Per cortesia ripristinate il 3d di mototopo

attualita' gennaio 29, 2017 posted by Fabio Lugano
IL NUOVO AMBASCIATORE USA PRESSO LA UE: HO DISTRUTTO UN’UNIONE, NE POSSO DOMARE UN’ALTRA











Cari amici vi presento Theodore Roosevelt Malloch, il prossimo ambasciatore USA presso l’Unione Europea.

il professor Malloch non è nè uno sconosciuto nè un impreparato, essendo un docente universitario che ha tenuto lezioni in 85 università, uno scrittore ed un produttore di documentari , trasmessi dalla TV pubblica americana, su temi economici. Tra i suoi libri “Doing Virtuos Business” e “Davos, Aspen & Yale: My Life Behind the Elite Curtain as a Global Sherpa”. Fu proprio Margareth Thatcher a definirlo “Sherpa mondiale”, per le sue capacità nei lavori preparatori diplomatici.

Possiamo quindi tranquillamente dire che non è un novelino nè uno sprovveduto, e che parla a ragion veduta.

Bene, vi presento questa recente intervista da lui fatta al canale online del UKIP inglese.



se conoscete l’inglese troverete l’intervista molto interessante. si parla di accordi bilaterale, di atteggiamento della nuova amministrazione su vari temi scottanti come brexit, interrogatori, etc.

Però fermatevi a due punti :

Minuto 5,35. Parere sulla UE di Trump:

Non gli piace un’organizzazione che è sovrannazionale, non eletta, dove i burocratico comandano e non è una reale democrazia”…. Piu chiaro di così.



Quindi vi invito ad andare al al minuto 8.53 .

Domanda : “Perchè vuole essere ambasciatore presso l’Unione Europea, non siete un grande fan di Bruxelles, dei suoi burocrati e di Jean Claude Juncker?”.

Risposta: “Beh, ho avuto nella mia precedente carriera (diplomatica, NdT) un atteggiamento che ha aiutato a far cadere l’Unione Sovietica, forse c’è un’altra Unione che necessita di essere domata….

……

(Minuto 9.30) Domanda : “Cosa pensa del signor Juncker”

Risposta: “Il signor Jucker era un adeguato sindaco per qualche città del Lussemburgo, magari dovrebbe tornare indietro e farlo di nuovo “

Al che uno dei presenti dice “Sarà una nomina molto diplomatica….”.

Sembrano battute, ma dubito che una persona dell’esperienza di Ted Malloch dica queste cose solo per compiacere l’audience e senza una copertura politica, se non senza esprimere direttamente il pensiero di chi lo ha nominato !

Direi che ne vedremo delle belle!
 
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Soros è alle corde


gennaio 30, 2017 1 commento

Wayne Madsen Strategic Culture Foundation 29/01/2017
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Anche se il multi-miliardario magnate degli hedge fund e politico agitatore internazionale George Soros ha perso alla grande con l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti e la vittoria del referendum Brexit nel Regno Unito, rischia di perdere altro terreno politico e finanziario, mentre i venti del cambiamento politico spazzano il mondo. Soros, che s’immagina padrone delle opzioni azionarie a breve scadenza, racimolando miliardi di dollari dal crollo dei titoli azionari, ha subito un paio di colpi finanziari. Recentemente, il regolatore del mercato dei titoli olandese AFM ha “accidentalmente” rivelato le compravendite a breve termine di Soros dal 2012, rivelate sul sito web dall’AFM e rimosse dopo aver compreso l’“errore”. Tuttavia, i dati erano già stati raccolti automaticamente dai software delle agenzie d’intelligence e delle società d’intermediazione che abitualmente perlustrano Internet alla ricerca di questi “errori”. Tra i titoli bancari presi di mira da Soros vi era l’Ing Groep NV, grande istituzione e importante elemento dell’economia olandese. Dopo la campagna contro la Brexit, Soros scommette contro lo stock di Deutsche Bank AG, che credeva avrebbe preso valore dopo che la Gran Bretagna votò l’abbandono dell’UE. I titoli di Deutsche Bank sono scesi del 14 per cento e Soros gli ha ripuliti. Ma la vittoria di Soros era temporanea. Con l’elezione di Trump, Soros ha perso 1 miliardo di stock speculativo. Circondato dai suoi compari d’aggiotaggio, Soros ha spiegato tali perdite mentre frequentava il World Economic Forum di Davos in Svizzera. I compari mega-ricchi di Soros scommisero contro le piccole aziende olandesi, come Ordina, società d’informatica, Advanced Metallurgical Group e il gruppo immobiliare Wereldhave NV.

Attenzione alle idi di marzo
La diffusione dei dati di Soros giunge in un momento particolarmente delicato per la politica olandese. Il governo di centro-destra del primo ministro Mark Rutte è alle corde nel tentativo di respingere, con un’elezione programmata il 15 marzo, la seria sfida del partito nazionalista per la libertà (PVV) della destra anti-migranti del leader anti-Unione europea Geert Wilders. Alleato di Donald Trump, Wilders rischia di fare il pieno grazie a Soros, campione delle frontiere aperte dell’Europa e delle migrazioni di massa, che scommette contro le banche olandesi. Le idi di marzo guardano con favore alla vittoria di Wilders, un evento che batterà un altro chiodo nella bara dell’Unione europea e nel sogno di Soros su migrazioni di massa e frontiere aperte. I Paesi Bassi non sono particolarmente amichevoli verso Soros e i suoi obiettivi. Nel novembre 2016, Open Society Foundations e due gruppi finanziati da Soros, la Rete europea contro il razzismo e Gender Concerns International, pubblicizzavano l’assunzione di giovani “di età compresa tra 17-26” immigrati musulmani o figli e nipoti di immigrati musulmani, per fare campagna contro i partiti di Wilders e Rutte. Il primo ministro Rutte ha recentemente avvertito i migranti che si rifiutano di assimilarsi nella società olandese. Naturalmente, Rutte non si riferiva alle migliaia di migranti dalle ex-colonie delle Indie orientali e occidentali olandesi, che non avevano alcun problema ad adottare cultura, religione e costumi sociali olandesi. Rutte, che ha affronta un vantaggio di 9 punti del PVV di Wilders, ha avuto parole dure verso i migranti musulmani. In un’intervista ad “Algemeen Dagblad”, Rutte, in quello che avrebbe potuto essere un intervento di Wilders, ha dichiarato: “Dico a tutti. Se non vi piace qui, questo Paese, andatevene! Questa è la scelta che avete. Se si vive in un Paese in cui i modi di trattare il prossimo v’infastidiscono, potete andarvene. Non è necessario rimanere”. Rutte ha espresso in particolare disprezzo per chi “non vuole adattarsi… chi attacca omosessuali, donne in minigonna o definisce i comuni cittadini olandesi razzisti”. Rutte ha lasciato pochi dubbi a chi si riferisse, ai migranti musulmani appena arrivati, “Ci sono sempre state persone propense a un comportamento deviante. Ma qualcosa è accaduto l’ultimo anno, a cui noi, come società, dovremmo rispondere. Con l’arrivo di grandi masse di rifugiati, la domanda sorge spontanea: i Paesi Bassi resteranno Paesi Bassi”? Venendo da un noto euro-atlantista sostenitore di NATO, UE e Banca Mondiale, le parole di Rutte sui migranti avranno scioccato Soros e i suoi servi.
La rivelazione della manipolazione finanziaria di Soros dell’economia olandese sicuramente farà infuriare i cittadini olandesi già stanchi di migranti e diktat dall’Unione Europea. Nell’aprile 2016, i cittadini olandesi respinsero con nettezza il trattato UE-Ucraina che invocava legami più stretti tra UE e il regime di Kiev. Il risultato fece infuriare Soros, uno dei principali burattinai del regime di Kiev.

Il “Babbo Natale” delle ONG troverà molte porte chiuse
L’Europa una volta elogiava Soros come sorta di benevolo “Babbo Natale” che distribuiva milioni per “buone azioni” ai sostenitori del governo mondiale e di altri utopisti dagli occhi sbrilluccicanti. Tuttavia, la patina di Soros va esaurendosi. La Russia fu la prima a cacciare Soros per le interferenze nella politica russa. Il piano di Soros per destabilizzare la Russia, soprannominato “Progetto Russia” di Open Society Institute e Fondazione di Soros, prevedeva lo scoppio di una “Majdan al quadrato” nelle città della Russia. Nel novembre 2015, l’ufficio del procuratore generale russo annunciò il divieto delle attività di Open Society Institute e Istituto di assistenza della Fondazione Open Society, per minaccia all’ordine costituzionale e alla sicurezza nazionale della Russia. Il Primo Ministro ungherese Viktor Orban guida ora l’ondata anti-Soros in Europa. L’ottica di Orban, divenuto il primo leader dell’Unione europea ad opporsi alle operazioni di destabilizzazione di Soros, di origine ungherese, non è sfuggita ad altri leader europei, come in Polonia e Repubblica Ceca. Orban ha accusato Soros di essere la mente dell’invasione dei migranti dell’Europa. In rappresaglia a queste e altre mosse di Soros, Orban avvertiva che le varie organizzazioni non governative (ONG) sostenute da Soros rischiano l’espulsione dall’Europa. Orban è stato affiancato nello sfogo di rabbia su Soros dall’ex-primo ministro macedone Nikola Gruevskij, dimissionario e costretto alle elezioni anticipate dalle manifestazioni ispirate da Soros nel suo Paese nel pieno del massiccio afflusso di migranti musulmani dalla Grecia. Facendo riferimento alle operazioni politiche globali di Soros, l’ex-primo ministro macedone ha detto in un’intervista, “non lo fa solo in Macedonia, ma nei Balcani, in tutta l’Europa orientale, ed ora, ultimamente, negli Stati Uniti. Inoltre, da ciò che ho letto, in alcuni Paesi lo fa per ragioni materiali e finanziarie, per guadagnare molti soldi, mentre in altri per motivi ideologici”.
In Polonia, dove Soros fu molto influente, una parlamentare del Partito della Giustizia (PiS) di destra al governo, Krystyna Paw?owicz, ha recentemente chiesto che Soros sia privato della massima onorificenza della Polonia per gli stranieri, Comandante dell’ordine della Stella al Merito della Repubblica di Polonia. Paw?owicz considera le operazioni di Soros in Polonia illegali e ritiene inoltre che le organizzazioni di Soros “finanzino elementi antidemocratici e anti-polacchi per combattere la sovranità polacca e la locale cultura cristiana”. Il presidente ceco Milos Zeman ha detto, in un’intervista del 2016, “alcune sue attività (di Soros) sono almeno sospette e sorprendentemente ricordano le interferenze estere negli affari interni del Paese. L’organizzazione di ciò che sono note come rivoluzioni colorate nei singoli Paesi è un hobby interessante, ma crea più danni che benefici ai Paesi interessati”. Zeman sosteneva che Soros progetta una rivoluzione colorata nella Repubblica Ceca. Aivars Lemberg, sindaco di Ventspils in Lettonia e leader dell’Unione dei verdi e dei contadini, vuole che Soros e le sue ONG siano vietate in Lettonia. Lemberg sostiene che due pubblicazioni di Soros in Lettonia, Delna e Providus, fanno propaganda a favore dell’accoglienza in Lettonia dei migranti musulmani. Lemberg vede i migranti e il loro sostegno di Soros come un pericolo per la sicurezza dello Stato lettone. Il sindaco ritiene che “George Soros va bandito dalla Lettonia. Gli va vietato l’ingresso nel Paese”. Nella vicina Lituania, il partito laburista ha anche messo in dubbio le attività di Soros. Il partito e i suoi alleati parlamentari hanno chiesto ai servizi di sicurezza della Lituania d’indagare su “schemi finanziari e reti” di Soros per via della minaccia che rappresentano per la sicurezza nazionale. I partiti lituani sostengono che i gruppi di Soros sono specializzati “non a consolidare, ma a dividere la società”.
Non è più facile essere un multimiliardario intrigante che rovescia i governi con lo schiocco delle dita. Soros non solo s’è alienato il Presidente della Russia e la Prima Ministra del Regno Unito, ma ora anche il Presidente degli Stati Uniti. Soros è anche il nemico numero uno dei leader della Cina. Con tale varietà di nemici, Soros è dubbio abbia altri successi politici come in Ucraina o Georgia. Con tutti i suoi miliardi, Soros ora comanda solo un’ “esercito di bambole di carta”.
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La ripubblicazione è gradita in riferimento alla rivista on-line Strategic Culture Foundation.
Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora

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LETTERA DI RICHIAMO PER LA YELLEN DALLA CAMERA USA. INIZIA LA PRESSIONE DEL GOVERNO TRUMP SU BASILEA III. COSA FARANNO I TEDESCHI ?







Eccovi un documento esclusivo che SE vi presenta e che indica dove si combatterà la prossima battaglia fra Stati Uniti e Germania.

Si tratta di una dura lettera del vicepresidente della commissione della Camera dei Rappresentanti USA alla Yellen.



Patrick McHenry, repubblicano del North Carolina è vicepresidente della Commissioni per i Servizi finanziari della Camera dei Rappresentanti USA, membro del sottocomitato specifico per i servizi finanziari, e precedente era membro del comitato che sovraintendeva il TARP. Una persona esperta in elementi economici.

La lettere rinfaccia alla Yellen di essere ancora parte del Financial Stability Board e della International Association of Insurance Supervisor, e di aver concluso gli accordi su Basilea III senza aver considerato gli interessi dell’industria bancaria americana e le politiche della nuova amministrazione. Si attacca il sistema opaco e segreto di contrattazione seguito a Basilea e di aver raggiunto accordi onerosi, diventati legge per gli istituti di credito ed il pubblico americano, con pesanti incrementi nelle capitalizzazioni, senza una pubblica informazione e senza un adeguato processo decisionale.

Una accusa fortissima, sostanzialmente corretta nel contenuto, che mette la Yellen con le spalle al muro nelle discussioni con le controparti Europee (leggi germaniche, cioè Bundesbank) nel FSB. Sappiamo che giàera in corso uno scontro durissimo fra FED, che voleva criteri comuni e trasparenti, senza l’applicazione dei cosiddetti “Criteri interni” nella valutazione delle poste dei bilanci bancari, e la Germania che era disposta a rompere gli accordi pur di difendere quel metodo soggettivo di valutazione che evita a DB ed alle altre banche di dover ricorrere a ricapitalizzazioni.

Insomma l’attacco alla Yellen potrebbe tradursi , in realtà, in un forte rafforzamento ed irrigidimento della FED nella trattativa per Basilea III. A questo punto la posizione forte americana trova un appoggio politico, che non può essere ignorato. Un’ipotetica rottura dello standard definito dal FSB potrebbe portare ad una maggiore flessibilità nei criteri di valutazione bancaria, ma noi ce ne potremmo giovare solo nella misura in cui la Banca d’Italia decidesse di staccarsi dalle posizioni della Banca Centrale Europea. In caso contrario il nostro sistema creditizio rimarrà come ostaggio di un sistema creditizio i cui standard sono rigidissimi, soprattutto per noi, ma falsabili, soprattutto dagli altri.

P.S. Naturalmente, e casualmente, Deutsche Bank perde oggi il 5%…. Casualmente



Grazie a tutti


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angolazione
Euro crisis febbraio 3, 2017 posted by Maurizio Gustinicchi
Target 2: ovvero drenare via altro benessere ai cittadini (di MARCO ORSO GIANNINI)
Torna il Versiliese ex M5S, AUTOALLONTANATOSI dopo lo spostamento.verso posizioni EURISTE dei vertici grillini.
Neanche lui ha retto i nuovi dogmi dei suoi Guru:


Buona lettura.

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Lo chiamano Target 2 ma ci pare che l’obiettivo sia il solito.
Come scrissi nel mio saggio “Il neoliberismo che sterminò la mia generazione” (Ed. Andromeda) ci sono due tipi di esperti in “economia”: quello che ne sa poco e il docente universitario.
Il primo vuole avere ragione per forza (al bar di norma) mentre il secondo tende a fregarsene di essere compreso (nelle sedi accademiche e sulla stampa).
Il banchiere è ancora più estremista in questo senso ed è in antitesi con chi, “novello Ermes”, cerca di rendere semplice la comprensione ai cittadini per creare i presupposti culturali verso una “rivoluzione”.
(Chi lo fa peraltro va in contro spesso perfino a plagi da parte di blogger ignoranti, ospitati magari sui quotidiani nazionali in cui si atteggiano a guru).
La questione Target 2 ha delle implicazioni legali che non conosco (e con quelle, storia insegna, c’è sempre il rischio di qualche “discussione conflittuale” soprattutto quando di mezzo ci sono i tedeschi) tuttavia risulta abbastanza incredibile la sua sostanza: un privato italiano trasferisce soldi nel paese teutonico (presso un altro privato cioè una banca), in termini di economia reale il settore privato italiano ha un credito verso i tedeschi eppure i tecnocrati sono riusciti a trasformare ciò in un debito della nostra banca centrale verso la BCE e in un credito della Bundesbank in un credito verso la BCE.
(Per la proprietà transitiva l’Italia diventa quasi una sorta di debito verso la Germania spacciata dai media come quella “brava”).
“Patti chiari amicizia lunga” si direbbe con un certo sarcasmo!
Come d’incanto uscendo dall’euro, per meccanismi di questo tipo, secondo Draghi il popolo italiano dovrebbe cedere oltre 300 md di euro oltre a quelli già depredati, de facto, dal mercantilismo tedesco.
E’ chiaro che la liquidità (la carta) prenda la via di Berlino perché fugge dall’Italia visto che i teutonici, violando il Trattato di Maastricht (export eccessivo), accumulano danaro.
Queste somme peraltro non le fanno ricadere in termini di benessere sui cittadini (salari più alti, più diritti significherebbe consumi e con essi anche consumi esteri) ma per alimentare altro mercantilismo (ad esempio detassando le aziende che esportano).
Detto ciò ho interpretato il meccanismo di Draghi in una sorta di gioco bidirezionale per spiegare come un credito del genere divenga un debito (e come l’economia venga stravolta dai tecnicismi finanziari): una banca privata se ha scarsa liquidità “chiama a sé” moneta elettronica visto che le banche per fornire danaro allo sviluppo economico (l’impresa si fa “a debito” come noto) sono tutte collegate le une alle altre (ivi comprese le banche centrali). Possiamo quindi affermare che chi chiama moneta elettronica a sé si indebita verso una sorta di “ombelico del mondo”. Chi invece vede arrivare un deposito (cartaceo) è come scacciasse tale “moneta elettronica” (quindi verso l’ombelico del mondo) e si accredita.
Il percorso quindi è il seguente
BCE -> Banca centrale nazionale -> Banca Privata -> Cittadino

oppure

Cittadino -> Banca Privata -> Banca centrale nazionale -> BCE.
Lo step “Banca centrale nazionale” sarebbe superfluo ma la dice lunga sul senso “profondo” (ironia) dell’Euro(pa).
Con questi tecnicismi gli eurocrati sapevano di creare le condizioni del ricatto su questioni poco comprensibili ai non addetti (compresi i CAC su cui Grillo/Minenna/Casaleggio sono andati a sbattere).
Perché al banchiere convenga non essere compreso lo capite da soli.
Mi rendo conto che in questo pezzo manchi la conclusione…fatela
 
germania febbraio 2, 2017 posted by Mitt Dolcino
Clamoroso: il mondo diplomatico tedesco conferma che Berlino vuole sostituirsi agli USA in Europa, “combattendo” Trump in nome dell’EU

Quanto nel titolo non è farina del mio sacco ma quanto contenuto in due interessantissimi e splendidi articoli pubblicati da german-foreign-policy.com, emanazione più o meno ufficiale della politica estera di Berlino, scuola di Kiel. Consiglio di leggerli con estrema attenzione, articoli che vi propongo con i link sulle immagini degli stessi.



La domanda è: ma la Germania ha chiesto agli altri paesi europei se sono disposti a combattere i liberatori dal giogo nazifascista (ossia, gli USA) per permettere a Berlino di comandare in EU, ossia per dare lo scettro del comando allo stesso soggetto che troppo spesso ha affamato per propri interessi i suoi stessi partner EU anche negli ultimi 8 anni (Grecia etc.)?

Eh si cari miei, la realtà dei fatti è che dalla moneta unica ci ha guadagnato solo la Germania e questo è ammesso candidamente dagli stessi politici tedeschi. Il problema è che ad un aumento di benessere germanico è corrisposta la miseria nei paesi periferici, anche e soprattutto in quelli troppo contigui ai poteri USA [il vero obiettivo]. Tutto torna direi.

Poi, il Brexit ha vaticinato il fatto che sia in formazione un nuovo centro di potere europeo alternativo a Berlino ossia la Germania dal giugno scorso non è più sola al comando dell’EU, c’è anche Londra. Ed oggi non a caso Londra è con Washington. E quindi usciranno altri paesi dall’EU nonostante gli enormi sforzi tedeschi per impedirlo. Appunto, ci saranno sforzi per impedire che questa deriva pro-anglosassone vada in porto, questo è certo (domanda: Bollorè fa parte degli sforzi? Idem Generali acquisita da Allianz e/o Axa?). Sforzi che, va detto, non sono nè saranno mirati a dare il contentino ai periferici oggi in mezzo al guado ma – come al solito, tragicamente per gli interessi tedeschi – a minacciare sonore bastonate se non si allineano.



Ad esempio l’Italia: nonostante le catastrofi che ha dovuto affrontare nel 2016/17 – naturali ossia terremoti, e organizzate da Bruxelles ossia i migranti fatti arrivare e poi non smistati negli altri paesi EU contravvenendo ad accordi precedenti – l’EU francotedesca ci chiede di rientrare a tutti i costi dal deficit (con sponda francese). In realtà solo per costringerci a privatizzare ed a far arrivare la Troika a Palazzo Chigi, leggasi per metterci sotto tutela ossia per neutralizzarci. Tutto torna (encore)

Riconosco ai teutonici la caparbietà e la direzione: oggi arrivano a pubblicare chiaramente il loro indirizzo strategico, sostituirsi agli USA in Europa, per comandarla. Alla fine – pensateci bene – se non si fosse voluto raggiungere tale fine che senso avrebbe avuto imporre cotanta austerità ai paesi partner soprattutto sud europei? Austerità nefasta, e loro lo sapevano bene. O meglio, questo è quanto emerge dai due splendidi articoli che vi propongo.

C’è da pensare. (Mi vien da dire, forse non è come i media vogliono farci credere che esiste una sfida europea contro Trump ma piuttosto che il problema sta in chi vuole sfidare il dominus USA [per prendere il suo posto] ed utilizza Trump come scusa… [infatti la Russia e Londra se ne guardano bene dal farsi tirare nella mischia, ndr])

Oggi Berlino vuole comandare l’EU e ormai non teme più Washington. Avrà ragione? E’ un azzardo? Consapevolezza nei propri mezzi? Difficile a dirlo per ora (come ben sapete una idea ce l’ho e sono già schierato da tempo, con l’Italia).

Mi limito a fare una considerazione suggeritami da un amico d’oltreoceano: ma se Trump davvero vuole la pace con Putin, ora che i militari USA sono di fatto al potere alla Casa Bianca perchè continuano a trasferire centinaia se non migliaia di carri armati USA/NATO ai confini con la Russia?

Io questa domanda l’ho fatta, esplicitamente.

Non avevo capito nulla, guardavo forse la realtà dalla parte del deretano ossia da quella sbagliata. In fondo, quello che davvero conta è che i carri armati USA siano già in Germania… (questa è stata la risposta che ho ottenuto, più o meno).

L’Italia deve tenere la barra a dritta e NON cedere ai ricatti eurotedeschi – come di fatto sta facendo – mirati ad annientarla come paese benestante e soprattutto come miglior alleato USA non anglosassone.

Chi è di mazzo?

Mitt Dolcino
 
Verità per Regeni? Dagli 007 inglesi: l’hanno ucciso loro
Scritto il 02/2/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi


Verità per Giulio Regeni? Chiedetela agli 007 inglesi, per i quali lavorava. La giusta causa della missione del giovane ricercatore? Nobile: contribuire alla democrazia in Egitto. Molto meno edificante, invece, il vero obiettivo dei suoi committenti-killer: sabotare le relazioni tra l’Italia e il governo del generale Al-Sisi, dopo che l’Eni aveva scoperto, al largo delle coste egiziane, un colossale giacimento di gas. E’ la tesi rilanciata da un analista geopolitico come Federico Dezzani, a un anno dall’atroce “sacrificio” di Regeni, trucidato e fatto curiosamente ritrovare nel modo più clamoroso e raccapricciante, esibito come vittima degli “aguzzini” del Cairo: come se la polizia di Al-Sisi, dovendo liquidare un “nemico”, fosse così folle e autolesionista da metterne in piazza la crocifissione. Il primo a lanciare la pista alternativa a quella della versione ufficiale fu il giornalista Marco Gregoretti, già inviato di “Panorama”, vincitore del Premio Saint-Vincent per i suoi servizi sulle violenze (stupri, torture) commesse nelle missioni di pace in Somalia, dove furono assassinati Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Le fonti: riservate, di intelligence. Il messaggio, chiaro: Regeni ucciso su ordine di Londra, per rovinare il business italo-egiziano.
Chi invece ha contribuito a distogliere l’attenzione da questa ipotesi, scagliando l’opinione pubblica contro il regime del Cairo, è stato il gruppo “Espresso” capitanato da “Repubblica”, accusa Dezzani, intervistato da Stefania Nicoletti ai microfoni di “Border Nights”. La realtà sarebbe tutt’altra, ben nota a Roma come al Cairo e a Londra, nonché a tutti i servizi segreti presenti in territorio egiziano. Un verità così indigesta da costringere l’Egitto sulla difensiva a recitare la parte del cattivo, di fronte al governo italiano che finge di reclamare collaborazione nelle indagini, pur sapendo benissimo cosa sarebbe accaduto, in realtà, il 25 gennaio 2016 al Cairo, quando una telefonata da Londra ordinò ai killer di uccidere il coraggioso ricercatore italiano. «L’assassinio di Regeni – scrive Dezzani nel suo blog – si è dispiegato come un’articolata manovra ai danni dell’Italia: sono finiti nel mirino l’Eni e la nostra collaborazione col Cairo sul dossier libico. Ma anche una piccola società d’informatica milanese, l’Hacking Team, diventata d’intralcio al club degli spioni anglosassoni, noto come “Five Eyes”».
Manipolazioni, accusa Dezzani, realizzate in collaborazione coi media mainstream: «Perché giornali e istituzioni hanno dedicato poche e stringate parole a Giovanni Lo Porto, il cooperante ucciso in Afghanistan nel gennaio 2015 da un drone statunitense? Perché hanno liquidato in pochi giorni la vicenda di Fausto Piano e Salvatore Failla, i due tecnici uccisi in Libia, dopo che un raid americano a Sabrata fece saltare le trattative per la liberazione? E perché, al contrario, la triste storia di Giulio Regeni, il ricercatore sequestrato al Cairo e poi ucciso, è stata oggetto per un anno intero del dibattito politico, di inchieste, di manifestazioni e di appelli? Si direbbe che fosse utile dimenticare le morti di Lo Porto, Piano e Failla, e facesse comodo tenere quella di Regeni sotto i riflettori, il più a lungo possibile». Non solo il caso Regeni ha monopolizzato l’attenzione dei media per un anno intero, «ma ha assunto connotati quasi ridicoli», con i giornali – “Repubblica” in primis – a dar voce ai “si dice”, ad “anonimi” che incolpano il capo della polizia criminale egiziana, il ministero dell’interno, i vertici dei servizi segreti e, dulcis in fundo, il presidente Abd Al-Sisi in persona. «Illazioni, fonti non attendibili», risponderà tranciate la magistratura italiana a distanza di poche ore.
“La Repubblica”, continua Dezzani, è lo stesso giornale che, a pochi giorni dal ritrovamento del corpo di Regeni, informava il pubblico che l’Eni avrebbe dovuto a breve firmare con l’Egitto il contratto per lo sfruttamento del maxi-giacimento di Zohr, sostenendo che «congelarlo, fino ad una chiara identificazione e punizione degli assassini di Giulio, potrebbe essere una buona arma (diplomatica) di pressione». Dunque, «un qualche interesse petrolifero che esulava dalla morte del povero Regeni?», si domanda Dezzani. «Il sospetto è più che legittimo: non solo perché, come diceva Andreotti, “a pensar male del prossimo si fa peccato ma si indovina”, ma anche perché al battage del gruppo “L’Espresso” contro l’Egitto si affianca da subito la martellante campagna di Amnesty International», che ha sede a Londra e «solidi legami col Dipartimento di Stato americano e il variegato mondo della vecchia sinistra extra-parlamentare (ex-Lotta Continua, ex-Potere Operaio, “Il Manifesto”) che da sempre gravita nell’orbita Nato». E allora: quale “verità” hanno invocato per dodici mesi i media e le Ong? «La verità oggettiva, oppure una verità di comodo? Quella utile a scoprire i veri carnefici di Giulio Regeni, oppure quella utile all’establishment atlantico, lo stesso in cui si annidano i mandanti dell’omicidio?».
In svariati post sul suo blog, Dezzani ha sviscerato a fondo la dinamica del feroce assassinio, evidenziando «tutti gli elementi che indicano una chiara regia atlantica, e inglese in particolar modo, dietro il delitto». Lo scenario è squisitamente geopolitico: tutto comincia nel luglio 2013, quando il golpe militare di Al-Sisi mette fine alla “rivoluzione colorata” del 2011 e depone il governo dei Fratelli Musulmani. Attenzione: benché islamista, la Fratellanza Musulmana è «manovrata da Londra sin dal secolo scorso». Tra il nuovo Egitto nazionalista e l’Italia i rapporti si infittiscono: interscambi commerciali, investimenti, sintonia sullo scacchiere mediorientale. Nel 2014, l’Eni si aggiudica la concessione Shorouk al largo delle coste egiziane. Nel marzo 2015, continua Dezzani nella sua ricostruzione, il vertice di Sharm El-Sheik coincide con lo zenit dei rapporti tra Roma e il Cairo: l’Italia si affida all’Egitto per risolvere il rebus libico, puntando così implicitamente sul generale Khalifa Haftar, già in buoni rapporti con i servizi segreti italiani. Ma ecco che, nel luglio 2015, un’autobomba sventra un’ala del consolato italiano al Cairo: «Rivendicato dall’Isis, l’attentato è un primo messaggio angloamericano affinché l’Italia si svincoli dall’Egitto».
Un mese dopo, ad agosto, l’Eni annuncia la scoperta del maxi-giacimento Zohr all’interno della concessione Shorouk: 850 miliardi di metri cubi, la più grande scoperta di gas mai effettuata in Egitto e nel Mediterraneo. Ancora un mese, e nel settembre 2015 al Cairo sbarca Regeni. «Reduce da un’esperienza alla società di consulenze Oxford Analytica, il dottorando italiano all’università di Cambridge svolge un programma di studio e azione sul campo (“Participatory action research”) che lo mette in contatto con esponenti dell’opposizione di Al-Sisi: i suoi docenti, Anne Alexandre e Maha Abdelrahman, sono infatti legate al milieu della Fratellanza Mussulmana e delle “rivoluzioni colorate”». Secondo Dezzani, la decisione di “sacrificare” Regeni risale già a questa fase: «Il ricercatore è deliberatamente esposto all’ambiente dei dissidenti, informatori e spioni, così da creare il pretesto per il suo successivo sequestro e omicidio». In altre parole, sarebbe stato mandato al macello. A dicembre, intanto, al vertice marocchino di Skhirat convocato per decidere le sorti della Libia, gli angloamericani “staccano” l’Italia dal generale Haftar e la spingono verso l’effimero governo d’unità nazionale libico: «A questo punto, bisogna solo più incrinare i rapporti italo-egiziani ed estromettere, se possibile, l’Eni dalle sue concessioni».
E arriva il fatidico 25 gennaio 2016: Regeni è rapito «su ordine dei servizi inglesi», scrive Dezzani, precisando che «le celle telefoniche testimoniano un traffico tra Regno Unito ed Egitto al momento del sequestro». L’operazione è affidata a «criminali comuni», oppure a «qualche sgherro della Fratellanza Musulmana». Non è neppure da escludere che i rapitori «abbiano agito in uniforme da poliziotti». Nove giorni dopo, il 3 febbraio, il cadavere di Regeni è rinvenuto alla periferia del Cairo. «Se Regeni fosse effettivamente morto durante un interrogatorio della polizia, il suo corpo non sarebbe mai stato ritrovato», assicura Dezzani, che aggiunge: «Grazie allo zelante ambasciatore Maurizio Massari, con una lunga esperienza a Londra e Washington alle spalle, la situazione precipita in poche ore. E la delegazione del ministro Federica Guidi, in visita in Egitto, è bruscamente richiamata in Italia. Massari sarà promosso qualche mese dopo alla carica di ambasciatore italiano presso la Ue». Il 9 aprile, l’Italia richiama l’ambasciatore, dopo un “fallimentare” vertice a Roma con le autorità egiziane. «Lo sforzo per sabotare l’attività dell’Eni in Egitto raggiunge l’acme e si avanza esplicitamente l’ipotesi che il cane a sei zampe, “visto che ha in piedi in Egitto il più grande investimento, da circa sette miliardi di euro”, faccia le dovute pressioni sul Cairo. Come? Sospendendo i progetti. Si ventilano anche possibili sanzioni economiche contro l’Egitto».
A giugno, il filone delle indagini che porta in Inghilterra «si schianta contro il muro di omertà dell’università di Cambridge». Un aspetto della massima serietà. «Il rifiuto di collaborare con gli inquirenti italiani non genera però nessuna crisi diplomatica in questo caso: Londra e Washington godono infatti di una totale impunità in Italia, sin dagli accordi di Yalta del 1945». Uccidere Regeni? Due piccioni con una fava: «Sabotare la presenza italiana in Libia, separandola dalla coppia Al-Sisi/Haftar, ed estromettere l’Eni dal giacimento Zohr». Missione compiuta, a distanza di dodici mesi? Forse, osserva Dezzani, la tradizionale “elasticità” della politica estera italiana, «un po’ cerchiobottista e un po’ levantina», ha limitato i danni: «Il governo ha adottato una linea intransigente contro l’Egitto, seguendo il copione impostogli da Londra e Washington, mentre l’Eni ha mantenuto toni concilianti e filo-egiziani, così da non compromettere gli interessi italiani nella regione». Nel complesso, quindi, «i danni che i mandanti dell’omicidio Regeni volevano infliggere all’Italia sono stati circoscritti e limitati». L’Italia ha sì interrotto la collaborazione con il Cairo in Libia, però l’Eni si è alleata con la russa Rosneft per l’affare del gas. Già, ma il povero Regeni? Verrà mai il giorno in cui, finalmente, i mandanti dei suoi killer avranno un nome, al di là della recita pubblica sulla “verità” per Giulio?
Verità per Giulio Regeni? Chiedetela agli 007 inglesi, per i quali lavorava, dietro copertura universitaria. La giusta causa della missione del giovane ricercatore? Nobile: contribuire alla democrazia in Egitto. Molto meno edificante, invece, il vero obiettivo dei suoi committenti-killer: sabotare le relazioni tra l’Italia e il governo del generale Al-Sisi, dopo che l’Eni aveva scoperto, al largo delle coste egiziane, un colossale giacimento di gas. E’ la tesi rilanciata da un analista geopolitico come Federico Dezzani, a un anno dall’atroce “sacrificio” di Regeni, trucidato e fatto curiosamente ritrovare nel modo più clamoroso e raccapricciante, esibito come vittima degli “aguzzini” del Cairo: come se la polizia di Al-Sisi, dovendo liquidare un “nemico”, fosse così folle e autolesionista da metterne in piazza la crocifissione. Il primo a lanciare la pista alternativa a quella della versione ufficiale fu il giornalista Marco Gregoretti, già inviato di “Panorama”, vincitore del Premio Saint-Vincent per i suoi servizi sulle violenze (stupri, torture) commesse nelle missioni di pace in Somalia, dove furono assassinati Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Le fonti: riservate, di intelligence. Il messaggio, chiaro: Regeni ucciso su ordine di Londra, per rovinare il business italo-egiziano.
 

Chi invece ha contribuito a distogliere l’attenzione da questa ipotesi, scagliando l’opinione pubblica contro il regime del Cairo, è stato il gruppo “Espresso” capitanato da “Repubblica”, accusa Dezzani, intervistato da Stefania Nicoletti ai microfoni di Border Nights”. La realtà sarebbe tutt’altra, ben nota a Roma come al Cairo e a Londra, nonché a tutti i servizi segreti presenti in territorio egiziano. Un verità così indigesta da costringere l’Egitto sulla difensiva a recitare la parte del cattivo, di fronte al governo italiano che finge di reclamare collaborazione nelle indagini, pur sapendo benissimo cosa sarebbe accaduto, in realtà, il 25 gennaio 2016 al Cairo, quando una telefonata da Londra ordinò ai killer di uccidere il coraggioso ricercatore italiano. «L’assassinio di Regeni – scrive Dezzani nel suo blog – si è dispiegato come un’articolata manovra ai danni dell’Italia: sono finiti nel mirino l’Eni e la nostra collaborazione col Cairo sul dossier libico. Ma anche una piccola società d’informatica milanese, l’Hacking Team, diventata d’intralcio al club degli spioni anglosassoni, noto come “Five Eyes”».

Manipolazioni, accusa Dezzani, realizzate in collaborazione coi media mainstream: «Perché giornali e istituzioni hanno dedicato poche e stringate parole a Giovanni Lo Porto, il cooperante ucciso in Afghanistan nel gennaio 2015 da un drone statunitense? Perché hanno liquidato in pochi giorni la vicenda di Fausto Piano e Salvatore Failla, i due tecnici uccisi in Libia, dopo che un raid americano a Sabrata fece saltare le trattative per la liberazione? E perché, al contrario, la triste storia di Giulio Regeni, il ricercatore sequestrato al Cairo e poi ucciso, è stata oggetto per un anno intero del dibattito politico, di inchieste, di manifestazioni e di appelli? Si direbbe che fosse utile dimenticare le morti di Lo Porto, Piano e Failla, e facesse comodo tenere quella di Regeni sotto i riflettori, il più a lungo possibile». Non solo il caso Regeni ha monopolizzato l’attenzione dei media per un anno intero, «ma ha assunto connotati quasi ridicoli», con i giornali – “Repubblica” in primis – a dar voce ai “si dice”, ad “anonimi” che incolpano il capo della polizia criminale egiziana, il ministero dell’interno, i vertici dei servizi segreti e, dulcis in fundo, il presidente Abd Al-Sisi in persona. «Illazioni, fonti non attendibili», risponderà tranciate la magistratura italiana a distanza di poche ore.

“La Repubblica”, continua Dezzani, è lo stesso giornale che, a pochi giorni dal ritrovamento del corpo di Regeni, informava il pubblico che l’Eni avrebbe dovuto a breve firmare con l’Egitto il contratto per lo sfruttamento del maxi-giacimento di Zohr, sostenendo che «congelarlo, fino ad una chiara identificazione e punizione degli assassini di Giulio, potrebbe essere una buona arma (diplomatica) di pressione». Dunque, «un qualche interesse petrolifero che esulava dalla morte del povero Regeni?», si domanda Dezzani. «Il sospetto è più che legittimo: non solo perché, come diceva Andreotti, “a pensar male del prossimo si fa peccato ma si indovina”, ma anche perché al battage del gruppo “L’Espresso” contro l’Egitto si affianca da subito la martellante campagna di Amnesty International», che ha sede a Londra e «solidi legami col Dipartimento di Stato americano e il variegato mondo della vecchia sinistra extra-parlamentare (ex-Lotta Continua, ex-Potere Operaio, “Il Manifesto”) che da sempre gravita nell’orbita Nato». E allora: quale “verità” hanno invocato per dodici mesi i media e le Ong? «La verità oggettiva, oppure una verità di comodo? Quella utile a scoprire i veri carnefici di Giulio Regeni, oppure quella utile all’establishment atlantico, lo stesso in cui si annidano i mandanti dell’omicidio?».

In svariati post sul suo blog, Dezzani ha sviscerato a fondo la dinamica del feroce assassinio, evidenziando «tutti gli elementi che indicano una chiara regia atlantica, e inglese in particolar modo, dietro il delitto». Lo scenario è squisitamente geopolitico: tutto comincia nel luglio 2013, quando il golpe militare di Al-Sisi mette fine alla “rivoluzione colorata” del 2011 e depone il governo dei Fratelli Musulmani. Attenzione: benché islamista, la Fratellanza Musulmana è «manovrata da Londra sin dal secolo scorso». Tra il nuovo Egitto nazionalista e l’Italia i rapporti si infittiscono: interscambi commerciali, investimenti, sintonia sullo scacchiere mediorientale. Nel 2014, l’Eni si aggiudica la concessione Shorouk al largo delle coste egiziane. Nel marzo 2015, continua Dezzani nella sua ricostruzione, il vertice di Sharm El-Sheik coincide con lo zenit dei rapporti tra Roma e il Cairo: l’Italia si affida all’Egitto per risolvere il rebus libico, puntando così implicitamente sul generale Khalifa Haftar, già in buoni rapporti con i servizi segreti italiani. Ma ecco che, nel luglio 2015, un’autobomba sventra un’ala del consolato italiano al Cairo: «Rivendicato dall’Isis, l’attentato è un primo messaggio angloamericano affinché l’Italia si svincoli dall’Egitto».

Un mese dopo, ad agosto, l’Eni annuncia la scoperta del maxi-giacimento Zohr all’interno della concessione Shorouk: 850 miliardi di metri cubi, la più grande scoperta di gas mai effettuata in Egitto e nel Mediterraneo. Ancora un mese, e nel settembre 2015 al Cairo sbarca Regeni. «Reduce da un’esperienza alla società di consulenze Oxford Analytica, il dottorando italiano all’università di Cambridge svolge un programma di studio e azione sul campo (“Participatory action research”) che lo mette in contatto con esponenti dell’opposizione di Al-Sisi: i suoi docenti, Anne Alexandre e Maha Abdelrahman, sono infatti legate al milieu della Fratellanza Mussulmana e delle “rivoluzioni colorate”». Secondo Dezzani, la decisione di “sacrificare” Regeni risale già a questa fase: «Il ricercatore è deliberatamente esposto all’ambiente dei dissidenti, informatori e spioni, così da creare il pretesto per il suo successivo sequestro e omicidio». In altre parole, sarebbe stato mandato al macello. A dicembre, intanto, al vertice marocchino di Skhirat convocato per decidere le sorti della Libia, gli angloamericani “staccano” l’Italia dal generale Haftar e la spingono verso l’effimero governo d’unità nazionale libico: «A questo punto, bisogna solo più incrinare i rapporti italo-egiziani ed estromettere, se possibile, l’Eni dalle sue concessioni».

E arriva il fatidico 25 gennaio 2016: Regeni è rapito «su ordine dei servizi inglesi», scrive Dezzani, precisando che «le celle telefoniche testimoniano un traffico tra Regno Unito ed Egitto al momento del sequestro». L’operazione è affidata a «criminali comuni», oppure a «qualche sgherro della Fratellanza Musulmana». Non è neppure da escludere che i rapitori «abbiano agito in uniforme da poliziotti». Nove giorni dopo, il 3 febbraio, il cadavere di Regeni è rinvenuto alla periferia del Cairo. «Se Regeni fosse effettivamente morto durante un interrogatorio della polizia, il suo corpo non sarebbe mai stato ritrovato», assicura Dezzani, che aggiunge: «Grazie allo zelante ambasciatore Maurizio Massari, con una lunga esperienza a Londra e Washington alle spalle, la situazione precipita in poche ore. E la delegazione del ministro Federica Guidi, in visita in Egitto, è bruscamente richiamata in Italia. Massari sarà promosso qualche mese dopo alla carica di ambasciatore italiano presso la Ue». Il 9 aprile, l’Italia richiama l’ambasciatore, dopo un “fallimentare” vertice a Roma con le autorità egiziane. «Lo sforzo per sabotare l’attività dell’Eni in Egitto raggiunge l’acme e si avanza esplicitamente l’ipotesi che il cane a sei zampe, “visto che ha in piedi in Egitto il più grande investimento, da circa sette miliardi di euro”, faccia le dovute pressioni sul Cairo. Come? Sospendendo i progetti. Si ventilano anche possibili sanzioni economiche contro l’Egitto».

A giugno, il filone delle indagini che porta in Inghilterra «si schianta contro il muro di omertà dell’università di Cambridge». Un aspetto della massima serietà. «Il rifiuto di collaborare con gli inquirenti italiani non genera però nessuna crisi diplomatica in questo caso: Londra e Washington godono infatti di una totale impunità in Italia, sin dagli accordi di Yalta del 1945». Uccidere Regeni? Due piccioni con una fava: «Sabotare la presenza italiana in Libia, separandola dalla coppia Al-Sisi/Haftar, ed estromettere l’Eni dal giacimento Zohr». Missione compiuta, a distanza di dodici mesi? Forse, osserva Dezzani, la tradizionale “elasticità” della politica estera italiana, «un po’ cerchiobottista e un po’ levantina», ha limitato i danni: «Il governo ha adottato una linea intransigente contro l’Egitto, seguendo il copione impostogli da Londra e Washington, mentre l’Eni ha mantenuto toni concilianti e filo-egiziani, così da non compromettere gli interessi italiani nella regione». Nel complesso, quindi, «i danni che i mandanti dell’omicidio Regeni volevano infliggere all’Italia sono stati circoscritti e limitati». L’Italia ha sì interrotto la collaborazione con il Cairo in Libia, però l’Eni si è alleata con la russa Rosneft per l’affare del gas. Già, ma il povero Regeni? Verrà mai il giorno in cui, finalmente, i mandanti dei suoi killer avranno un nome, al di là della recita pubblica sulla “verità” per Giulio?

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Su Voxeu un interessante articolo di De Grauwe sui famigerati squilibri Target2: quelli dovuti ai surplus commerciali la Germania se li è voluti - quelli relativi ai flussi speculativi non sono un problema. Timori e tremori per nulla? (hat tip al Grande Bluff)




di Paul De Grauwe e Yuemei Ji, 18 settembre 2012

Il grande accumulo di crediti TARGET2 da parte della Germania ha creato la paura che, se l'Eurozona dovesse crollare, la Germania rischia di subire grandi perdite. Dopo aver chiarito la questione utilizzando i fondamentali principi economici, questo articolo mostra che la Germania potrebbe evitare queste grandi perdite di ricchezza limitando la possibilità di conversione euro-marco ai soli residenti tedeschi.

La grande espansione dei crediti e dei debiti TARGET2 dall'inizio della crisi del debito sovrano ha portato a timori che, se l'eurozona si disgrega, paesi come la Germania subirebbero grandi perdite (Sinn e Wollmershäuser 2012) 11.


Questa paura ha creato in Germania forti emozioni negative nei confronti dell'eurozona ed è diventata un importante fattore politico. Ma un crollo dell'EZ è davvero un grave rischio per la Germania? Noi sosteniamo che la risposta è no.

La nostra analisi procede in due fasi.

  • Distinguiamo tra i rischi emergenti dalle attività estere nette e dai crediti lordi che compongono i saldi Target2; e
  • Mostriamo come le perdite di ricchezza tedesche possano essere evitate in caso di una rottura dell'eurozona.
Attività estere Totali e crediti TARGET2

E' importante partire da solide verità. Se un paese ha crediti finanziari netti nei confronti del resto del mondo, il paese deve aver avuto in passato dei surplus delle partite correnti. Ciò significa che la Germania ha accumulato in passato dei surplus delle partite correnti nei confronti degli altri paesi dell'eurozona. Non c'è un altro modo in cui la Germania possa aver accumulato crediti finanziari col resto dell'eurozona.

Questo porta alle seguenti intuizioni.

  • La dimensione delle possibili perdite dipende dalle dimensioni dei crediti esteri netti;

  • Tali perdite si verificano solo se i debitori stranieri dichiarano default sul loro debito.
Il punto successivo è quello critico nell'attuale animato dibattito.

  • I crediti TARGET2 della Germania non sono un buon indicatore di questo rischio in quanto non sono un buon indicatore dei crediti esteri netti tedeschi.

I debiti TARGET2 sono aumentati soprattutto a causa dei flussi speculativi (De Grauwe e Ji 2012) e quindi non modificano le attività nette della Germania sul resto della zona euro. Quel che ha fatto TARGET2 è stato spostare la composizione di quei crediti tra la Banca centrale tedesca e le banche tedesche. Si consideri un esempio.

Uno spagnolo con depositi in euro in una banca spagnola sposta il suo deposito in una banca tedesca - guidato dalla paura che la Spagna potrà uscire e convertire i suoi euro in pesetas svalutate. Benché sia una mossa prudente, questo è in realtà solo una speculazione in valuta estera da parte dello spagnolo - il trasferimento è un flusso speculativo.

Il punto cruciale è che questo trasferimento di depositi dalla Spagna alla Germania crea una nuova passività e un nuovo asset per la Germania:

  • Il nuovo deposito bancario in Germania è una nuova passività tedesca nei confronti dello spagnolo, e

  • La variazione nel saldo TARGET2 della Bundesbank è un nuovo credito tedesco verso l'Eurosistema.

In particolare, il trasferimento di depositi dalla Spagna alla Germania porta ad un aumento delle passività TARGET2 del Banco de España verso l'Eurosistema e a un corrispondente aumento dei crediti TARGET2 della Bundesbank verso l'Eurosistema. In altre parole, la passività risulta nella banca commerciale tedesca e il credito nella banca centrale tedesca.

Un modo per rappresentarselo è immaginare che il nuovo deposito dello spagnolo nella banca tedesca potrebbe - se tali trasferimenti fossero legalmente e politicamente possibili - saldare il nuovo credito della Bundesbank verso l'Eurosistema. Naturalmente, questo è altamente improbabile, ma si coglie il fatto che i saldi TARGET2 creati dai flussi di capitali speculativi non sono crediti netti tedeschi – sono
 
Quanti sono i flussi netti rispetto ai flussi lordi negli squilibri TARGET2?

Dopo il 2010, i crediti tedeschi TARGET2 sono aumentati drammaticamente e molto più dei surplus delle partite correnti dello stesso periodo, e lo stesso vale per gli altri membri del nord dell'EZ come la Finlandia e i Paesi Bassi.

Ciò è reso evidente dalle figure 1 e 2. I crediti netti, che equivalgono ai surplus delle partite correnti, sono illustrati nella Figura 2. La figura 3 mostra i crediti lordi che passano attraverso TARGET2. Chiaramente, i crediti e le passività lordi dopo il 2010 sono stati molte volte maggiori dei crediti netti.

È per questo che l'esplosione dei crediti TARGET della Germania dal 2010 non può essere interpretato come un'esplosione del rischio di esposizione sull'estero per la Germania.


Questo rischio è moderatamente aumentato, perché dal 2010 la Germania ha continuato ad accumulare surplus delle partite correnti. Avrebbe potuto decidere di ridurre il surplus delle partite correnti, perseguire politiche fiscali più espansive, ma non l'ha fatto. L'incremento dell'esposizione netta sull'estero - anche se non enorme - è del tutto una decisione autonoma della Germania. Non può essere colpa del sistema TARGET2. (Vedi Figura 3 nell'addendum sui crediti TARGET2 come quote del PIL).

Si potrebbe obiettare, tuttavia, che a causa dei maggiori crediti della Bundesbank nel sistema TARGET2 sono i contribuenti tedeschi che ora sopportano il rischio più elevato. Ma anche questo è sbagliato. Questo ci porta alla seconda parte della nostra risposta.


Figura 1. Surplus/deficit delle partite correnti sul PIL




Figura 2. Variazioni TARGET2 sul PIL

Come la Bundesbank potrebbe evitare le perdite se crolla l'eurozona

Per spiegare il piano per evitare le perdite, è ancora una volta necessario tornare a solidi concetti fondamentali - il ruolo delle banche centrali nell'odierno sistema monetario fiat. Ci sono tre elementi chiave da tenere a mente:

  • Quando la Bundesbank acquisisce crediti (attività), emette passività - che sono, per definizione, la base monetaria.

  • Il valore della base monetaria non è automaticamente determinato dal valore delle attività detenute dalla Bundesbank; il suo valore è indipendente dal valore delle attività detenute dalla banca centrale.

Nel sistema monetario fiat in cui viviamo, la Bundesbank potrebbe distruggere tutti i suoi asset, senza alcun effetto sul valore della base monetaria - fino a quando la gente continuerà a fidarsi della capacità della Bundesbank di mantenere la stabilità dei prezzi. Gli economisti che sono confusi su questo punto di solito pensano ancora alle banche centrali in condizioni di gold standard. Allora gli asset della banca centrale (oro) avevano un impatto molto diretto sul valore della base monetaria - dopo tutto, la banca centrale prometteva di convertire la carta moneta in oro. La BCE (e la maggior parte delle banche centrali dei grandi paesi industrializzati), tuttavia, non ha fatto nessuna promessa del genere. Il valore delle sue passività, pertanto, non dipende dal valore degli asset che detiene2.

  • Il valore della base monetaria è determinato esclusivamente dal suo potere d'acquisto in termini di beni e servizi.
Mettendo insieme tutto questo vediamo che l'unico modo per la Germania nel suo insieme di subire perdite dal crollo dell'eurozona è che la Bundesbank perda il controllo dell'offerta di base monetaria che a sua volta mina il suo valore reale o potere d'acquisto.

Per evitare delle perdite nel caso di una rottura dell'Eurozona, la Bundesbank deve stabilizzare il valore della base monetaria. Questo è tutto ciò che è necessario. Il punto chiave è che questa condizione è indipendente dal valore delle attività detenute dalla banca centrale (cfr. anche Whelan 2012 su questo).

Gli aspetti pratici: rifiutare la conversione dell'euro ai non residenti

Proviamo ad applicare questi principi a uno scenario di crollo dell'eurozona. Quando l'Eurozona giungesse al termine, le banche centrali dovrebbero convertire gli euro in circolazione nella nuova valuta nazionale. La Bundesbank dovrebbe emettere nuovi DM in cambio dei vecchi euro - proprio come ha fatto quando si sono uniti i Länder orientali.

Iniziamo mostrando come sarebbero gli errori della Bundesbank che potrebbero causare grandi perdite. Poi indichiamo come questi potrebbero essere evitati limitando le conversioni ai soli residenti tedeschi - in sostanza costringendo lo speculatore spagnolo del nostro esempio precedente a convertire i suoi euro al Banco de España.

Supponiamo che la Bundesbank annunci un tasso di conversione di un euro per due marchi. Dal momento che può creare marchi quanti ne vuole, la capacità della Bundesbank di convertire non ha nulla a che fare con il lato attivo del proprio bilancio (compresi i crediti TARGET2). La distruzione di ricchezza può avvenire solo se l'aumento dei prezzi minaccia il valore della base monetaria. Questa sarebbe davvero una preoccupazione - se la Bundesbank gestisse male la conversione.

  • Molti non residenti potrebbero tentare di convertire i loro euro in marchi - creando una situazione in cui troppi marchi in circolazione sarebbero incompatibili con la stabilità dei prezzi.

Se ciò accadesse, si avrebbe inflazione e i residenti tedeschi subirebbero perdite di ricchezza legate alla scomparsa dell'eurozona.

  • La Bundesbank, tuttavia, può evitare questo rischio, limitando la conversione degli euro in marchi solo ai tedeschi residenti.

In tal modo, si può essere certi che la quantità di marchi creati come risultato della conversione sia tale da mantenere i prezzi stabili in Germania. In queste condizioni i contribuenti tedeschi non perderebbero un solo pfennig.

  • Una simile restrizione dovrebbe essere applicata anche ai depositi bancari detenuti da non residenti nel sistema bancario tedesco.

Non vi è alcun dubbio che prima del crollo dell'Eurozona ci sarebbero grandi movimenti speculativi verso le banche tedesche. Una conversione di questi depositi in euro in nuovi depositi in marchi tedeschi porterebbe ad un aumento eccessivo dello stock dei marchi tedeschi e rischierebbe di creare inflazione in Germania. Una conversione limitata, tuttavia, può garantire che ciò non accada, proteggendo così i contribuenti tedeschi dalle perdite indotte dalla conversione.

La Giustizia prevarrà: Perdenti dalla conversione limitata della Bundesbank

Questa tattica non può evitare tutte le perdite di ricchezze. Il nostro spagnolo, per esempio, scoprirà che la sua scommessa supposta a senso unico si è trasformata in una trappola. I cittadini dei paesi della periferia che hanno spostato i loro depositi in Germania, ecc. dovrebbero riprendersi indietro i loro euro per farli convertire a casa. Le banche centrali di questi paesi è probabile che applicheranno un tasso di cambio svalutato, vale a dire che daranno una quantità inferiore di monete nazionali per un euro rispetto al cambio applicato all'inizio dell'eurozona. E anche se le banche centrali dovessero utilizzare lo stesso tasso di conversione praticato all'inizio dell'eurozona, è probabile che le nuove valute nazionali di questi paesi si deprezzerebbero fortemente nei mercati dei cambi, portando a grandi perdite per coloro che le detengono.

Così, al momento della conversione, 'la giustizia prevarrà'.
  • I paesi periferici che in passato hanno emesso troppo debito pubblico, saranno puniti, vale a dire i loro cittadini subiranno la perdita di ricchezza derivante da una valuta deprezzata.

  • Il virtuoso contribuente tedesco, tuttavia, non deve partecipare a questa perdita.

A condizione che la Bundesbank controlli la conversione degli euro in marchi tedeschi e limiti questa possibilità ai residenti tedeschi, quest'ultima erediterà una nuova moneta stabile che prenderà il posto dei vecchi euro, che tra l'altro erano anch'essi molto stabili in termini di potere d'acquisto.

Limitando la conversione degli euro ai residenti tedeschi, la Bundesbank in questo modo può garantire che le perdite che si verificheranno a seguito di un'emissione eccessiva di debito nei paesi periferici saranno sopportate dai residenti di questi paesi, e non dai contribuenti tedeschi. In altre parole, questa conversione limitata equivale a spostare i crediti svalutati dal bilancio della Bundesbank indietro ai bilanci delle banche centrali dei paesi debitori.


Conclusioni

L'accumulazione di forti squilibri nel sistema dei pagamenti dell'Eurozona (TARGET2) è un indicatore drammatico della perdita di fiducia nell'integrità della zona euro. E ha portato a ritenere che la Germania sia stata costretta a fornire credito ai paesi in disavanzo, e di conseguenza sia stata spinta in una situazione in cui si è dovuta assumere dei rischi eccessivi che porteranno a grandi perdite per la popolazione tedesca, se la zona euro dovesse disintegrarsi.

Questa affermazione ha ricevuto molta attenzione nei media tedeschi e ha contribuito a creare timori per la catastrofe imminente. L'affermazione, però, non è fondata.

  • In primo luogo, l'accumulo di una posizione creditoria estera netta della Germania è infatti una fonte di rischio, ma esiste in quanto la Germania ha accumulato surplus delle partite correnti.

Dal momento che questi surplus sono il risultato di scelte politiche di quel paese, si può dire che la Germania ha scelto di correre questi rischi. I Tedeschi dovrebbero smettere di lamentarsi di questi rischi.

  • In secondo luogo, la posizione attiva estera netta della Germania e il rischio conseguente ha poco a che fare con l'aumento dei crediti lordi come gli squilibri TARGET2.

Questi sono aumentati in modo significativo senza aumentare la posizione estera netta del paese. Come risultato, questi crediti TARGET sono un cattivo indicatore dei rischi della Germania.

Terzo, la Germania potrebbe evitare perdite di ricchezza dovute a una rottura dell'eurozona limitando la conversione euro-marchi ai residenti.

Abbiamo sostenuto che l'unico rischio che corre la Germania è che se la zona euro dovesse fallire, la Bundesbank al momento della conversione degli euro nei nuovi marchi tedeschi potrebbe essere indotta ad emettere dei marchi di troppo, creando inflazione. Il rischio, tuttavia, può essere eliminato, limitando la conversione degli euro in marchi tedeschi ai soli residenti. In tal modo la Bundesbank costringerebbe i paesi periferici che hanno emesso troppo debito a pagare il prezzo di questa politica, accettando monete nazionali svalutate.

Anche se la paura di potenziali grandi perdite della Germania a causa dell'accumulazione di crediti TARGET2 è infondata, in Germania questa paura è diventata una realtà. Ha portato a ritenere che qualsiasi assistenza finanziaria comporterà perdite per la Germania, e quindi ad una forte resistenza a fornire assistenza finanziaria ai paesi periferici. Di conseguenza, questa paura influenza anche gli atteggiamenti politici e rende difficile per il governo tedesco assumere un atteggiamento più mite nei confronti dei paesi periferici. In ultima analisi, questa paura aumenta il rischio di un crollo della zona euro. O, per parafrasare Franklin Roosevelt, ciò che la Germania deve temere maggiormente è la sua stessa paura.

Riferimenti

Bindseil, U, and König, Ph, (2011), “The economics of TARGET2 balances”, SFB 649 Discussion Paper 2011-035, Humboldt University Berlin
Buiter, W, (2008), "Can Central Banks Go Broke", CEPR Policy Insight No. 24, Centre for Economic Policy Research, London, May.
Buiter, W, Rahbari, E., and Michels, J. (2011), “The implications of intra Eurozone imbalances in credit flows”, VoxEU.org, 6 September.
De Grauwe, P, and Ji, Y, (2012), "What Germany should fear most is its own fear. An Analysis of TARGET2 and Current Account Imbalances", CEPS, 12 September.
 

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