contrario.
Sono lì a dimostrarcelo le sorti dell’Impero austroungarico, imploso anche per l’irriducibile diversità delle nazioni che lo componevano,
da cui scaturì lo spirito irredentista delle minoranze oppresse.
Più di recente, basta pensare alla Jugoslavia dove un progetto in provetta di unione tra popoli con storie e tradizioni differenti
si è risolto – una volta cessato il regime dittatoriale che li cementava – in una guerra “civile” per riconquistare la libertà.
Con l’URSS, solo un miracolo ha impedito la stessa degenerazione.
In secondo luogo, ammesso e non concesso che l’unificazione tra Stati (e popoli) diversi sia una garanzia di pace tra le nazioni compartecipi del piano di unificazione,
non lo è di certo nei confronti degli Stati o delle alleanze di Stati esterni a quel piano.
Riflettete sul periodo della guerra fredda.
Forse non c’è mai stata un’epoca storica così densa di “unificazioni”.
Non a caso si parlava di mondo bipolare, di “due blocchi”: da un lato gli Stati Uniti d’America, dall’altro l’Unione Sovietica.
Ciascuna superpotenza era, a sua volta, contornata da un numero impressionante di staterelli inglobati nella sfera di influenza di uno dei due colossi.
Eppure, mai come allora siamo stati vicini a una devastante guerra mondiale, addirittura alla deflagrazione atomica totale.
A dimostrazione che unirsi in blocchi, federazioni, alleanze non è affatto garanzia di pace.
Implica, infatti, iniziare a competere con altri blocchi, altre federazioni, altre alleanze.
E in effetti, oggi ci sentiamo ripetere a ogni piè sospinto che l’Unione europea deve “rispondere alle sfide” dei grandi player globali come Cina, USA, ecc.,
oppure che deve rafforzare le proprie strutture interne in una logica di sempre maggiore coesione centralizzata per “competere” nell’arena globale.
Esattamente ciò di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo, come ricorderete.
Vi diranno: si tratta solo di competizione commerciale!
Ricordategli (lo abbiamo già evidenziato in precedenza) che è proprio questa logica “bellicosa” negli affari
ad aver condotto ai disastri dell’imperialismo e al primo conflitto mondiale.
E c’è dell’altro: non sta scritto da nessuna parte che popoli e nazioni dalla storia tribolata
non possano imparare a convivere pacificamente pur mantenendo i propri confini,
la propria autonomia politica e la propria indipendenza amministrativa.
Sono i decenni immediatamente successivi al ‘45 a dimostrarlo.
I migliori anni della “nostra” vita sono stati quelli successivi al termine della seconda guerra mondiale,
quando i popoli europei riuscirono a dimostrare a se stessi e all’intero pianeta di essere in grado di dar vita a uno dei periodi più prosperi,
pacifici e solidali della storia umana senza per questo rinunciare alle proprie libertà e sovranità nazionali.
Quel magico ventennio dalla fine degli anni Quaranta alla fine degli anni Sessanta
– prima dei successivi tumultuosi lustri della contestazione e del terrorismo rosso e nero –
fu caratterizzato da cooperazione, intra-europea, certo.
Ma senza alcuna delle sovrastrutture para- sovietiche che oggi, di fatto, inibiscono scelte e politiche, soprattutto economiche, ai singoli Stati del continente.
Insomma, non c’era Maastricht, non c’era Lisbona (intese come trattati), non c’erano l’attuale Commissione europea
(pur essendo stata introdotta una Commissione già nella CEE) né il Parlamento Europeo né la BCE. Eppure, la pace regnava sovrana.
Ma vi è di più.
Non solo la UE sicuramente non ci ha “garantito” la pace, come ci suggerisce la fallacia in esame,
ma (per una sfortunata coincidenza, beninteso) ci ha “portato” la guerra in casa; o, quantomeno, ci ha introdotto a un periodo storico
– quello successivo alla firma del Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 – in cui abbiamo nuovamente sperimentato
la belligeranza sul suolo europeo per la prima volta dopo la fine del secondo conflitto.
Ci riferiamo, ovviamente, alla contesa armata nella ex Jugoslavia costata oltre 100.000 morti e a cui anche lo Stato italiano diede il suo contributo tramite la NATO.
E vogliamo parlare dei costi della crisi?
In un interessante articolo apparso il 27 giugno 2018, Claudio Bernabè dimostra, grafici e statistiche alla mano,
come la crisi del 2008 (aggravata, se non proprio causata, dalla struttura della moneta unica e dalle politiche di austerity)
abbia determinato conseguenze peggiori, in termini di PIL per i cittadini europei, delle guerre mondiali:
"Da questo raffronto si evidenzia in maniera palmare che, mentre la seconda guerra mondiale
ha comportato pesanti perdite di reddito (complessivamente circa il 130% del Pil annuale),
ma molto concentrate in termini temporali, la crisi del 2008 e l’austerità ad essa associata
ha causato perdite più contenute in termini assoluti, ma costanti nel tempo (pari ad una perdita complessiva di oltre il 171% del Pil annuale). "
Detto in altre parole: "la prima guerra mondiale ha azzerato l’equivalente di 7 mesi di reddito,
la seconda guerra mondiale ne ha cancellati 16,
mentre la crisi 2008 e le politiche procicliche hanno cancellato l’equivalente 21 mesi di reddito (quasi due anni di stipendio)!
Ma non basta! La perdita di reddito causato dalle due guerre mondiali messe insieme
sono paragonabili a quella che abbiamo avuto dal 2008 ad oggi, e la crisi non è ancora finita!"
Alla luce di questi dati potremmo addirittura concludere come segue:
il miglior modo per rispondere a chi usa l’argomento ad misericordiam
(per indurci ad avallare in tutto e per tutto, e fino in fono, il grande sogno degli Stati Uniti d’Europa)
è ricordargli che, proprio “ad misericordiam” – e cioè per il bene di tutti i popoli europei –
sarebbe meglio far finire al più presto questo esperimento scellerato.
Chi usa tale argomento vi sta imbrogliando, felice di farlo.
Onde rintuzzarne le intenzioni e disinnescare l’efficacia del “trucco”, è sufficiente un po’ di conoscenza della storia europea e mondiale.
Intanto, perché non è l’unione coatta a scongiurare i massacri.
Spesso accade (ed è accaduto molte volte nella storia) esattamente il contrario.
Sono lì a dimostrarcelo le sorti dell’Impero austroungarico, imploso anche per l’irriducibile diversità delle nazioni che lo componevano,
da cui scaturì lo spirito irredentista delle minoranze oppresse.
Più di recente, basta pensare alla Jugoslavia dove un progetto in provetta di unione tra popoli con storie e tradizioni differenti
si è risolto – una volta cessato il regime dittatoriale che li cementava – in una guerra “civile” per riconquistare la libertà.
Con l’URSS, solo un miracolo ha impedito la stessa degenerazione.
In secondo luogo, ammesso e non concesso che l’unificazione tra Stati (e popoli) diversi sia una garanzia di pace tra le nazioni compartecipi del piano di unificazione,
non lo è di certo nei confronti degli Stati o delle alleanze di Stati esterni a quel piano.
Riflettete sul periodo della guerra fredda.
Forse non c’è mai stata un’epoca storica così densa di “unificazioni”.
Non a caso si parlava di mondo bipolare, di “due blocchi”: da un lato gli Stati Uniti d’America, dall’altro l’Unione Sovietica.
Ciascuna superpotenza era, a sua volta, contornata da un numero impressionante di staterelli inglobati nella sfera di influenza di uno dei due colossi.
Eppure, mai come allora siamo stati vicini a una devastante guerra mondiale, addirittura alla deflagrazione atomica totale.
A dimostrazione che unirsi in blocchi, federazioni, alleanze non è affatto garanzia di pace.
Implica, infatti, iniziare a competere con altri blocchi, altre federazioni, altre alleanze.
E in effetti, oggi ci sentiamo ripetere a ogni piè sospinto che l’Unione europea deve “rispondere alle sfide” dei grandi player globali come Cina, USA, ecc.,
oppure che deve rafforzare le proprie strutture interne in una logica di sempre maggiore coesione centralizzata per “competere” nell’arena globale.
Esattamente ciò di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo, come ricorderete.
Vi diranno: si tratta solo di competizione commerciale!
Ricordategli (lo abbiamo già evidenziato in precedenza) che è proprio questa logica “bellicosa” negli affari
ad aver condotto ai disastri dell’imperialismo e al primo conflitto mondiale.
E c’è dell’altro: non sta scritto da nessuna parte che popoli e nazioni dalla storia tribolata
non possano imparare a convivere pacificamente pur mantenendo i propri confini,
la propria autonomia politica e la propria indipendenza amministrativa.
Sono i decenni immediatamente successivi al ‘45 a dimostrarlo.
I migliori anni della “nostra” vita sono stati quelli successivi al termine della seconda guerra mondiale,
quando i popoli europei riuscirono a dimostrare a se stessi e all’intero pianeta di essere in grado di dar vita a uno dei periodi più prosperi,
pacifici e solidali della storia umana senza per questo rinunciare alle proprie libertà e sovranità nazionali.
Quel magico ventennio dalla fine degli anni Quaranta alla fine degli anni Sessanta
– prima dei successivi tumultuosi lustri della contestazione e del terrorismo rosso e nero –
fu caratterizzato da cooperazione, intra-europea, certo.
Ma senza alcuna delle sovrastrutture para- sovietiche che oggi, di fatto, inibiscono scelte e politiche, soprattutto economiche, ai singoli Stati del continente.
Insomma, non c’era Maastricht, non c’era Lisbona (intese come trattati), non c’erano l’attuale Commissione europea
(pur essendo stata introdotta una Commissione già nella CEE) né il Parlamento Europeo né la BCE. Eppure, la pace regnava sovrana.
Ma vi è di più.
Non solo la UE sicuramente non ci ha “garantito” la pace, come ci suggerisce la fallacia in esame,
ma (per una sfortunata coincidenza, beninteso) ci ha “portato” la guerra in casa; o, quantomeno, ci ha introdotto a un periodo storico
– quello successivo alla firma del Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 – in cui abbiamo nuovamente sperimentato
la belligeranza sul suolo europeo per la prima volta dopo la fine del secondo conflitto.
Ci riferiamo, ovviamente, alla contesa armata nella ex Jugoslavia costata oltre 100.000 morti e a cui anche lo Stato italiano diede il suo contributo tramite la NATO.
E vogliamo parlare dei costi della crisi?
In un interessante articolo apparso il 27 giugno 2018, Claudio Bernabè dimostra, grafici e statistiche alla mano,
come la crisi del 2008 (aggravata, se non proprio causata, dalla struttura della moneta unica e dalle politiche di austerity)
abbia determinato conseguenze peggiori, in termini di PIL per i cittadini europei, delle guerre mondiali:
"Da questo raffronto si evidenzia in maniera palmare che, mentre la seconda guerra mondiale
ha comportato pesanti perdite di reddito (complessivamente circa il 130% del Pil annuale),
ma molto concentrate in termini temporali, la crisi del 2008 e l’austerità ad essa associata
ha causato perdite più contenute in termini assoluti, ma costanti nel tempo (pari ad una perdita complessiva di oltre il 171% del Pil annuale). "
Detto in altre parole: "la prima guerra mondiale ha azzerato l’equivalente di 7 mesi di reddito,
la seconda guerra mondiale ne ha cancellati 16,
mentre la crisi 2008 e le politiche procicliche hanno cancellato l’equivalente 21 mesi di reddito (quasi due anni di stipendio)!
Ma non basta! La perdita di reddito causato dalle due guerre mondiali messe insieme
sono paragonabili a quella che abbiamo avuto dal 2008 ad oggi, e la crisi non è ancora finita!"
Alla luce di questi dati potremmo addirittura concludere come segue:
il miglior modo per rispondere a chi usa l’argomento ad misericordiam
(per indurci ad avallare in tutto e per tutto, e fino in fono, il grande sogno degli Stati Uniti d’Europa)
è ricordargli che, proprio “ad misericordiam” – e cioè per il bene di tutti i popoli europei –
sarebbe meglio far finire al più presto questo esperimento scellerato.
Chi usa tale argomento vi sta imbrogliando, felice di farlo.
Onde rintuzzarne le intenzioni e disinnescare l’efficacia del “trucco”, è sufficiente un po’ di conoscenza della storia europea e mondiale.