OT: Topic del cazzeggio

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Il SecoloXIX/Rolli
 
C’è un paese il cui presidente uscente rifiuta la sconfitta elettorale e lancia accuse infondate di brogli contro l’avversario; un presidente che dieci giorni dopo il voto continua a proclamarsi vincitore, rifiuta una transizione pacifica e si è chiuso nel suo palazzo dopo averlo circondato da un muro. A un suo cenno, milizie tribali a lui fedeli, e armate, possono far precipitare il paese nel caos.
Comprensibilmente, penserete che questo post sia dedicato a una nazione africana della fascia sub-sahariana. Invece no. Parla degli Stati Uniti d’America, il paese che più di ogni altro dovrebbe rappresentare e difendere il sistema democratico occidentale. Nella divertente dimostrazione di una paradossale inversione dei ruoli, l’araba @noor twitta che per uscire dalla sua impasse “l’America ha bisogno della soluzione dei due stati”. E il keniota @gathara spiega che “mentre montano le pressioni sul despota americano perché accetti il risultato, una fonte del team dei mediatori dell’Unione Africana rivela che lo staff di Trump ha fatto circolare l’idea di un governo di unità nazionale con Joe Biden primo ministro”.
Dopo aver promesso che una transizione tranquilla ci sarà – quella dal primo al secondo mandato Trump – il segretario di Stato Mike Pompeo ha ricordato che “il mondo ci sta guardando”. E’ vero, ma non come pensa lui: Vladimir Putin e Ji Xinping osservano con entusiasmo e partecipazione il quotidiano discredito del Paese e del modello politico concorrenti ai loro; gli alleati con smarrimento; i paesi del Terzo mondo, quelli in cerca di stabilità che hanno conosciuto la presunzione americana di portare la democrazia agli affamati, con divertita rivalsa. Nessuno ha guardato per le ragioni che Pompeo crede esistano (probabilmente barando anche con se stesso).
Perché tutto questo, perché questa discesa nei bassifondi dell’egocentrismo fino a devastare il sistema politico, l’alternanza di potere, i check and balance che sostengono e moralmente giustificano il ruolo dell’America nel mondo? L’ambizione sfrenata, l’imprevedibilità, l’ignoranza politica e la deficitaria statura morale non bastano a spiegare una vicenda che non ha precedenti nella storia del paese. Qualcosa forse di vagamente paragonabile è l’elezione di Abraham Lincoln nel 1860, che qualche mese più tardi portò alla secessione degli stati del Sud.
La mia impressione è che Donald Trump sia in campagna elettorale. Non quella del voto della settimana corsa. La vanità di Trump che ammette solo la vittoria, pulita o comprata che sia, ha ancora bisogno di qualche giorno per digerire il rospo e accettare tutti i parafernalia della transizione: la concessione pubblica, il colpo di telefono all’avversario, il te fra le due first ladies, la visita guidata alla Casa Bianca. Anche quando ammetterà la sconfitta, queste cose probabilmente non le vedremo. No, la campagna elettorale in corso riguarda due elezioni che devono ancora avvenire.
La prima è quella dell’inizio di gennaio in Georgia per due seggi senatoriali. In quello stato la legge prevede che si vada al ballottaggio anche se i candidati sono solo due, nel caso in cui il vincitore del primo turno non superi il 50%. Qualora i due vincitori repubblicani confermassero il vantaggio, il Senato di Washington avrà una maggioranza repubblicana. Questo sarà fondamentale per il successo nel secondo voto per il quale Trump è già in campagna, facendo ostruzionismo alla limpida vittoria di Biden: le presidenziali del 2024.
Con un Senato nelle mani del fedelissimo Mitch McConnell, il capogruppo repubblicano, il partito eleverà una muraglia davanti a tutte le riforme di Biden. La guerriglia vietcong organizzata contro Barack Obama e la sua riforma sanitaria sarà uno scherzo, al confronto. L’obiettivo è far fallire la presidenza democratica e aprire la strada al ritorno trionfale di Trump come accadde solo a Grover Cleveland nel 1893, che fu il 22° e 24° presidente.
Ai più, noi del “mainstream”, come veniamo chiamati dai populist/sovranisti trinariciuti (quest’ultimo un vecchio termine che usava Indro Montanelli per indicare la base del Pci pre-berlingueriano), non sembrerà un’efficace campagna elettorale violare tutte le regole possibili del vivere comune in una democrazia. Ma probabilmente Trump ha ragione, pensando ai 71 milioni di elettori che hanno blindato il suo potere sul Partito repubblicano e sono la sua dote per il 2024: se hanno accettato con entusiasmo i quattro terrificanti anni della sua presidenza, non può che eccitarli quello che stanno vedendo ora: Washington come Bamako. Next stop, Atlanta Georgia.
Il Sole 24 ore/Tramballi
 
Boris Johnson has reiterated he is "confident [the UK] will prosper" outside the EU if a post-Brexit trade deal is not agreed with the bloc.
:bow: :clap::DD:


EU Official: On Chances For UK Trade Deal - "It's Getting Terribly Late And May Be Too Late Already" - RTRS
 
Ultima modifica:
L’ostinazione infantile di Donald Trump nel rifiutare la sconfitta; il continuo oscillare fra il tragico e il ridicolo del suo avvocato, Rudy Giuliani, e di una corte dei miracoli ben pagata; la quotidiana umiliazione di un regime democratico praticata non dai trolls di Vladimir Putin ma dal Partito repubblicano. E’ una serie Tv quella a cui assistiamo, una satira del potere? O è la realtà?
Non è la prima volta che l’America ci lascia a bocca aperta. Il Paese che sprofondava nella guerra del Vietnam era lo stesso che approvava il Civil Rights Act contro ogni discriminazione e puntava alla Luna. L’America nella quale lo spropositato potere dell’apparato militare-industriale non viene denunciato da un pacifista ma dal più importante dei suoi generali-presidenti (Eisenhower). L’America del primo emendamento: libertà di espressione e di stampa; e del secondo: la libertà di portare indiscriminatamente armi e organizzare milizie. Gli Stati Uniti che affermano il diritto di voto e che limitano questo diritto. I 79,7 milioni di elettori di Joe Biden e i 73,7 di Donald Trump.
Forse è per queste dicotomie sistemiche che dopo la fine della Guerra Fredda nessuno dei paesi passati dal totalitarismo alla democrazia, ha scelto il modello costituzionale americano. Cioè del paese che più di tutti aveva contribuito a liberarli.
La migliore spiegazione di questa incoerenza permanente è di Barack Obama. L’ha data nell’intervista al direttore di The Atlantic Jeffrey Goldberg, uscita in questi giorni. “L’America – ha detto Obama – è il primo esperimento concreto di costruzione di una grande democrazia multietnica e multiculturale. E ancora non sappiamo se può tenere. In giro non ce ne sono stati abbastanza (di esperimenti, n.d.r.) né per un tempo sufficiente perché si possa dire con certezza che funzionino”. E’ vero. Un altro grande paese multietnico e multiculturale è il Brasile ma ha sempre faticato a funzionare: spesso non funziona affatto. E l’India. Ma il premier nazional-induista Narendra Modi sta smontando quell’ ”Unità nella diversità” sulla quale il Mahatma Gandhi e Jawaharlal Nehru avevano creato la nazione.
Pochi giorni fa ho partecipato a un dibattito sul post-elezione, organizzato dall’US-Italy Global Affairs Forum. “What Happens Now” era il titolo. La mia tesi era che l’America avesse bisogno di una destra costituzionale, democratica e internazionalista, cioè del Partito repubblicano tradizionale. E che anche noi alleati, europei o asiatici, abbiamo ancora bisogno di un’America internazionalista perché il mondo oggi non è meno pericoloso dei tempi della Guerra fredda. Probabilmente lo è di più.
Da New York un collega di Newsmax ha risposto prendendo l’esempio di James Baker sul quale è appena uscita una corposa ma splendida biografia (“The Man Who Ran Washington – The Life and Times of James A. Baker III”). Chief of staff della Casa Bianca di Ronald Reagan e soprattutto segretario di Stato del successore George Bush, il texano Baker è stato un simbolo dell’internazionalismo americano e del suo miglior interprete: il Partito repubblicano. Bene: quel partito, diceva il collega di Newsmax, è finito. I repubblicani di oggi sono quelli che fanno quadrato attorno a Trump e che non hanno alcun interesse per tutto ciò he esiste dall’altra parte dei due oceani.
Newsmax è il gruppo editoriale ancora più a destra di Fox, col quale il presidente sconfitto pensa di creare una “Trump TV” per riprendere l’assalto alla Casa Bianca. Ma penso che il collega avesse ragione. Soprattutto perché è una nostra prospettiva pensare che l’internazionalismo sia la prerogativa degli Stati Uniti. Con la fine della Guerra Fredda, per gli americani la politica estera non è un tema elettorale, contano le grandi questioni interne: ricostruzione delle infrastrutture obsolete, disparità sociali, scontro razziale irrisolto, ora anche la pandemia.
Il primo George Bush è stato l’ultimo presidente ad avere cultura ed esperienza internazionali: con Jim Baker gestì il disgregamento dell’Urss e la riunificazione tedesca senza che in Europa scoppiasse la terza guerra mondiale; liberò il Kuwait ma non occupò l’Iraq; spinse israeliani e palestinesi alla trattativa di pace. Perse le elezioni del 1992 perché Bill Clinton, venuto dall’Arkansas, non sapeva niente di estero e aveva giocato la sua campagna sull’economia. Poi toccò a George W., che non aveva l’esperienza diplomatica del padre: l’11 settembre ha radicalmente cambiato le priorità della sua presidenza in origine concentrata sugli affari domestici. Barack Obama, anche lui senza curriculum internazionale, in parole e opere ha preso le distanze da quel “Washington playbook” col quale il potere americano rispondeva ad ogni emergenza usando più la forza militare che la diplomazia. L’idea che gli Stati Uniti dovessero uscire dalle “guerre senza fine” del Medio Oriente, è sua: Donald Trump l’ha enfatizzata. Di quest’ultimo è inutile descrivere la qualità della sua Twitter diplomacy. Quattro anni fa gli americani avevano scelto lui e non Hillary Clinton che era stata per otto anni un’attiva first lady e per quattro segretaria di Stato.
Ora c’è Joe Biden che invece il mondo lo conosce. Gli elettori però non lo hanno scelto per questo: hanno votato contro Trump e in favore della decenza e della moderazione del democratico. E’ fatale che il presidente della prima potenza debba comunque occuparsi delle crisi internazionali, che prima o poi il mondo lo richiami al suo ruolo. E come è accaduto a Clinton, Bush il minore e a Obama, è comunque la carica che alla fine definisce il leader e i suoi comportamenti. Ma l’America e il mondo stanno cambiando ed è meglio che la cara vecchia Europa incominci a farsi crescere i muscoli.
Il Sole 24 ore/Tramballi
 

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