Parliamo di libri

"Almarina"
(V. Parrella- ed. Einaudi)

Il linguaggio usato dall'autrice ha una potenza incredibile, una capacità di tratteggiare e suggerire concetti immensi e profondi con pochi, azzeccatissimi termini. Come la poesia. Una narrazione, dunque, poetica ed evocativa, ma anche estremamente concreta: il libro "si vede" com gli occhi della mente.
Ma, più che una storia, più che un romanzo, sembra un lungo filo di pensieri (dell'io narrante, la protagonista Elisabetta Maiorano, docente di matematica al carcere minorile di Nisida), ricordi, speranze e maturazioni.
La trama è sfiorata.
L'incontro tra la docente e la giovane Almarina, detenuta a Nisida, la nascita del loro affetto in un contesto tanto particolare che, piano piano guarisce la donna dal dolore per la recente vedovanza, le storie di chi "abita" Nisida restano quasi sullo sfondo, come fossero solo il pretesto per il filo di pensieri, ricordi e speranze di cui dicevo.
Non sono sicura che sia un difetto, perché magari il tutto, più approfondito e sviluppato, avrebbe assunto tinte didascaliche o banali. Così, invece, resta una sensazione da sogno, dolce, in bocca, anche se "incompiuta".

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"L'amica geniale"
(Elena Ferrante - ed. E/O)

Quando un libro riscuote immediato, travolgente successo, difficilmente scelgo di leggerlo subito.
Non mi piacciono i dibattiti e le polemiche, le ansie di dire la propria, la bava alla bocca di chi si scanna sui social per "difendere" i propri gusti.
Ho, dunque, iniziato, dopo 11 anni dalla pubblicazione, la lettura dei 4 libri che compongono la storia di Lenù e Lila, gustandomi il piacere di leggere, con il silenzio attorno e appassionarmi - in intimità - alle vicende delle due protagoniste.
In questo primo libro, nelle pagine da cui difficilmente ci si stacca, c'è un rione povero e popolare della Napoli dell'immediato dopoguerra. E le classi sociali, e le discriminazioni sessuali, i pregiudizi, la volgarità e la violenza della fame, della camorra, della povertà e dell'ignoranza.
E poi, alla fine degli anni 50, le convenzioni sociali, i perbenismi, le ipocrisie.
E in questo difficilissimo contesto che si vive, ben reso, sulla propria pelle, leggendo, ci sono le due giovani protagoniste, entrambe imprigionate nel rione e nei suoi modi. Lenù (la voce narrante) con le fragilità, i dubbi, i complessi e le sofferenze tipiche di chi ha un animo sensibile. Ha la concreta possibilità di emanciparsi dal contesto di degrado in cui vive, studiando, ma soffre per una molteplicità di situazioni che, per il momento e per la giovane età, non le permettono di allontanarsi, nemmeno in senso figurato, dalla vita di miseria soprattutto intellettuale, in cui vive.
Soffre di un perenne senso di inferiorità nei confronti di Lila, trascorre un'adolescenza piena di complessi e di alti e bassi umorali, compie scelte sbagliate, si tormenta, trascinando con sé chi legge. È con te per tutto il libro, viva e vibrante.
Diverso, con Lila. Distaccata, "strana", indecifrabile, a tratti cattiva, dura, estremamente antipatica, a tratti fragile, immolata per quel poco di felicità e benessere che sente di poter ottenere per sé e la sua famiglia, impossibilitata a studiare, al contrario di Lenù. La sua bellezza che aveva nella testa fin dall'infanzia - come dice ad un certo punto la vecchia maestra elementare - non ha potuto trovare voce. Ella la mette tutta nel corpo e nel viso. Bellissima ed elegante, indissolubilmente legata ad un destino di vita nel rione povero e rozzo, cerca, almeno, di trarne il meglio che può.
Il rapporto tra le due amiche vive alti e bassi ma entrambe non riescono a fare a meno l'una dell'altra, fungendo per tutte e due, da metro di giudizio, da sprone, da autoanalisi, da lente sul mondo che le circonda.
Intenso, corale, trascinante. Non si riesce a staccarsene.

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"Storia del nuovo cognome"
(E. Ferrante - ed. e/o)

Il sottotitolo di questo secondo romanzo del ciclo "L'amica geniale" potrebbe essere: "Impotenza".
Vi è ben rappresentata infatti, senza alcun fronzolo, l'impotenza dei poveri, di chi nasce in condizioni di disagio economico che molto spesso significa anche povertà spirituale.
Lo si vede bene in tutti i personaggi, da quelli principali a quelli secondari.
E non si creda che il benessere economico maggiormente diffuso oggi e il più ampio accesso agli studi abbiano reso solo un ricordo tale condizione. In forme diverse, in modo diverso forse, resiste anche oggi.
È l'impotenza dei "bottegai" che, anche se han fatto i soldi, non si liberano da logiche "mafiosette" o "marchettare", patriarcali, violente da rione malfamato (Stefano), l'impotenza di chi, inseguendo un sogno di benessere, si fida e "si vende" (Rino), di chi scopre di non avere nemmeno gli "strumenti" per festeggiare una figlia prodigiosa (la famiglia di Elena).
Ma l'impotenza dei poveri tocca vette ancora maggiori se si tratta di poverE.
Le donne povere, ultime tra gli ultimi, la cui condizione subalterna si spiega bene tutta in una sola parola, contenuta nel titolo azzeccatissimo: il cognome. Col cognome del marito che, alle nozze, sostituisce quello di nascita, Lila diviene proprietà di Stefano Carracci. Ella si deve piegare ai traffici economici e alle logiche che vi sottostanno messi in piedi dal marito. Lila viene picchiata, come tutte le altre donne, proprietà di qualche uomo fin dalla nascita (il padre, il fratello, il marito...), se non si mostra servizievole, sottomessa, se porta avanti idee sue, diverse, Lila viene violentata dal marito ogni volta che lui lo vuole, subisce ricatti sessuali sul lavoro, giudizi negativi e pressioni se non "fa la moglie", se non diventa madre.
La stessa sorte tocca a Pinuccia, Gigliola, Carmen... le quali, prive del genio di Lila, pur soffrendo, accettano la loro condizione con meno difficoltà e, in vari passaggi, si mostrano proprio ben inserite e complici della struttura sociale patriarcale in cui vivono: si accapigliano per quel poco che possono ottenere in una costruzione sociofamigliare violenta disegnata da altri (gli uomini), alimentando piccole faide tra famiglie, beghe da "donnicciole", insulti e stigma su Lila, mai piegata, come loro, alla condizione di inferiorità in cui sono relegate.
Ma l'impotenza dei poveri tocca il punto massimo in Lenù.
La ragazza che studia, si eleva, arriva alla laurea in una prestigiosa università. Tanto preparata che pubblica un romanzo. Lenù che viaggia, convive, Lenù che vince borse di studio, che parla bene, che affronta il pubblico, che si apre nuovi orizzonti, che si interessa di temi sociali, politici.
Vessata dal rione di nascita, da una povertà che le abita addosso, appiccicosa e insistente che non le permette mai di avere una buona opinione di sé, né di sentirsi adeguata al nuovo mondo che le si apre davanti dopo che pezzo, dopo pezzo, si è costruita da sola, la strada per potervi accedere.
Ho trovato questo secondo "capitolo" della serie ancora più bello del precedente.
Vero che la prosa non ha nulla di speciale che la renda unica, ma le vicende delle due protagoniste sono avvincenti, i moti dell'animo resi alla perfezione, le sofferenze e i turbamenti, le speranze e i successi si susseguono alternandosi, aprendosi e poi chiudendosi bruscamente. Altalene della vita che tengono gli occhi incollati alle pagine.
E, si spera, il cervello e la sensibilità di chi legge pronti alla riflessione sulla società, le disuguaglianze, i progressi, i diritti.

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Vedi l'allegato 670288
"LTI - La lingua del Terzo Reich - Taccuino di un filologo"
(V. Klemperer - ed Giuntina)

È molto difficile condensare questo libro pubblicato per la prima volta nel 1947 in poche righe.
Klemperer, professore tedesco di origine ebraica, di Dresda, deve la vita al fatto di aver sposato una donna "ariana", ma questo non ha impedito che subisse, durante il nazismo, persecuzioni, discriminazioni, violenze e ingiustizie, divieti e limitazioni gravi.
Quando agli Ebrei viene vietato persino di leggere "libri non ebrei", quando perde casa, lavoro, libertà, inizia a scrivere dei "Diari" che saranno poi pubblicati e su cui basa questo libro che non ha la pesantezza di un manuale di filologia, ma sta in mezzo tra, appunto, un saggio e un diario di vita.
Analizzando il linguaggio e le parole proprie del Terzo Reich, Klemperer vuole non solo raccontarne la povertà e la monotonia (ogni regime dittatoriale ha un linguaggio povero, perché appiattisce, impedisce la profondità di riflessione), la violenza intrinseca di alcuni lemmi, ma vuole anche cercare di spiegare/mostrare che la lingua che si usa non è neutra, ma incide profondamente nello spirito di chi abita quell'epoca e/o quel Paese.
Così la lingua nazista, fatta di parole reinventate, di parole arcaiche, di termini estratti da contesti diversi da quelli in cui nascono (l'ambito sportivo per parlare di guerra, è solo uno dei tanti esempi), di parole germanizzate dall'estero, ecc., permeano la Società intera, ne formano la cultura, lo "spirito", ne creano la visione del mondo. Tutti e tutte sono immersi dunque nella LTI (Lingua Tertii Imperii) e ognuno diventa, in questo modo, complice di quanto avviene in quegli anni terribili del dominio di Hitler e della seconda guerra mondiale.
Lo scopo della propaganda nazista, orchestrata da Goebbels, vero "Maestro" nel creare la (sub)cultura del periodo, grazie alla LTI è raggiunto appieno. Fiducia acritica e "religiosa" nel Führer, avallo delle leggi razziali, delle discriminazioni, dello sterminio degli Ebrei e mancanza di qualsivoglia opposizione e autonomia di pensiero.

Alcuni capitoli, per i non Tedeschi, non sono di semplicissima comprensione.
Occorre una base culturale abbastanza forte per capire e apprezzare questo libro. Bisogna conoscere bene la storia, anche un po' la letteratura tedesca e francese, avere almeno un'idea del sionismo e di lingua tedesca.
Ma il testo nel suo complesso cattura, avvince come un romanzo, apre ai nostri occhi l'epoca brutale in cui vive Klemperer, ne mostra la tragicità a volte venata di ridicolo, l'autoreferenzialità, ma, soprattutto, ci rimanda chiaro e cristallino che il linguaggio, la lingua che usiamo, i termini impiegati e i modi di narrare non sono una questione di forma, ma di sostanza.
Ricordiamoci della potenza della LTI, e di quello che ha contribuito a creare, quando ci prendiamo gioco di coloro che usano i femminili delle professioni, ad esempio. Dobbiamo diventare curiosi, ogni volta che leggiamo i giornali: la visione che la cronaca narrata, attraverso le parole scelte, i titoli, le foto a corredo, sono "neutre"?
Chiediamocelo. Sempre.

Mio nipote l'ha utilizzato per scrivere la tesina della maturità classica sulla manipolazione del linguaggio.
 
"La coscienza di Zeno"
(I. Svevo - Crescere edizioni)

Ho letto questo grande classico del primo novecento italiano solo perché avevo promesso a mia figlia di darle una mano con le letture assegnate a scuola per le vacanze e, tutto sommato, non me ne sono pentita.

Il romanzo, pubblicato nel 1923, per l'epoca fu una sorta di rivoluzione letteraria perché è una sorta di flusso di coscienza - appunto - che il protagonista, Zeno Cosini, compie per iscritto, dietro suggerimento del suo psicanalista presso cui egli si reca per curarsi dalla sua "malattia". Nella finzione letteraria che apre il libro, c'è quindi, il Dottor S., psicanalista, che, arrabbiato perché Zeno interrompe le sedute, decide di pubblicarne gli scritti. È evidente l'influenza della nuova "scienza" del dottor Freud, su Svevo, autore mitteleuropeo, nato in terra di frontiera e dunque abituato a commistioni di culture, ad aperture fuori confine.

La "malattia" di Zeno è l'inettitudine, un'inerzia che lo pone, nella sua visione, sempre in una sorta di posizione di inferiorità, in confronto a tutti gli altri.
Il suo intenso lavorio interiore di analisi di quanto gli accade, lo paralizza, lo giustifica, gli fa prendere una decisione e poi subito lo porta a decidere il contrario di quanto appena stabilito.
Immobile, la vita semplicemente "gli accade".
In tutti i lunghissimi (troppo) capitoli, egli narra tappe salienti della sua esistenza: la dipendenza dal fumo, la morte del padre, il fidanzamento, il matrimonio, l'amante, gli affari economici e, infine, una sorta di breve diario in cui lui comunica al Dottor S. di essere "guarito" e quindi di voler interrompere le sedute di psicanalisi.
In ognuna di queste narrazioni, Zeno sembra essere spettatore della sua vita, immobile. Fa e disfa tutto nella sua mente ma, forse proprio perché tendenzialmente egli, credendosi malato, non si crede bravo come altri, cerca continuamente, rivedendo e analizzando tutto il vissuto via via che si forma, di "far bene" e di "far diventare bene" quanto prima aveva visto come non idoneo (la scelta della moglie, ad edempio), la sua sorte è migliore di quella degli altri personaggi.
Così lui, non lavorando mai, non perde denaro come Guido.
Così Zeno, rifiutato da Ada, si sposa con Augusta, ottima moglie e in salute.

Non saprei dire se vi è un "insegnamento" di fondo in questo romanzo, se non, forse, l'importanza di porsi in costante colloquio con noi stessi, per divenire sempre più consapevoli di quello che siamo, ma posso dire che lo temevo pesante e noiosissimo ed invece, pur non avendolo amato in modo particolare, l'ho trovato interessante, "diverso" e sono contenta di aver colmato una mia lacuna letteraria.

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"La coscienza di Zeno"
(I. Svevo - Crescere edizioni)

Ho letto questo grande classico del primo novecento italiano solo perché avevo promesso a mia figlia di darle una mano con le letture assegnate a scuola per le vacanze e, tutto sommato, non me ne sono pentita.

Il romanzo, pubblicato nel 1923, per l'epoca fu una sorta di rivoluzione letteraria perché è una sorta di flusso di coscienza - appunto - che il protagonista, Zeno Cosini, compie per iscritto, dietro suggerimento del suo psicanalista presso cui egli si reca per curarsi dalla sua "malattia". Nella finzione letteraria che apre il libro, c'è quindi, il Dottor S., psicanalista, che, arrabbiato perché Zeno interrompe le sedute, decide di pubblicarne gli scritti. È evidente l'influenza della nuova "scienza" del dottor Freud, su Svevo, autore mitteleuropeo, nato in terra di frontiera e dunque abituato a commistioni di culture, ad aperture fuori confine.

La "malattia" di Zeno è l'inettitudine, un'inerzia che lo pone, nella sua visione, sempre in una sorta di posizione di inferiorità, in confronto a tutti gli altri.
Il suo intenso lavorio interiore di analisi di quanto gli accade, lo paralizza, lo giustifica, gli fa prendere una decisione e poi subito lo porta a decidere il contrario di quanto appena stabilito.
Immobile, la vita semplicemente "gli accade".
In tutti i lunghissimi (troppo) capitoli, egli narra tappe salienti della sua esistenza: la dipendenza dal fumo, la morte del padre, il fidanzamento, il matrimonio, l'amante, gli affari economici e, infine, una sorta di breve diario in cui lui comunica al Dottor S. di essere "guarito" e quindi di voler interrompere le sedute di psicanalisi.
In ognuna di queste narrazioni, Zeno sembra essere spettatore della sua vita, immobile. Fa e disfa tutto nella sua mente ma, forse proprio perché tendenzialmente egli, credendosi malato, non si crede bravo come altri, cerca continuamente, rivedendo e analizzando tutto il vissuto via via che si forma, di "far bene" e di "far diventare bene" quanto prima aveva visto come non idoneo (la scelta della moglie, ad edempio), la sua sorte è migliore di quella degli altri personaggi.
Così lui, non lavorando mai, non perde denaro come Guido.
Così Zeno, rifiutato da Ada, si sposa con Augusta, ottima moglie e in salute.

Non saprei dire se vi è un "insegnamento" di fondo in questo romanzo, se non, forse, l'importanza di porsi in costante colloquio con noi stessi, per divenire sempre più consapevoli di quello che siamo, ma posso dire che lo temevo pesante e noiosissimo ed invece, pur non avendolo amato in modo particolare, l'ho trovato interessante, "diverso" e sono contenta di aver colmato una mia lacuna letteraria.

Vedi l'allegato 674892
Stesso atteggiamento che forse hai con Kafka o Dostoewsky temo.... o sbaglio.
 
Stesso atteggiamento che forse hai con Kafka o Dostoewsky temo.... o sbaglio.
I Russi devo aver voglia di leggerli.
E idem Kafka.
Sono sempre corposi, in tutti i sensi. Impegnativi
A me non piacciono i libri leggeri e che "non dicono niente" ma leggo soprattutto per mio piacere.
Quindi certi autori li devo proprio desiderare altrimenti mi pesano.
 
Ho letto questo grande classico del primo novecento italiano solo perché avevo promesso a mia figlia di darle una mano con le letture assegnate a scuola per le vacanze e, tutto sommato, non me ne sono pentita.
Mi ricordo che durante le vacanze la prof ci assegnò Mastro Don Gesualdo di Verga. Quell'estate rifiutai platealmente la lettura, tutto sommato contento perchè i compagni mi dissero che era un autentico mattone :d: Per fortuna la prof non fece alcuna verifica sul libro e non lo seppe mai.
Troppo fortunelli i giovani d'oggi con le mamme che gli fanno i compiti :ordine:
 
I Russi devo aver voglia di leggerli.
E idem Kafka.
Sono sempre corposi, in tutti i sensi. Impegnativi
A me non piacciono i libri leggeri e che "non dicono niente" ma leggo soprattutto per mio piacere.
Quindi certi autori li devo proprio desiderare altrimenti mi pesano.
Non mi é del tutto chiaro, comunque sì a volte serve un piccolo sforzo iniziale per poi accedere al sublime, anche perché non ce lo aspettiamo. Ma con qursti autori arriva quasi sempre.

Comunque, come lettura estiva ho appena finito "Il cavaliere, la morte e il diavolo" di L.De Pascalis. Noir storico ricchissimo di eventi e con una eccezionale ricostruzione storica. Un po' contorto nella trama ma per il resto godibilissimo.


Seguirà la lettura di "Un mondo sinistro" di Nabokov
 

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