MI SONO SEMPRE CHIESTA: MA CHI VA IN GIRO A COSTRUIRE QUADRATI SULL'IPOTENUSA?

Alexandria Ocasio Cortez è la nuova beniamina della sinistra occidentale.

La “novità”, l’esponente in grado d’incarnare un rinnovamento tanto atteso,
che i democratici occidentali vorrebbero veder compiuto il prima possibile.
Per poter tornare a dire la loro in un consesso – quello elettorale – che li ha quasi privati del diritto alla cittadinanza.

Le sconfitte subite con Trump, Brexit e referendum costituzionale italiano hanno lasciato una ferita profonda.
La più giovane deputata della storia degli Stati Uniti non si può candidare alla Casa Bianca, ma poco importa:
i limiti anagrafici non le vietano di dettare l’agenda a tutti.


E poi c’è quella usanza, tanto cara ai progressisti europei, di adagiarsi addosso al fenomeno del momento.

Una volta bisognava dirsi obamiani, poi macroniani, oggi, magari, corteziani.
Qualcuno potrebbe pensare a una sindrome d’inferiorità di derivazione esterofila.
Pure il centrosinistra italiano, di questi tempi, è alla ricerca di un modello politico – comunicativo da contrapporre al sovranismo.

La Cortez è perfetta: è giovane, ha il suo peso in termini d’influenza social, è ambientalista, è sostenuta dall’élite,
ma non proviene dalle classi agiate – è e rimane una fiera ex bartender – , ma soprattutto dice le cose che piacciono alla gente che piace.

L’ultima domanda inoltrata ai suoi concittadini in ordine di tempo ha un retrogusto neoliberal:
è giusto – si è chiesta la deputata di Brooklyn – continuare a fare figli, considerando il cambiamento climatico in atto?

Alexandria Ocasio Cortez viene rappresentata come un prodotto sandersiano
– figlia della diffusione di idee radicali e operaistiche – ma è una globalista come tutti i suoi predecessori.

Trump l’ha inquadrata senza difficoltà: ieri, durante il discorso tenuto al Cpac,
ha citato il “Green New Deal“, facendo capire come quel manifesto programmatico
– sposato da più di qualche candidato alle primarie degli asinelli – sia distante dalla realtà: “né aerei né elettricità”.

Provateci voi – insomma – a rimanere fedeli al Make America Great Again
lo slogan sovranista per antonomasia – tornando a viaggiare su rotaie.


Il grande piano mbientalista è, in sintesi, un insieme di proposte utopistiche,
condite dalle coperture sanitarie garantite a tutti,
l’innalzamento dei minimi salariali e, pare,
un accenno a una forma estensiva di reddito di cittadinanza.

Un po’ di marxismo di ritorno, un po’ d’ideologismi new age, antiaziendalismo,
antimilitarismo euna discreta dose d’istanze radical chic:
l’ambiente – leggasi la domanda presentata sopra – è prioritario rispetto alle politiche familiari.
Con buona pace dei militanti pro life a stelle e strisce, quelli sì, attratti come non mai dal populismo, ma di marca conservatrice.

Certo la Cortez non è una sovranista tout court:
Nei suoi discorsi si fa spesso riferimento alle necessità di tutelare i migranti e di rendere sempre più aperti i confini.
E così – com’è del resto anche per papa Francesco – la Sacra Famiglia è diventata un’icona pro accoglienza.

Bioetica, gestione dei fenomeni migratori e giustizia sociale separano il campo dei sovranisti da quello dei globalisti.

La Cortez, almeno per due ambiti su tre, gioca nella metà dell’arena dove la sinistra occidentale è già scesa da qualche decennio.
Non c’è grossa differenza tra questa giovane deputata di New York e la propaganda di chi l’ha preceduta sul lato left wing.
Ci sono narrative diverse, modi di comunicare differenti e look meglio assortiti.
Per convincere gli storici elettori di sinistra a rimettersi in fila nelle cabine elettorali, forse, servirà qualcos’altro.
Bernie Sanders
lo sa e, per quanto gli analisti usino associare la Cortez ha la sua figura, procede spedito in tutt’altra direzione.
 
A prescindere dal contenuto e contro chi è stato scritto.
Questo signore è "un sindaco". Eletto dai cittadini.
E presidente di provincia eletto da altri sindaci (se lui è il meglio chissà gli altri)
Fa parte delle istituzioni, seppur locali.
Ed è responsabile - più degli altri - del suo profilo sociale.
Non credo possa insultare chiunque e poi giustificarsi come ha fatto.
Il suo profilo viene usato anche dai famigliari e dai collaboratori? Lui ne è il responsabile.
Non si degna neppure di cercare nella sua cerchia di collaboratori il colpevole perchè sa chi è stato......
Classico esempio di personalità PD.


Polemiche à gogo. Smentita categorica del diretto interessato
che sempre su Facebook ha smentito di aver scritto lui quel commento:

"Tanto clamore per nulla. Non ho scritto io sotto il post di Salvini.
Purtroppo il mio profilo personale non è utilizzato soltanto da me, ma anche da familiari e collaboratori.
Inoltre io firmo sempre con nome e cognome i miei post o i commenti,
sia che vengono fatti con il profilo personale, che con quello istituzionale del Comune o della Provincia".
"Oggi sinceramente ero impegnato per le primarie del Pd e avevo altro a cui pensare:
ovviamente mi scuso per il malinteso. Anche se non condivido nulla del politico di Salvini
e dei suoi modi di esprimersi, ho rispetto per quello che rappresenta dal punto di vista istituzionale".

Sotto a questo post di Matteo Salvini pubblicato su Facebook fa capolino il commento "Ma sparati",
firmato dal profilo Fb di Michele Strianese. Il tutto datato 28 gennaio.

Strianiese è sindaco di San Valentino di Torio e presidente della provincia di Salerno.
Motivo per il quale la cosa, ovviamente, non è passata inosservata.
 
Diciamocela francamente. E' uno dei peggiori. Ed è "francese".

"Ci sono stati malintesi tra Italia e Francia ma bisogna andare oltre", ha detto il presidente francese.
"I malintesi e le peripezie più recenti non sono gravi, bisogna andare oltre: ci sono state affermazioni un po' eccessive.
Quello che dobbiamo ai nostri popoli è andare oltre".
Poi il leader di EnMarche! ha parlato di Europa, dell'accordo di Aquisgrana,
della pressione cinese e ha infine provato a mettere in guardia dal ritorno del nazionalismo.

Mentre la politica digerisce l'intervista, sulle domande di Fazio si scatena un polverone di polemiche.

Ne sono mancate altre, in particolare quelle sui temi caldi che hanno contrapposto Parigi a Roma.

Un esempio? Nessuna richiesta di chiarimento sulle incursioni della Gendarmerie francese
al confine italiano tra Claviere e Bardonecchia, oppure sui respingimenti
o sulla condanna della Cedu per il trattamento dei minori richiedenti asilo.

A far scattare sulla sedia, però, è stato un altro passaggio,quello in cui il conduttore ha ricordato come

"si dice che Parigi sia la capitale d'Italia anche per quanti sono gli italiani che abitano qui e anche viceversa".

L'affermazione non è piaciuta. "Servo tra i servi, Fazio intervista Macron.
Dato che è pagato con milioni di italianissimi euro per dire che l'Italia è una colonia francese,
sarebbe bene fosse spedito a farsi stipendiare dai suoi amici d'oltralpe".
 
Una semplice domanda al sig. visco.
Chi ha comprato l'oro ? Quando è stato comprato ?
Quando l'ente era di proprietà del ministero ? Ne tragga le conclusioni.

Riserve auree nazionali, Ignazio Visco insiste: non appartengono al popolo italiano ma a Bankitalia.

Per il governatore di Palazzo Koch si tratterebbe di una risorsa che non può essere utilizzata per il finanziamento monetario del Tesoro.

Visco sottoliena anche che l’oro degli italiani è «piccola componente delle attività del bilancio”.
“L’oro di Banca d’Italia ammonta tra gli 80 e i 90 miliardi a seconda del prezzo del giorno.
Questi 85 miliardi sono parte di attività complessive che sono di 900 miliardi e sono del 10%».
 
La Repubblica Italiana, orfana della leva monetaria ceduta alla BCE già alla fine degli anni ‘90
e totalmente vincolata, per quanto concerne la leva fiscale, agli impegni improvvidamente assunti
con il “Patto di Stabilità e crescita” del 1997, con il “Trattato di Lisbona” del 2007
e con il “Patto di bilancio europeo” o “Fiscal Compact” del 2012,
da molti anni ha rinunciato a qualsiasi forma di sostegno alla domanda aggregata, con effetti macroeconomici deleteri.

È noto che secondo la dottrina di Keynes, per ogni punto di spesa pubblica in più
il c.d. “moltiplicatore” incrementa il PIL in modo più che proporzionale rispetto allo stock di debito,
di modo che il rapporto debito/PIL migliora. Per ogni punto di spesa pubblica in meno,
invece, il c.d. “moltiplicatore” riduce il PIL in modo più che proporzionale rispetto allo stock di debito,
di modo che il rapporto debito/ PIL peggiora.

Un recente studio del Fondo Monetario Internazionale a cura di Nicoletta Batini,
Giovanni Callegari e Giovanni Melina conferma che un taglio della spesa pubblica dell’1% del PIL
provoca un calo del PIL fino al 2,56% per l’Eurozona, del 2% per il Giappone e del 2,18% per gli Stati Uniti.

Per l’Italia si va dall’1,4% all’1,8%. I dati storici della finanza pubblica italiana degli ultimi tre anni confermano decisamente questo assunto.
Se il governo Berlusconi aveva lasciato un rapporto debito/PIL del 120,10%,
le politiche di austerità dei governi Monti e Letta hanno sensibilmente peggiorato tale rapporto portandolo,
secondo le stime OCSE per il 2014, al 134,2%.

Una politica economica espansiva, al contrario, non solo avrebbe prodotto effetti virtuosi
sul rapporto debito/PIL, ma avrebbe anche cagionato un aumento del gettito tanto delle imposte erariali,
quanto della contribuzione INPS, in conseguenza dell’accrescimento della base imponibile.

In tal modo, sarebbero stati superflui gli aumenti della pressione fiscale e i tagli alla spesa pubblica,
in particolare le immancabili riforme della previdenza con relativo aumento dell’età pensionabile,
nonostante un bilancio INPS la cui tenuta di lungo periodo è stata confermata anche nel febbraio 2014 dall’Istituto.

Le politiche di austerità, a livello teorico, su fondavano sul noto studio del 2010
di Rogoff e Reinhart sul rapporto tra crescita e debito pubblico, clamorosamente confutato
dal successivo studio di Thomas Herndon, Michael Ash e Robert Pollin dell’Università di Amherst del Massachusetts.

In Italia, i sostenitori dell’austerità si sono basati anche sull’errato argomento
secondo cui il debito pubblico dipende da un eccesso di spesa pubblica.

Per quanto concerne, ad esempio, la spesa per il pubblico impiego,
un recente studio ha dimostrato che la quota di dipendenti pubblici in Italia è solo del 5,8% sul totale della popolazione,
contro il 9,2% del Regno Unito e il 9,4% della Francia
.

Ma l’argomento più forte è sempre fornito dai dati storici: dal 1991 al 2008,
l’Italia ha costantemente registrato un “avanzo primario”
,
cioè una differenza tra entrate e spese dello Stato, al netto degli interessi, in attivo.
L’attuale stock di debito pubblico si è formato negli anni ’80 esclusivamente in conseguenza
di un evento storico ancora poco conosciuto, ma di fondamentale importanza nella storia economica
e politica dell’Italia unitaria: il famigerato “divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro”.
 
Fino al 1981, l’Italia godeva di una piena sovranità monetaria
garantita dalla proprietà pubblica dell’istituto di emissione, “ente di diritto pubblico”
ai sensi della legge bancaria del 1936, controllato dallo Stato
per il tramite delle “banche di interesse nazionale” e degli “istituti di credito di diritto pubblico”.

Dal 1975 la Banca d’Italia si era impegnata ad acquistare tutti i titoli non collocati presso gli investitori privati
.
Tale sistema garantiva il finanziamento della spesa pubblica e la creazione della base monetaria, nonché la crescita dell’economia reale.

Lo Stato poteva attingere, fino al 1993, a un’anticipazione di tesoreria presso la Banca d’Italia
per il 14% delle spese iscritte in bilancio e deteneva, fino al 1992, il potere formale di modificare il tasso di sconto.

E’ peraltro degno di nota che fino al 1981, contrariamente al luogo comune che la vorrebbe “spendacciona”
e finanziariamente poco virtuosa, l’Italia aveva la quota di spesa pubblica in rapporto al PIL più bassa tra gli Stati Europei:
il 41,1% contro il 41,2% della Repubblica Federale Tedesca, il 42,2% del Regno Unito, il 43,1% della Francia,
il 48,1% del Belgio e il 54,6% dei Paesi Bassi. Il rapporto tra debito pubblico e PIL era fermo nel 1980 al 56,86%.

Il 12 febbraio 1981 il Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta
scrisse al Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi
una lettera che sancì il “divorzio” tra le due istituzioni.


Il provvedimento, formalmente giustificato dall’intento del controllo delle dinamiche inflattive
generatesi a partire dallo shock petrolifero del 1973 e susseguente all’ingresso dell’Italia nel Sistema Monetario Europeo (SME),
ebbe effetti devastanti sulla politica economica italiana.

Dopo il divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro, lo Stato dovette collocare i titoli del debito pubblico
sul mercato finanziario privato a tassi d’interesse sensibilmente più alti.

In conseguenza di ciò, durante gli anni ’80 si assistette a una vera e propria esplosione della spesa per interessi passivi.

Se alla fine degli anni ’60 essa si assestava poco sopra il 5%, nel 1995 aveva raggiunto circa il 25%.
Il tasso di crescita della spesa per interessi tra il 1975 e il 1995 fu del 4000%.

In valori assoluti, la spesa per interessi passivi, sostanzialmente stazionaria fino a quell’anno,
passò dai 28,7 miliardi di Lire del 1981 ai 39 dell’anno successivo, fino ai 147 del 1991.

Negli anni ‘80 il rapporto tra spesa pubblica e crescita del PIL fu praticamente stabile.
Il deficit salì invece, proprio nell’anno del divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro (1981), al 10,87 % rispetto al 6,97% del 1980,
mantenendosi su tale valore per tutto il decennio successivo.

La crescita del deficit annuo rispetto al PIL, derivante dalla spesa per interessi passivi,
portò in pochi anni il rapporto debito/PIl dal 56,86 del 1980 al 94,65% del 1990, fino al 105,20% del 1992.

Tale rapporto, nonostante le politiche di austerità degli ultimi 20 anni, non è diminuito ma è rimasto stabile fino alla crisi finanziaria del 2008.

I dati macroeconomici della crescita del deficit e del debito rispetto al PIL,
non dipendendo da aumenti della spesa corrente o per investimenti; essi sono interamente imputabili
alla spesa per interessi passivi esplosa in conseguenza del divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro
,
il cui ruolo nella crescita dello stock di debito pubblico fu ammesso dallo stesso Andreatta nel 1981:

“Naturalmente la riduzione del signoraggio monetario e i tassi di interesse positivi in termini reali
si tradussero rapidamente in un nuovo grave problema per la politica economica,
aumentando il fabbisogno del Tesoro e l’escalation della crescita del debito rispetto al prodotto nazionale.
Da quel momento in avanti la vita dei ministri del Tesoro si era fatta più difficile
e a ogni asta il loro operato era sottoposto al giudizio del mercato”.


Come riconosciuto da Andreatta, il divorzio nacque come “congiura aperta” tra Ministro del Tesoro e Governatore della Banca d’Italia,
“nel presupposto che a cose fatte, sia poi troppo costoso tornare indietro”.

Esso segnò una tappa importante in quel processo eversivo della nostra Costituzione economica,
iniziato nel 1979 e culminato tra il 1992 e il 2002 con la firma del Trattato di Maastricht e la definitiva introduzione dell’Euro
.
 
Una nuova concezione della politica economica non più indirizzata
verso i valori sociali fondamentali del moderno Stato nazionale sovrano,
ovvero la tutela della sovranità nazionale, la piena occupazione e l’estensione della sicurezza sociale,
ma unicamente verso principi quali l’indipendenza delle banche centrali,
la “stabilità dei prezzi”, il “pareggio di bilancio” e la “banca universale
dedita simultaneamente all’attività di deposito e risparmio da un lato, e di speculazione finanziaria dall’altro.

Una concezione economica in cui il ruolo centrale non è più quello dello Stato Nazionale Sovrano,
ma quello delle banche, ormai titolari incontrastate del controllo della leva monetaria
in un sistema in cui la “moneta bancaria” soppianta la “moneta statale” e in cui la speculazione finanziaria
muove un giro d’affari pari a molte volte il PIL delle principali Nazioni del mondo.

Nell’anno del fallimento di Lehman Brothers e dell’inizio della più devastante crisi economica della nostra storia,
il rapporto debito/PIL italiano era al 106,09%, per poi superare in pochi anni il 130%.

La crisi ebbe origine nell’espansione abnorme del mercato dei derivati, dei mutui immobiliari e della finanza speculativa privata,
ormai affrancata dai vincoli che sotto il regime dell’abrogato “Glass-Steagall Act” americano
e della legge bancaria italiana del 1936, vietavano l’esercizio congiunto dell’attività bancaria di deposito e risparmio da un lato
e di speculazione finanziaria dall’altro. Immancabile fu il conseguente contagio nei confronti della finanza pubblica,
indotto da un triplice ordine di fattori:
- la decisione dei governi occidentali e del Giappone di impiegare, a spese dei contribuenti,
l’enorme somma di 30.000 miliardi di dollari per il salvataggio delle banche private;
- l’effetto “spread” sui titoli di Stato nei paesi periferici dell’eurozona, in conseguenza del c.d. “ciclo di Frenkel”
generatosi a seguito dei differenziali inflattivi interni all’area valutaria non ottimale dell’Eurozona;
- i contraccolpi negativi delle politiche di austerità, con conseguente riduzione del PIL, della base imponibile e del gettito fiscale.

Si osservi per inciso che mentre ai Governi è preclusa ogni forma di spesa a deficit,
in nome del controllo dell’inflazione e della stabilità dei prezzi,
sull’altare del salvataggio delle banche si bruciano somme pari a diverse volte il valore del PIL di una grande Nazione industriale,
senza che peraltro questo comporti spirali inflattive di sorta.

Ed è opportuno rammentare che il controllo dell’inflazione fu il pretesto usato per il divorzio
tra Banca d’Italia e Tesoro nel 1981, benché fosse già allora chiaro che non è l’offerta di moneta a generare inflazione
,
almeno nella misura in cui l’incremento della base monetaria va a finanziare spese di investimento
e a movimentare risorse economiche reali non utilizzate, ma è la crescita dei prezzi dovuta a fattori esogeni
(negli anni ’70, lo shock petrolifero del 1973 e la nuova politica dell’OPEC) a generare una crescita della base monetaria.
Senza tenere conto che un’inflazione non elevata, ma più alta di quella attuale
consente allo Stato di finanziarsi in regime di “repressione finanziaria”, ovvero a un tasso più basso di quello di inflazione.

Gli Italiani devono prendere coscienza, come cittadini e come Nazione,
che tutti i giudizi sommari e incompetenti sulla storia economica italiana recente,
regolarmente propinati da stampa, televisione e politici alla popolazione,
sono completamente smentiti dai reali dati storici e dalle statistiche macroeconomiche.


Dalla fondazione della Repubblica al Trattato di Maastricht,
l’Italia fu per quasi cinquant’anni il primo Stato al mondo per crescita economica,
diventando negli anni Ottanta la quinta potenza economica mondiale per Prodotto Interno Lordo in valori assoluti.

Ciò avvenne grazie alla proficua sinergia tra l’iniziativa imprenditoriale privata
e gli investimenti pubblici nelle industrie a partecipazione statale, nelle grandi infrastrutture nazionali e nello stato sociale.

Ma la chiave di volta del miracolo italiano fu il pieno controllo della “leva monetaria”
e della Banca d’Italia da parte del Ministero del Tesoro, nel quadro della normativa dettata dalla legge bancaria del 1936
.

Un sistema destinato a sgretolarsi nel trentennio successivo alla famosa lettera di Andreatta del 1981,
con i drammatici risultati che oggi noi constatiamo.
 
Ahahahahah
1551769587
 
Certo, c'era da aspettarsi che un'intervista, anzi un monologo, così triste, grigio,
virato sui massimi sistemi, senza mordente e, soprattutto, senza domande ficcanti, non avrebbe entusiasmato gli spettatori.

Però, farsi addirittura battere da Paperissima avendo in canna un interlocutore eccezionale
come Emmanuel Macron, beh, fa un po' ridere... Domenica sera è andata proprio così:
il colloquio di Fabio Fazio con il presidente della Repubblica francese è stato sconfitto dal programma di gaffe e capitomboli di Canale 5.

Questi i dati: nel periodo di sovrapposizione (dalle 21,01 alle 21,29) Paperissima ha realizzato il 17,22 per cento di share con 4.430.000 spettatori,
mentre Che tempo che fa si è fermato al 15,91 con 4.085.000 spettatori.

Intendiamoci, la trasmissione di Fazio in sé non fatto un flop, si è tenuta più o meno sugli stessi risultati delle precedenti domeniche.
Il fatto è che, proponendo un'intervista con un capo di governo al centro di grandi conflitti con quello italiano
di cui tanto si è parlato nelle ultime settimane, ci si aspettava un dato ben più alto.

Ma Che tempo che fa si è tenuto i suoi affezionati fan che, qualunque cosa venga loro proposta, restano incollati a Raiuno alla domenica.
Il resto del pubblico che guardava la tv subito dopo i tiggì serali, ha preferito farsi due sane risate
con le papere inventate da Antonio Ricci (che alla domenica sostituiscono Striscia la notizia).

E, qui, c'è da chiedersi come mai gli italiani, anche i malpancisti-sovranisti-populisti che non sopportano i governanti francesi
e la loro politica (secondo loro) anti-italiana, non abbiano preferito ascoltare cosa aveva da dire Macron
dopo le porte sbattute in faccia dal duo Salvini-Di Maio.

Forse, perché, dopo dieci minuti di lezione di storia, geopolitica, filosofia, economia, letteratura,
si sono rotti le scatole e hanno girato su Canale 5. Se Fazio gli avesse chiesto qualcosa sui gilet gialli
(confusi dentro una domanda sull'antisemitismo), sugli immigrati rispediti indietro al confine illegalmente,
sulle Ong eliminate dal mediterraneo, sulle accuse contro di lui formulate dai nostri vice-premier,
magari si sarebbero incollati su Raiuno. Invece, nulla, una lezione di mezz'ora da tenere alla Sorbona, non su Raiuno.
Che forse servirà, almeno, al tentativo di Mattarella di ricucire i rapporti tra Francia e Italia.

Comunque, nell'ambito delle cose che fanno ridere, c'è da annoverare la precisazione fatta da Fazio prima di mandare in onda l'intervista.

«Mi sono pagato da solo il biglietto di andata e ritorno per Parigi e dunque nessun costo per la Rai».

Il presentatore lo ha detto in riferimento a polemiche dei giorni precedenti,
comunque ci mancherebbe che non si pagasse il biglietto essendo il produttore «chiavi in mano»
del programma e quindi tutti i costi vanno sul conto della sua società, l'Officina,
che si prende una decina di milioni l'anno per produrlo esternamente alla Rai.
 
Ma dai. Non cadere dalle nuvole. Ce ne sono stati in passato.....eh se ce ne sono stati.......

Il numero dei votanti è 269, ma le schede valide per il conteggio finale sono 368.

E' scritto così, tra lo sconcerto generale, sul verbale relativo alle votazioni per le
primarie del Partito Democratico nel seggio di Luzzi valle (ex fornace Dima)
e ora Michele Dima, componente della direzione provinciale Pd Cosenza,
chiede l'invalidazione del seggio e il commissariamento della sezione locale del partito.

«Dopo i brogli di domenica - ha scritto - ho appena inviato formalmente richiesta al segretario
Luigi Guglielmelli
e per conoscenza al commissario regionale Pd Calabria».

La rabbia nelle parole di Dima
«Dopo un attentato del genere alla democrazia da parte dei signori del Pd
- scrive ancora il giovane attivista politico -, penso sia doveroso da parte di chi crede nella politica,
chiedere formalmente che si ristabiliscano le regole democratiche.
Stiamo cercando senza sosta di passare dalle parole ai fatti, è proprio così che vogliamo
riconquistare la fiducia dei cittadini, che ormai non credono più nella politica.
Non indietreggeremo fino a quando questa vicenda non sarà chiusa definitivamente,
noi non abbiamo paura, noi affrontiamo la realtà a testa alta».
 

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