Ultimamente, poi, la seconda si profila piuttosto...ingombrante, nella sintesi "lo vuole l'Europa". Ma non solo. Per capire il fenomeno, useremo la analisi economica del diritto.
venerdì 13 gennaio 2017
€-UROBORO, MUNCHAUSEN, LEGGE DI SAY E MITOLOGIA SUPPLY SIDE CONTRO LA LEGALITA' COSTITUZIONALE [/paste:font]
Premessa: Meuccio Ruini, Presidente della "Commissione dei 75", di redazione della Costituzione, preparatoria dei lavori dell'Assemblea Costituente, nella sede di discussione generale, seduta del 12 marzo 1947 (
"La Costituzione nella palude", pag.99):
"Gli economisti — i migliori — riconoscono che il loro edificio teorico, la scienza creata dall'Ottocento, non regge più sul presupposto di una economia di mercato e di libera concorrenza, che è venuto meno, non soltanto per gli interventi dello Stato, ma in maggior scala per lo sviluppo di tendenze e di monopoli delle imprese private.
Quando vedo i
neo liberisti, come l'amico
Einaudi, proporre tale serie di interventi per assicurare la concorrenza, che qualche volta possono equivalere agli interventi di pianificazione, debbo pur ammettere che
molto è mutato.
Non pochi vanno affannosamente alla ricerca della terza strada.
La troveranno? Non lo so. Questo so: che si avanza la forza storica del lavoro".
1. L'attualità, che risalta per casi concreti, cioè empiricamente, nei
temi trattati negli ultimi due post, consiglia di approfondire il discorso portandolo su un livello più ampio, storico-economico.
Abbiamo visto che
l'affermazione del "diritto al profitto" come posizione "incondizionata" dell'imprenditore, anche all'interno del rapporto di lavoro (di cui, appunto si perde di vista la sostanziale centralità come elemento determinativo della stessa crescita, economica e culturale del Paese), venga giustificata con una
"nuova" lettura dell'art.41 Cost.
Questa "revisione" interpretativa determina che quest'ultimo, inevitabilmente, venga fatto
prevalere sugli artt. 1 (fondamento "lavoristico" della Repubblica),
4 (dovere della Repubblica di rendere "effettivo" il diritto al lavoro)
e 3, comma 2, Cost. (obbligo di governo e parlamento di intervenire attivamente per rimuovere gli ostacoli "di fatto" che impediscono la "piena partecipazione" di tutti alla vita democratica del paese). E abbiamo mostrato come, sul piano del metodo ermeneutico, questa lettura finisca per
reinterpretare l'art.41, norma costituzionale, non solo scindendolo dalle più importanti e inderogabili previsioni degli artt.1, 3 e 4 (che ne sarebbero, almeno fino a ieri, il presupposto operativo sul piano costituzionale),
ma, anche, attribuendogli questo "nuovo" senso alla luce delle stesse norme di legge, di rango inferiore, che l'art.41 stesso dovrebbe giustificare (!).
2. Il discorso si concretizza, dunque, in una sorta di
ragionamento euristico, in cui una norma di legge modifica il senso di una norma costituzionale al fine specifico di trovare in quest'ultima la sua giustificazione.
E' evidente che la struttura simbolica cui si dà vita con un simile ragionamento, è quella del mitologico UROBORO. Che non a caso, in una precedente occasione,
abbiamo ribattezzato €-uroboro
neo-liberista.
2.1. Per meglio comprendere il senso di queste sempre più frequenti riletture della Costituzione, in base a principi legislativi, normalmente derivanti dall'influenza istituzionale €uropea, si può anche ricorrere,
come abbiamo altrettanto ipotizzato, al...
Barone di Münchhausen, che evitava di affondare nella palude tirandosi per i capelli.
3. Venendo ad un approccio più storico ed economico-scientifico, ci soffermiamo, per illustrarne ulteriormente le implicazioni, sulle affermazioni della Corte di Cassazione e sull'analisi giuridica compiuta:
"Secondo la Cassazione, infatti, in termini microeconomici, nel lungo periodo e in un regime di concorrenza,
l'impresa che ha il maggior costo unitario di produzione è destinata ad essere espulsa dal mercato" (Cass. n. 13516 del 2016; Cass. n. 15082 del 2016). Da qui l’opportunità di licenziare anche un singolo dipendente soprattutto se tale mancato licenziamento potrebbe compromettere la stabilità del posto di lavoro di tutti gli altri dipendenti.
Senza indagare, peraltro, il perché tale costo unitario dell'unità produttiva possa essersi innalzato, coinvolgendo l'intero sistema economico nazionale, magari per ragioni fiscali, valutarie e monetarie e, quindi, in un quadro macroeconomico - e di cedimento della domanda interna- che non può essere percepito e compreso a livello "micro".
...
Risolvendo il problema dell'efficienza e del CLUP (e quindi della "produttività), in termini microeconomici, - senza porsi il problema se questa situazione possa essere "sistemica" e, dunque, applicabile ad ogni settore produttivo e giustificare in ogni caso qualsiasi licenziamento individuale,
la Cassazione afferma che sarebbe addirittura incompatibile con l'art. 41 co. 1° Cost. l'assunto secondo cui il datore di lavoro dovrebbe provare la necessità della contrazione dei costi e, quindi, l'esistenza di sfavorevoli contingenze di mercato: dovrebbe essere sufficiente una sua autonoma scelta in tal senso.
Per l'appunto, da un lato, non sarebbe possibile distinguere, quanto alle ragioni economiche a sostegno della decisione imprenditoriale "
tra quelle determinate da fattori esterni all'impresa, o di mercato, e quelle inerenti alla gestione dell'impresa, o volte ad una organizzazione più conveniente per un incremento del profitto" (Cass. n. 5777 del 2003) e, dall’altro,
anche ove fosse possibile, non spetta al giudice entrare nel merito delle decisioni assunte dall’imprenditore (Cass. n. 23620 del 2015)".
4. Cerchiamo allora di connotare, sul piano economico, il perché queste asserzioni, essendo
esclusivamente incentrate sull'equilibrio aziendale, cioè micro-economico, risultino fuorvianti nel definire la portata dell'art.41 Cost., laddove questo, alla lettera, limita la "libertà di iniziativa economica
privata" in funzione della "utilità sociale" (a prescindere dalla "dimenticata" dipendenza di tale articolo dai precedenti art.1, 4 e 3, comma 2: anche se tale dimenticanza è, già in sé, una scelta interpretativa non da poco).
Il punto è che la stessa "utilità sociale", diversamente da quello che implica il modello neo-liberista implicitamente affermato dalla Cassazione, non vede l'estraneità dell'imprenditore ai suoi vantaggi.
5. Solo che, per comprendere come tale positivo coinvolgimento dispieghi i suoi effetti (
anche e proprio nell'ottica dei lavori della Costituente),
occorre considerare l'imprenditore non come soggetto isolato socialmente e giuridicamente (e in particolare: costituzionalmente), cioè posto solo in relazione al bilancio e ai "conti" della sua impresa, ma in senso categoriale: cioè come
esponente di una serie tipica di soggetti che vengono in considerazione per il loro ruolo, nel determinare, secondo la volontà del Legislatore Costituente,
l'equilibrio c.d. della "piena occupazione" (qui, nella parole di Federico Caffè, pp.6-7).
Questo equilibrio vede, in effetti, verificarsi le condizioni di massimizzazione sia dei profitti che, a monte, della convenienza ad investire (soddisfacendo quell'elemento solo in apparenza elusivo che è l'aspettativa di profitto che, inevitabilmente, come comprova l'attuale congiuntura economica italiana, dipende, eccome, dal livello della domanda e, quindi, dalla previsione che questa sia in grado di assorbire quanto "prodotto", cioè di dare senso alla crescita dell'offerta, strutturata mediante investimenti, lordi e netti, aggiuntivi).
6. Questi principi, ovviamente keynesiani, - e che furono alla base dell'
abbandono delle teorie neo-classiche (marshalliane) per risolvere la crisi del 1929, nonché del superamento della "stagnazione secolare" e del c.d. "equilibrio della sottoccupazione"-, possono trovare una loro anticipazione empirica, ma ben identificabile, sul piano non strettamente macroeconomico, sebbene proprio dell'
economia industriale:
il modello fordiano (v.qui, p.1, laddove si parla di modello produttivo e salariale).
6.1. Sul piano delle dottrine economiche, nel fare riferimento a tale modello, non si enfatizza l'aspetto della iper-specializzazione e segmentazione dei compiti all'interno della produzione industriale "di serie", quanto piuttosto, il ben più importante risultato per cui, stabilito un livello di occupazione massimizzato già all'interno del settore, o della "unità", industriale considerato/a,
il modello perseguito da Ford implica livelli retributivi in partenza più elevati, - ed economicamente incompatibili con il "rimedio" della programmatica flessibilità totale in uscita della forza lavoro- al fine di trasformare gli stessi lavoratori in clienti e utenti del prodotto (v.
pure qui, al par.I, sempre in termini di modello che l'arrembare dell'ideologia economica neoliberista €uropea ha condotto a sacrificare).
7. Per contro,
un modello neo-liberista, fondato sull'idea centrale, della perfetta flessibilità del mercato del lavoro, come condizione principale di riequilibrio delle crisi "accidentali" (di cui
si nega la determinabilità autonoma se non come "malfunzionamento" determinato da condizioni imperfette di "libero mercato", v.p1),
si fonda sulla persistente validità della Legge di Say: è l'offerta, ottimizzata da condizioni di costo marginale pareggiato al ricavo marginale, e registrabile simultaneamente in ciascuna "unità aziendale", che crea
naturalmente le condizioni di assorbimento della domanda.
Quindi, anche
sul piano delle politiche legislative, abbracciare (fosse anche per implicito),
questa teoria, implica che "qualunque" livello dell'occupazione, purché soddisfi il nuovo equilibrio dei costi reso necessario da "qualunque" livello di riaggiustamento dei salari,
sarebbe promotore di un ritorno alla crescita, nell'efficienza allocativa (ottimo-paretiana).
E se anche non si registrasse una crescita significativa, -
com'è in effetti avvenuto in ogni epoca in cui s'è applicato questo paradigma (qui, pp.4-7)- quello che conta è solo l'efficienza allocativa stessa e l'utile del settore delle imprese (cioè della c.d. "offerta", ovvero, in inglese, "supply side").
8. Questa
esclusiva e intransigente visione "supply side" è, in effetti, quella
propugnata nei trattati €uropei (pp. 1-2), - come comprova, oltretutto, l'insieme delle continue indicazioni di "misure" e riforme strutturali che la Commissione consiglia ai vari stati dell'eurozona in sede di
(sempre più intensa) sorveglianza sui bilanci fiscali. Ma il privilegiare esclusivamente il lato dell'offerta (o, nel rapporto di lavoro, i poteri "datoriali"),
non riesce, in effetti, così come non è riuscito in passato,
nè a far ripartire gli investimenti (e quindi, neppure ad ampliare la struttura dell'offerta dei Paesi che si sottopongono a tale modello),
né a ripristinare, neppure lontanamente, i livelli di occupazione (e di crescita) antecedenti ad una fase di recessione.
Diviene, piuttosto, una
questione esclusivamente "politica": il credere in un certo assetto della società considerandolo eticamente superiore, ostinandosi nell'
aspettativa fideistica che, prima o poi, il modello che privilegia il magico ruolo-guida dell'offerta produca i suoi frutti.
Ma ciò non dovrebbe avvenire a scapito della legalità costituzionale e, segnatamente, delle sue norme più essenziali e inderogabili.
9.
Poiché invece il jobs act si fonda su questa teoria (supply-side, microaziendale e imperniata sulla Legge di Say e sull'efficienza allocativa, accentuata in economie "aperte" dal principio ricardiano dei "vantaggi comparati"), esso
va, per coerenza tecnico-economica, collegato ai risultati complessivi delle politiche in cui esso si inserisce.
Cioè
l'assetto "iperflessibile" del mercato del lavoro è una conseguenza VINCOLATA dell'adozione di questo paradigma; ma questo paradigma non mantiene e non sta mantenendo, come sempre, le sue "induttive", e mai riscontrate, promesse di crescita e benessere.
Piuttosto, scarica sulla parte più debole della società i costi delle crisi e promuove una
redistribuzione verso l'alto - in forma di profitti e di risparmio accumulati soltanto dagli operatori economici esportatori-, e quindi "oligarchica",
della ricchezza e del reddito.
10. Un risultato ormai evidente a chiunque voglia
prendere atto dei dati e degli indicatori economici reali, e non si accontenti degli slogan e delle indimostrate aspirazioni politico-mediatiche.
Questo è il frutto del paradigma euro sulla produzione industriale italiana e sugli investimenti ("lavoro", sempre di meno; la disoccupazione cresce; i salari diminuiscono in termini reali e la propensione ad investire...va a picco):
Per non parlare del versante degli
investimenti pubblici che, pure, come pretesa soluzione alla interminabile crisi dell'eurozona, si invocano da anni: senza però mettere in discussione la moneta unica e i vincoli fiscali che servono unicamente a tenerla in vita. Questi sono i dati AMECO sugli investimenti pubblici
netti italiani, complessivamente in costanza di vincolo esterno, cioè di adozione forzosa del marco come valuta:
11. La Costituzione
non consentirebbe il perseguimento di questo paradigma (marginalista e fortemente liberista per il solo mercato del lavoro), proprio perché,
già nel 1946-47, lo considerava il frutto della "scienza economica dell'800" (sic, Ruini, nella celebre replica a Einaudi), nonché il meccanismo di innesco di crisi economiche che andavano a detrimento (strutturale) della "classe" dei lavoratori: non solo dipendenti, ma
di tutti coloro che non fossero coinvolti nel supply side e nelle posizioni di forza oligopolistiche che prosperano alla sua ombra; vale a dire,
comprese le piccole e medie imprese, la cui sopravvivenza dipende principalmente dalla domanda "interna", cioè dal potere di acquisto delle famiglie e dal livello di occupazione e di (strettamente connessa) retribuzione "dignitosa" che ha di mira la nostra Costituzione.
E chi è chiamato a decidere su questi problemi dovrebbe essere attento ai presupposti teorici ed agli effetti pratici delle teorie che provengono dall'€uropa...
Pubblicato da
Quarantotto a
18:35 Nessun commento: Link a questo post
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