domenica 18 marzo 2018
I FALLIMENTI DEL MERCATO, LA LORO €URO-RESTAURAZIONE E LA GARANZIA COSTITUZIONALE DELLA LIBERTA' DI INIZIATIVA ECONOMICA. [/paste:font]
Premessa: per capire cosa sia un "bene pubblico" (non un bene comune), occorre riportarsi ad un paradigma istituzionale: la normatività suprema della Costituzione non può essere scissa dalla concreta definizione del concetto stesso di fallimento del mercato. E questa normatività non può essere soppressa da alcun trattato internazionale, a pena di violazione dei principi fondamentali della Costituzione che andremo ad esaminare.
1. Abbiamo di recente visto come è negli anni '70 del '900, (
qui, pp. 2-3), che si colloca l'inizio della fase operativa della strategia cosmopolita (tanto quanto lo può essere la
Trilateral, cioè, comunque, su basi gerarchiche al cui vertice si colloca la super-elite USA;
sempre qui, pp.4-6), per distruggere la democrazia sociale: quest'ultima, infatti, perseguendo anzitutto la temuta piena occupazione, era considerata
un intollerabile ostacolo al pieno ripristino della democrazia "liberale" (
qui, p.4), cioè di quel simulacro di Stato di diritto che garantisce la libertà a pochi oligarchi timocrati, mentre considera assurdo privilegio e
corruzione legalizzata ogni concessione fatta dai parlamenti alle "plebi poverissime e ignoranti" (
qui, pp.4.1.-7). Che devono ridiventare tali il più presto possibile.
Non a caso, questo lungo ma inarrestabile processo di restaurazione fu autodenominato, dai suoi stessi promotori e propagandisti, "
rivoluzione liberale", per sottolinearne la radicalità del
cambiamento di assetto sociale rispetto agli ordinamenti costituzional-democratici instauratisi (variamente) in Europa dopo la seconda guerra mondiale.
2. Negli anni '70, appunto, si colloca l'episodio che
scandalizza il console USA nel suo report all'ambasciatore dopo un incontro con l'allora presidente dell'ENI (
qui, p.3):
"Il presidente dell'ENI scandalizza gli interlocutori USA (console a Milano che scrive all'ambasciatore del tempo) "
osando" (
went so far) dirgli che la "profittabilità" a cui sono orientate le industrie pubbliche, significava solo che dovessero ottenere piccoli margini di profitto o, in alcuni casi, il pareggio. "
Gli obblighi sociali (ndQ; in realtà legali-costituzionali)
di fornire occupazione, fare investimenti in aree depresse, e mantenere operative le industrie strategiche, costituivano anche finalità importanti".
3. Ci pare necessario sottolineare perché questi
obblighi sociali fossero di natura "legale-costituzionale": in una chiave di lettura "immediata", si tratta evidentemente dell'attuazione
della c.d. Costituzione economica (artt. 35-47 Cost.), che può sintetizzare il suo "statuto" nell'art.41 Cost. e non secondariamente
nel "finale" art.47 (che gettano luce sugli articoli precedenti e anticipa armonicamente quelli seguenti).
Ma
mantenere la piena occupazione, indirizzare gli investimenti delle aree depresse e mantenere operative le industrie strategiche, e ovviamente, garantire attraverso il welfare la "dignità" dell'elemento centrale del lavoro, diviene meglio significativo su un piano interprertativo sistematico, che implica
l'armonia complessa dell'ordito costituzionale richiamato da Basso.
Si tratta in sostanza della diretta e effettiva attuazione della norma più importante dell'intera Costituzione, quella dell'art. 3, comma 2, indicata come tale sia da Basso (
qui, p.8), che da Calamandrei (
qui, p.2) che da Mortati (
qui, p.1).
4. A titolo esemplificativo, rammentiamo le fondamentali dichiarazioni in Costituente di
Cevolotto e
Ruini (ritrovate il tutto esposto sistematicamente e commentato ne "
La Costituzione nella palude").
Cevolotto indica, rispetto
all'art. 3, comma 2, come propulsore della effettività del diritto al lavoro (art. 4 Cost.), e come presupposto necessario e sufficiente dell'attribuzione di significativi poteri d'intervento statale funzionali a tale effettività, i punti di riferimento entro cui si sta muovendo l'ampio accordo raggiunto tra le forze politiche presenti in Assemblea:
"
...quando il relatore, nel primo capoverso del suo articolo, vuol dire come lo Stato garantirà al cittadino questo diritto al lavoro, usa una formula che introduce un altro concetto sul quale bisogna bene meditare. Allo scopo di garantire il diritto al lavoro di tutti i cittadini — si dichiara nell'articolo — lo Stato interverrà per coordinare e dirigere l'attività produttiva dei singoli e di tutta la Nazione secondo un piano che dia il massimo rendimento per la collettività. Quindi, intervento dello Stato nella produzione, intervento cui si arriva attraverso la garanzia del diritto al lavoro.
Fa presente in proposito che mentre un ritorno in materia economica al liberismo sarebbe una proposizione assolutamente superata, è da domandarsi se una regolamentazione totalitaria dell'attività produttiva sia veramente utile e scevra di pericoli in una economia come quella italiana. Ricorda che si sono già avuti esempi di questo intervento dello Stato nel dirigere tutta la produzione: intervento che trovò il dissenso immediato anche di economisti socialisti".
5. In sostanza, ciò ci indica che
la direzione prescelta dai Costituenti non è affatto il "collettivismo", ma il ripudio del "liberismo" attraverso una disciplina di poteri strumentali dello Stato che consentano di perseguire l'effettività del diritto al lavoro prevenendo e correggendo i "fallimenti" del mercato. Essenzialmente riassumibili nelle distorsioni, di prezzo e di distribuzione del reddito prodotto, ma prima ancora del gioco democratico, derivanti dalla constatata tendenza alla formazione di monopoli, e oligopoli dominanti,
privati (con il che l'art.41 Cost. si riconnette agli artt. 42 e, più ancora, 43 Cost.), nonché nelle c.d.
esternalità la cui "disutilità sociale" l'art.41 Cost, infatti, intende come un epifenomeno della formazione di poteri economici di fatto oligopolistici privati.
6.
La mancata prevenzione e sanzione, nell'interesse generale, dei fallimenti del mercato,
è un fatto politico, la cui rilevazione, da parte dei Costituenti, procede dall'esperienza storica: le
esternalità (inquinamento delle acque e dell'aria, consumazione illegale del territorio, lo stesso sottosviluppo degli investimenti e del livello di occupazione dovuti alla creazione
de facto di barriere all'entrata nei vari settori produttivi), sono realmente
eludenti e quindi dannose,
in quanto i poteri economici privati, per la loro dimensione, siano in grado di imporsi con la forza politica che inevitabilmente deriva da essa, potendo quindi puntare al condizionamento istituzionale ed alla "omissione di intervento" del Legislatore; insomma,
autoorganizzandosi nel controllo delle istituzioni - naturalmente "
al riparo dal processo elettorale"- per farla franca nel riversare i costi dell'attività produttiva sulla collettività.
7. La clausola chiave del
non contrasto con l'utilità sociale (art. 41, comma 2), dunque, lungi dall'essere un'evocazione del "collettivismo" è, prima di tutto, una garanzia della
effettiva libertà dell'iniziativa economica privata (art. 41 comma 1).
Questa libertà deve essere garantita a tutti modificando il presente, e la sua ingiustizia, e per il futuro, senza che lo Stato rimanga inerte a ratificare i rapporti di forza politici ed economici già instauratisi.
La libertà economica varrà effettivamente per tutti in quanto non ostacolata dalle
varie barriere all'entrata (comprese quelle tecnologiche che tendono a diventare inefficienti in assenza dell'indirizzo statale che corregga il monopolio privato, e che, essenzialmente, si compendia nella stessa attività industriale strategica dello Stato medesimo; art. 43 Cost.).
I Costituenti tengono esplicitamente conto del fenomeno per cui le posizioni di forza monopolistica privata, fanno leva su vantaggi indebiti di costo (cioè sull'imposizione di rendite, essendosi
price-maker, fuori da un efficiente gioco concorrenziale e non
price-taker), sulle asimmetrie informative, sull'esenzione dal sopportare i costi delle esternalità, riversati sulla comunità sociale, sull'accesso privilegiato e discriminatorio al credito etc.
8. Questo quadro spiega concretamente ciò che
Ruini (
sempre qui, infine) aveva ben presente nel replicare a Einaudi ed al suo tentativo di ripristinare, in sede Costituente, la supremazia della forza economica come "fatto compiuto", inibendo ogni intervento correttivo dello Stato, in nome del nostalgico e fantomatico "libero mercato", che, già allora, tentava la via cosmetica della restaurazione denominandosi neo-liberismo, ordoliberismo e "terza via" (la parola chiave, non enunciata, ma sottintesa per come emersa nel corso del precedente dibattito costituente è "rentiers"):
"Gli economisti — i migliori — riconoscono che il loro edificio teorico, la scienza creata dall'Ottocento, non regge più sul presupposto di una economia di mercato e di libera concorrenza, che è venuto meno, non soltanto per gli interventi dello Stato, ma in maggior scala per lo sviluppo di tendenze e di monopoli delle imprese private.
Quando vedo i neo liberisti, come l'amico Einaudi, proporre tale serie di interventi per assicurare la concorrenza, che qualche volta possono equivalere agli interventi di pianificazione, debbo pur ammettere che molto è mutato.
Non pochi vanno affannosamente alla ricerca della terza strada.
La troveranno? Non lo so. Questo so: che si avanza la forza storica del lavoro.
Non potevamo rifiutarci a questa affermazione.
Mazzini diceva che noi tutti un giorno saremo operai; i cattolici hanno il codice di Malines e quello di Camaldoli, dove sono stati stabiliti i principî d'una economia del lavoro.
Ho sentito da questa parte (Accenna a destra) chi pur faceva vive critiche: «Se per socialismo si intende un rinnovamento sociale, anche noi siamo socialisti».
Allora, perché avremmo dovuto rifiutarci a riconoscere che la nuova Costituzione è basata sul lavoro e sui lavoratori?
Parlando di lavoratori, noi intendiamo questo termine nel senso più ampio, cioè comprendente il lavoratore intellettuale, il professionista, lo stesso imprenditore, in quanto è un lavoratore qualificato che organizza la produzione, e non vive, senza lavorare, di monopolî e di privilegi.
Sono cieche le correnti degli imprenditori che non rivendicano — se sono ancora in tempo lo dirà la storia — la loro vera funzione ed il titolo glorioso di lavoratori.