POTETE USCIRE MA NON DOVETE USCIRE, PERCHE' SE USCITE QUANDO POTETE USCIRE, POI E' COLPA VOSTRA SE NON VI PERMETTIAMO PIU' DI POTER USCIRE

Ma restiamo in Italia:

la grande narrazione del debito ha esondato persino in ambito professionale e deontologico.

Per esempio, i professionisti che non frequentano un certo numero di ore di formazione
accumulano “debiti” con il proprio ordine professionale e rischiano sanzioni di carattere deontologico.


Ma andiamo ancora più a fondo.

L’idea del debito come peccato originale e inestinguibile dell’umanità, a ben pensarci, ha addirittura un fondamento religioso.

La preghiera più famosa e più recitata di tutti i tempi, il Padre Nostro, contiene infatti la fatidica frase: “Rimetti a noi i nostri debiti”.


Chi è cresciuto in un ambiente cristiano sa che il debito è persino “originario”,
nel senso che non corrisponde a una colpa derivante da una trasgressione commessa in vita,
ma da una “violazione” precedente, addebitabile ai nostri progenitori assoluti.

Adamo ed Eva, con il loro peccato originale, hanno – per così dire – “indebitato” tutte le generazioni successive di mortali fino alla fine dei tempi.

Ma il cristianesimo non è l’unica religione in cui il debito gioca un ruolo cruciale.

Anche l’induismo, il buddhismo e molte altre forme di spiritualità di matrice orientale si ispirano a una logica similare: quella del karma.

A ogni azione una reazione.

Ogni errore lo si paga sulla propria pelle in virtù di una sorta di bilanciamento logico, aritmetico e infallibile, un equilibrio perfetto di pesi e contrappesi.


Bene, perché tutta questa premessa?

Per farvi capire quali e quanti ancoraggi negativi, di carattere emotivo e morale,
scattano nella nostra testa ogniqualvolta sentiamo pronunciare la parola “debito” e la parola “deficit”.


C’è però un modo per uscire dal vicolo cieco in cui siamo finiti ed è focalizzare questo punto:

i vocaboli succitati, quando usati in riferimento alle finanze pubbliche, sono profondamente fuorvianti.

Essi innescano una serie di reazioni psicologiche a cascata, nella piramide dei livelli logici di Dilts, proprio perché agiscono sulle nostre credenze.

Quindi, condizionano – in base a quanto spiegato sopra – le nostre capacità, le nostre competenze, i nostri comportamenti,
i rapporti umani e il nostro stesso modo di stare al mondo e di sentirci (oppure no) cittadini informati e responsabili.


“Deficit” e “debito” generano una convinzione limitante la quale, a sua volta, produce emozioni negative e sensi di colpa,
cioè il miele di cui vanno ghiottissimi i manipolatori di professione.

Essi, infatti, fanno scattare – a nostra insaputa – quell’autentica spirale perversa, quel circolo vizioso di ancore psichiche negative di cui abbiamo finora parlato.


Ora, per capire le radici di queste credenze fallaci, dobbiamo fare un passo indietro.

E cercare, finalmente, di comprendere cosa siano davvero, a livello di politica economica, il deficit e il debito.

Dobbiamo, insomma, modificare drasticamente le nostre convinzioni al riguardo.

Se ci riusciremo – in base alla prospettiva piennellistica della piramide di Dilts – condizioneremo positivamente tutta la nostra vita:
in particolare, i livelli sottostanti delle nostre capacità (di capire la politica),
dei comportamenti (al momento del voto e in ogni circostanza in cui si richieda un contributo da cittadini consapevoli)
e persino dell’ambiente.


Si definisce, tecnicamente, come “deficit” pubblico la differenza tra le entrate fiscali dello Stato e le sue uscite.

Così, se in un certo anno lo Stato avrà registrato spese per 105, supponiamo, ed entrate per 100,
il suo deficit sarà costituito dalla differenza tra le prime e le seconde.

Quindi, nell’esempio, alla voce deficit troveremo un bel -5.

La somma di tutti i deficit, accumulatisi anno dopo anno, va a costituire il famoso debito pubblico complessivo.

Potremmo dire che il deficit è un goccia annuale, mentre il debito è il “mare” venutosi a determinare dallo stillicidio di una goccia dopo l’altra.


Ergo: se il deficit è una misura che indica lo sbilancio, nei conti di fine anno, tra le entrate e le uscite di uno Stato,
il debito, invece, è lo stock cumulato, in un dato momento storico, di tutti i deficit generatisi negli anni precedenti.


In concreto, oggi l’Italia ha un debito pubblico di circa 2.450 miliardi di euro che è, appunto, la somma aritmetica di tutti i deficit degli anni addietro.

Per esempio, se quest’anno il bilancio dello Stato finisse in deficit per, putacaso, cinquanta miliardi,
il deficit dell’anno corrente si sommerebbe allo stock di debito già esistente che passerebbe, così, da 2.450 a 2.500 miliardi.


Ora facciamo un passo in avanti: sia il deficit che il debito si misurano in una percentuale commisurata a un’altra unità di valore che è il famoso PIL (prodotto interno lordo).

Il PIL è l’insieme complessivo di tutti i beni e servizi prodotti da un Paese in un anno.

Contribuiscono al PIL quattro “generatori”:

a) la spesa pubblica (destinata ai consumi finali, agli stipendi del personale e agli investimenti pubblici);

b) gli investimenti privati;

c) i consumi dei cittadini;

d) la bilancia commerciale di uno Stato (cioè il saldo fra esportazioni e importazioni).


In definitiva, il PIL italiano è la ricchezza creata dal Sistema Italia grazie al contributo dei fattori suindicati.


Oggi il PIL italiano ammonta a circa 1.800 miliardi di euro.

Ecco, allora, da dove nascono i concetti di rapporto deficit/PIL e debito/ PIL: dalla risposta a una semplice domanda:

qual è il rapporto tra il deficit di un anno e il suo PIL?

Qual è il rapporto fra il debito pubblico di un Paese e il suo PIL?

Nel caso dell’Italia, per esempio, se nell’anno in corso il bilancio dello Stato si chiudesse con un deficit di 18 miliardi,
si potrebbe dire che il deficit italiano in rapporto al PIL è stato dell’1 per cento.

Infatti, 18 miliardi stanno a 1.800 miliardi come 1 sta a 100.

Se guardiamo al rapporto debito/PIL, invece, concluderemo che il rapporto debito/PIL è stato del 136 per cento
perché 2.450 miliardi (stock complessivo del debito) sta a 1.800 miliardi (PIL) come 136 sta a cento.


Questi due rapporti, come sapete benissimo, sono cruciali per capire cosa è successo in Europa negli ultimi trent’anni.

Infatti, non passa giorno – e non è passato anno dalla firma del Trattato di Maastricht (1992) in poi –
in cui non si senta ripetere la solfa del rispetto dei celeberrimi parametri, fissati appunto dal Trattato di Maastricht:

il deficit non deve superare il 3 per cento sul PIL e il debito non deve superare il 60 per cento sul PIL.


Veniamo ora al disvelamento della convinzione errata: le parole “debito” e “deficit” hanno, in realtà,

un senso esattamente opposto a seconda che vengano impiegate in ambito privato o in ambito pubblico.


Più precisamente, a livello pubblico (diciamo pure politico) i termini debito e deficit

non dovrebbero avere lo stesso significato negativo attribuito loro a livello di vita privata, nello studio, nel lavoro, nel commercio e nelle professioni.


Anzi, a dire il vero, essi dovrebbero avere il significato contrario.


Il deficit, infatti, è una delle modalità attraverso le quali uno Stato sovrano può immettere nuova liquidità all’interno della propria economia reale.


Ripensateci:

se le entrate di uno Stato sono le tasse, le imposte e i tributi,

in cosa consistono le uscite?

Risposta controintuitiva: nel denaro necessario per far funzionare il sistema statale nel suo complesso.


Quindi, nella voce “uscite” ci sarà tutto ciò che lo Stato italiano spende per la sanità, per esempio,
per la scuola, per l’istruzione in generale, per le infrastrutture, per la tutela del territorio, per le pensioni,
per la protezione e assistenza dei lavoratori, per il funzionamento della macchina amministrativa
(quindi, stipendi dei propri dipendenti) e della macchina politica (quindi, indennità e vitalizi dei politici), eccetera.


Ergo, le spese dello Stato sono un “attivo” per i cittadini.

Ciò che uno Stato “spende” è tutto denaro messo in circolo nell’economia reale.


Se il deficit è un quid pluris (un qualcosa in più) rispetto a quanto lo Stato ha ricevuto dai cittadini sotto forma di tasse,
evidentemente lo Stato, facendo deficit, immette altra liquidità nell’economia.


Adesso, provate a sostituire la vostra solida convinzione circa il significato della parola “deficit” con l’espressione “denaro addizionale”
oppure “risorse finanziarie aggiuntive per la cittadinanza”.

Notate come tutto cambia?

Come insegnava Dilts, se modifichi le tue credenze modificherai le tue emozioni,
se cambi le tue emozioni cambierai il tuo comportamento e le tue capacità e quindi il tuo ruolo nel mondo.

Non solo: come insegna più in generale la PNL (si chiama programmazione neuro “linguistica” non a caso),
se cambi il tuo linguaggio cambi la tua percezione del mondo; e pure le tue convinzioni limitanti.

È un circolo virtuoso.


“Denaro fresco” è esattamente ciò di cui l’Italia ha bisogno e che, però, stranamente non trova mai, da nessuna parte.

Se non a prezzo di un braccio di ferro con la Commissione europea volto a ottenere, sotto forma di “flessibilità”

(cioè – guarda un po’ – di punti in più di deficit) la possibilità di sforare i famosi parametri.


E quando il nostro Paese ci riesce, anche solo per pochi decimali di punto,
immediatamente scatta il riflesso condizionato associato a ogni tipo di peccato:

il senso di colpa.

La stampa fa “sentire in colpa” il governo perché ha fatto troppo deficit,

perché il debito pubblico è aumentato,

perché le future generazioni dovranno accollarsi i nostri debiti (questa è una delle solfe preferite dai “guardiani del Sistema”).

Gli stessi politici che hanno sforato i parametri – soprattutto quelli non troppo avvezzi alle cose economiche –
si sentono “responsabili” e subito pensano a come potranno porre rimedio al proprio peccato.


Un inciso.

Anche la parola “parametri”, se ci riflettete, è strettamente connessa con il dogma del debito e con la liturgia del deficit.

Cos’altro sono i parametri se non dei “paletti”, cioè delle norme; anzi, per meglio dire, dei “comandamenti”?


Qualcuno potrebbe a buon diritto obbiettare: si, ma se è un debito, lo dobbiamo pur sempre restituire!


Un momento: arrivati a questo punto della storia, dovremmo aver cominciato a familiarizzare con il concetto del metamodello e delle domande di precisione.


Quale “violazione” contiene, da un punto di vista linguistico e piennellistico, la frase di cui sopra
(“Sì, ma se è un debito lo dobbiamo pur sempre restituire!”)?

È una generalizzazione, sotto forma di operatore modale di necessità.

E davanti a questa generalizzazione cosa dovremmo chiedere a chi la pronuncia?

Alcuni quesiti “metamodellanti” potrebbero essere, per esempio: chi ci obbliga a restituirlo?

A chi lo dobbiamo restituire?

Perché lo dobbiamo restituire?


Per il momento, in ogni caso, concentriamoci su questa nuova “convinzione”:

il deficit corrisponde sostanzialmente a “risorse addizionali” o a “liquidità aggiuntiva”, se preferite.


Non dobbiamo più sentirci in colpa quando pronunciamo questa parola
e neppure siamo obbligati a imprecare contro il “governo ladro”.


Semmai, dovremmo essere spronati a capirne di più.
 
Leggete bene la prima frase. Lo vado ripetendo da mesi.


Tutti i virus, compreso quello che causa il Covid-19, mutano costantemente in nuove versioni o varianti.

Questi piccoli cambiamenti genetici avvengono quando il virus crea nuove copie di se stesso per diffondersi.

La maggior parte sono irrilevanti e alcuni possono persino essere dannosi per la sopravvivenza del virus,
ma altri possono renderlo invece più contagioso o minaccioso.


In questo momento ci sono molte migliaia di varianti del Covid in circolazione.

Ma gli esperti sono preoccupati per la variante sudafricana, nota anche come 501.V2 o B.1.351,
che porta con sé una mutazione chiamata N501Y che sembra renderla più contagiosa o di facile diffusione.


Il primo caso in Italia di variante sudafricana è stato registrato presso l’Ospedale di Varese dell’ASST Sette Laghi lo scorso 3 febbraio.

Si tratta di un uomo rientrato da un viaggio in Africa.

Al momento non ci sono comunque prove che la variante sudafricana causi malattie più gravi per la stragrande maggioranza delle persone che vengono infettate.


Come con la versione originale, il rischio è più alto per le persone anziane o con significative condizioni di salute già compromesse.

Ma ci sono preoccupazioni che possa diffondersi più rapidamente e che i vaccini non siano abbastanza efficaci.
 
Il vaccino AstraZeneca è stato testato su circa 1.750 adulti sani in Sudafrica.

Metà in modo casuale ha ricevuto il vaccino,
mentre l’altra metà ha preso un placebo di soluzione salina,
senza ovviamente sapere quale dei due fosse.

I dati dicono che il vaccino offriva una protezione “minima” contro i casi lievi e moderati,
mentre gli esperti sperano che il vaccino sia ancora efficace nel prevenire casi gravi.


Un vaccino soddisferebbe i requisiti minimi di vaccinazione dell’Organizzazione mondiale della sanità

se fosse in grado di dimezzare il rischio di una persona di contrarre il Covid-19 da lieve a grave per almeno 6 mesi.


Questo vaccino
inizialmente ha mostrato un’efficacia del 75% contro il Covid-19 da lieve a moderata.

Fino a ottobre scorso, meno di un anno dopo l’inizio, lo studio aveva mostrato risultati promettenti.

Ma appena due mesi dopo, il Sudafrica è entrato nella seconda ondata di infezioni da Covid-19,
questa volta alimentata da una nuova variante del virus a più rapida diffusione,
anche se non ci sono prove che induca le persone ad ammalarsi di più.


La ricerca condotta da Shabir Madhi, direttore dell’Unità di ricerca sull’analisi dei vaccini e delle malattie infettive presso la Witwatersrand University,

ha dimostrato che contro questo ceppo il vaccino AstraZeneca, per quanto sicuro negli altri casi, si è dimostrato prevalentemente inefficace.


Tuttavia, va detto che lo studio non è stato in grado di indagare sull’efficacia del vaccino nel prevenire infezioni più gravi
perché i partecipanti avevano un’età media di 31 anni
e quindi non rappresentavano la fascia demografica più a rischio di sintomi gravi
del virus.

Così come non è stato progettato per rilevare nessuna riduzione del rischio di Covid-19 inferiore al 60%.

Inoltre, ha funzionato meglio negli Stati Uniti, riducendo il rischio di contrarre l’infezione del 72%.
 
Speranze dal vaccino Johnson & Johnson

I risultati di AstraZeneca arrivano meno di due settimane dopo che

Johnson & Johnson ha dichiarato che il suo vaccino a una dose,

ha ridotto il rischio di malattia da moderata a grave di circa il 57% nei partecipanti sudafricani
,

nonostante la nuova variante.


Questo sarebbe persino migliore nel proteggere dai casi gravi e critici di Covid-19 in tutti i Paesi, a prescindere dalla variante:
il vaccino Johnson & Johnson alla fine ha ridotto il rischio di una persona di sviluppare Covid-19 grave e critico dell’85%,
anche se confrontato con la nuova variante.

Il colosso Usa ha già presentato domanda alla Food and Drug Administration Usa per distribuire il vaccino in base alle disposizioni per l’uso in emergenza.



Il
vaccino Novavax invece è risultato, sempre in Sudafrica,
ridurre del 60% il rischio per le persone sieropositive di ammalarsi di Covid-19 da lieve a grave
.

E si è scoperto che era più efficace nel Regno Unito in assenza della variante sudafricana.


Sebbene gli attuali vaccini non siano stati specificamente progettati per affrontare nuove varianti, è probabile che questo cambi.
 
La decisione di Moderna

La società farmaceutica statunitense Moderna, ad esempio,
aveva inizialmente detto al governo che non era interessata a registrare il suo vaccino per l’uso in Sudafrica,

eppure ora sta già studiando un richiamo per migliorare l’efficacia del suo vaccino contro la variante dominante in Sudafrica.


Secondo un attivista di nome Rehad Desai, che dice di aver visionato le mail inviate tra il governo e Moderna,
l’azienda avrebbe offerto al Sudafrica 20 milioni di dosi entro maggio.


“Quello che stiamo vedendo da altri sviluppatori di vaccini

è che hanno una riduzione dell’efficacia contro alcuni dei virus varianti

e quello che sembra

è che potremmo non ridurre il numero totale di casi,

ma c’è ancora protezione in quel caso contro i decessi, i ricoveri e le malattie gravi “,


ha spiegato la principale sviluppatrice di vaccini di Oxford Sarah Gilbert.
 
Abitando da tempo nella civile Perugia,
dopo un anno di impressionanti chiusure che sono servite solo a distruggere la socialità,
l’istruzione e l’economia, mi ritrovo ancora una volta agli arresti domiciliari.

Una misura insensata, presa di concerto con i talebani del ministero della Salute,
dalla presidente leghista della Regione Umbria, Donatella Tesei.

Il provvedimento è stato giustificato da questa ennesima campionessa dello “state tutti a casa
non con una improvvisa emergenza ospedaliera, bensì con la scoperta
di alcuni modestissimi focolai di presunte varianti inglesi e brasiliane del Sars-Cov-2.

Varianti che allo stato sembrano non determinare una malattia più grave, mentre si suppone,
senza ancora un riscontro scientifico, che siano solo più contagiose.

Ebbene, su questo presupposto, che per ora riguarda una ventina di soggetti in tutta l’Umbria,
la Tesei ha deciso due settimane di zona rossa per l’intera provincia di Perugia e altri Comuni sparsi della provincia di Terni.

A tale proposito, alcuni miei amici medici, che ovviamente non si sono fatti abbindolare dalla comunicazione terroristica,
che continua a bombardare il Paese, mi fanno notare che chiudendo ancora una volta le persone in casa si ottiene esattamente l’effetto contrario.

In sostanza, le stesse persone, non potendo incontrarsi all’aperto, non fanno altro che vivere in clandestinità e al chiuso
la loro residua vita sociale, creando una autostrada alla diffusione del virus.


D’altro canto, così come accadeva in America nell’epoca del proibizionismo,
la natura umana trova sempre una via per scavalcare le norme insensate
di chi ritiene di regolare, attraverso una norma, gli aspetti più privati degli individui.

Nella fattispecie, in un Paese normale – e noi da tempo abbiamo cessato di esserlo –
chi amministra una Regione, di fronte ai rischi molto teorici di un qualcosa che ancora non si conosce bene,
avrebbe il dovere di informare i cittadini, esortandoli ad aumentare le attenzioni e le precauzioni.

Invece la nostra eroina di centrodestra, che pare non aver proprio seguito la marcata linea aperturista del suo leader,
preferisce – come si suol dire – gettare il bambino con l’acqua sporca, condannandoci a languire nelle nostre case.

Io proprio non ci sto.


.
 
Era piccolo di statura Federico Caffè e la sua grandezza la esprimeva attraverso uno sguardo severo, che sprigionava rigore e intransigenza.

Anche quando entrava in ambienti militari, come la Scuola Ufficiali dei carabinieri, per tenere una conferenza nell’Aula magna,
aveva quell’autorevolezza che si imponeva sino ai gradi più alti.

Intere generazioni di ufficiali dell’Arma che hanno studiato sulle sue “Lezioni di politica economica
sapevano che quel testo era stato adottato non solo per i contenuti specifici della materia,
ma anche per trasmettere i principi etici che avevano indirizzato l’autore per tutta la sua vita.

Caffè non perdeva occasione, infatti, di suggerire ai suoi discenti di non inseguire tendenze o mode passeggere,
di avere il coraggio delle proprie idee, e soprattutto di

rimanere sempre vigili senza cedere mai agli idoli del momento, alle frasi fatte, a quelle convenzionali”.


Il senso dello Stato al di sopra di tutto e con uno stile di vita quasi francescano,
Caffè aveva dedicato tutta la sua vita alla ricerca e all’insegnamento, con breve parentesi in Banca d’Italia
che lasciò per non generare sospetti sulla sua autonomia di pensiero.

Membro della Commissione economica per la Costituente, il suo contributo fece nascere la nostra Costituzione
con afflati del pensiero di cui fu uno degli interpreti più convinti in Italia.

L’incapacità di garantire un’occupazione piena e la distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza
riteneva fossero i difetti più evidenti della società economica contemporanea,
senza la rimozione dei quali pensava non fosse possibile l’uguaglianza sostanziale promossa dall’articolo 3 della Carta.


Il richiamo egualitario contenuto nell’articolo 3 abbinato al valore fondativo del lavoro, espresso dall’articolo 1,
riteneva potesse offrire gli spazi necessari per attivare l’intervento dello Stato al fine di provvedere sistematicamente a realizzare un solido stato sociale,
centrato su istruzione, sanità, casa, previdenza, trasporti.

Critico con l’economia moderna dimostratasi incapace di sviluppare modelli politici e sociali finalizzati a garantire la piena occupazione,
pensava che l’azione pubblica nella vita economica di un Paese dovesse ricercare i principi guida per raggiungere quella che Caffè definiva “economia del benessere”,
per garantire standard minimi delle condizioni di vita della popolazione.

E un alto livello di welfare.

Concetti ripresi in anni più recenti dalla World Bank e dal Fondo monetario internazionale,
che in diverse occasioni sono giunti a sostenere che una maggiore equità può portare ad un più completo ed efficiente uso delle risorse di una nazione.

E che la diseguaglianza dei redditi rallenta lo sviluppo, causa crisi finanziarie e indebolisce la domanda.

Non era di sinistra Caffè, sebbene fosse “tirato per la giacchetta” da più forze politiche
ma era consapevole della complessità del capitalismo moderno, dominato dalle imprese
e dagli intermediari finanziari transnazionali al punto da reclamare, a tutela dei piccoli risparmiatori inesperti

“(…) un’opera informativa che illustri e documenti il carattere ingannevole o fraudolento delle promesse di ingenti guadagni e di rapida moltiplicazione dei loro averi”.


Aveva anche una particolare concezione della moneta e sosteneva il principio che il denaro si possa creare dal nulla,

cioè che uno Stato con un opportuno controllo sui pericoli di espansione eccessiva potesse emettere moneta a credito e non a debito.


Il 15 aprile del 1987 uscì di casa e da quel momento non se ne seppe più nulla.

Dieci anni dopo ne fu dichiarata la morte presunta.


Caffè è stato professore di Mario Draghi che spesso menziona l’illustre maestro.

Nel suo discorso da presidente della Banca centrale europea (Bce)
alla celebrazione del centenario della sua nascita nell’Aula magna della Scuola di Economia e studi aziendali “Federico Caffè” il 12 novembre 2014,
il presidente del Consiglio designato ricordò come

“Caffè avesse una profonda conoscenza della realtà:
istituzionale, sociale, comportamentale e la capacità di indignarsi per ciò che in questa realtà violava principi etici fondamentali
e quando vedeva la stupidità prona al servizio dell’avidità. Sapeva cosa fare per porre rimedio alle disuguaglianze ma anche alle inefficienze:
questa era la politica economica di Federico Caffè, questa è oggi la Politica Economica nella sua definizione più alta”.



Che sia giunto il momento delle riforme che tanto desiderava Caffè?

Si vedrà dai lineamenti programmatici del nuovo Governo,
ma si spera che la scuola da cui ha mosso i primi passi il nuovo presidente del Consiglio non possa tradire le aspettative.
 
La pandemia ha portato tali e tante tragedie che, oltre ai mali specifici,
hanno messo in luce viepiù quel fallimento istituzionale delle Regioni,
che negli anni hanno cercato di camuffare con spese inutili e clientelari intrise di megalomania.

Poiché è noto che le Regioni impiegano nella sanità il 70-80 per cento dell’ammontare dei loro bilanci,
l’inadeguatezza emersa di fronte al Covid-19 non è giustificabile con l’inusitato evento,
ma ha invece la causa diretta nell’inefficienza dovuta all’aver affidato la salute pubblica alla politica,
anziché ai medici e ai tecnici della salute.

Abbiamo dovuto assistere ad una deprecabile e pericolosa confusione di competenze e provvedimenti tra Stato e Regioni,
la quale non solo contraddice e viola l’attribuzione esclusiva dello Stato in materia di pandemie che, per definizione,
interessando l’intera nazione, esigono d’esser fronteggiate a livello nazionale con un’azione omogenea e coordinata nelle linee portanti generali,
ma ha introdotto vergognose discriminazioni legali e materiali tra cittadini colpevoli d’esser nati o residenti o semplicemente iscritti in differenti registri regionali.

Discriminazioni tanto più moralmente esecrabili e giuridicamente inammissibili, in quanto attinenti al diritto alla salute,
che “la Repubblica tutela come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” (articolo 32 della Costituzione),
quindi non esercitabile in modo frammentato secondo le Regioni.


Un governo incapace e cinico ha consentito per mesi, senza equipararne risolutivamente le condizioni,

che due malati con la stessa prognosi da Covid-19 andassero incontro a esiti diversi

a seconda che fossero ricoverati in una regione anziché in un’altra.



Questa smaccata distruzione del cardine della Costituzione, l’articolo 3 che sancisce l’uguaglianza dei cittadini,
con conseguenze mortali per centinaia di malati al giorno, non è stata sanata neppure nel momento cruciale dell’attesa vaccinazione di massa.

I vaccini: dove arrivati, dove no; dove somministrati, dove no; dove prenotabili, dove no; dove effettuati con la dovuta velocità,
dove con lentezze incomprensibili; dove con disfunzioni, dove con efficienza.


Questo marasma burocratico ha due caratteristiche:

non se ne conosce il responsabile;

non se ne conosce il controllore.


Quindi il cittadino pretermesso, non convocato, spostato, all’oscuro, non sa con chi prendersela.

I telefoni indicati restano muti in generale.

Le categorie degli anziani, primi da vaccinare, faticano a iscriversi nelle liste regionali (perché regionali? Boh!).

Le prenotazioni possono farsi solo in poche regioni, non in tutte: ennesima ripugnante discriminazione.


Il ministro della Salute, distaccato e assente, tace.


I commissari straordinari neppure si scusano ma accampano risultati inferiori ai loro doveri.


Nessuno pagherà purtroppo per tali disservizi e ritardi e inadempienze che generano colposamente
(intendo in senso penalistico non meno che politico e morale) centinaia di morti.

La popolazione assiste attonita al fallimento delle istituzioni centrali e regionali, che agiscono “per intervalla insaniae”,
consapevoli solo a parole dell’esiziale urgenza di provvedere.
 
La TV ci bombarda, un giorno si e l’altro pure, circa le enormi cifre che il Recovery Fund, avrebbe stanziato a favore dell’Italia.

Conte era giunto a parlare di oltre 300 miliardi mettendoci dentro anche i soldi del bilancio ordinario,
una forzatura clamorosa perché si tratta di cifre che ci spetterebbero comunque e che sono già destinate.


Il vero RRF è composto da due parti:


86 miliardi di “Grants”, cioè soldi forniti agli stati e ripagati o da contributi degli stati stessi o dai mezzi propri (leggasi tasse)

pagate direttamente alla UE (plastic tax, diritti doganali, alcune tasse sullo scambio dei certificati verdi etc),


e prestiti.


La parte dei prestiti non viene utilizzata da Francia e Spagna e, sinceramente,

se prosegue l’attuale andamento dei tassi sui BTP, non conviene anche a noi, ma su questo scriveremo a parte.


Vediamo la parte di “Grants”, normalmente definita “A fondo perduto”.


Chi ne riceverà di più rispetto al proprio prodotto interno lordo?



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La classifica che vedete vede in testa Croazia, Bulgaria, Portogallo, Slovacchia Romania e Lettonia e Lituania.

Di questi stati almeno cinque possono essere considerati satelliti economici dell’industria tedesca.

Anche la Polonia ne prende, percentualmente al PIL, più di noi, e parliamo di quello che si avvia ad essere la sede industriale della Germania fuori casa.


Alla fine l’Italia ha una posizione di centro classifica, ben dietro la Spagna, ad esempio.

Se il peso sul PIL dei contributi è “Mediano” rispetto agli altri, avremo anche che l’effetto sarà “Mediano”,
non aspettiamoci di superare le performance della Croazia che, presumibilmente,
ci si rifarà tutto il sistema turistico, concorrente diretto del nostro.


Le conclusioni che possiamo trarne sono le seguenti:


  • attenti ad aspettarsi miracoli eccessivi, altri potranno fare miracoli maggiori;

  • attenti al peso delle tasse per finanziare queste misure di crescita;

  • alla fine il RRF è soprattutto utile alla Germania, perchè vi finanzia la riconversione energetica dei propri satelliti industriali ed economici
  • come la Polonia, la Croazia, la Bulgaria, la Romania e le Repubbliche baltiche. Berlino non fa mai nulla per nulla, neanche questa volta.

Cerchiamo quindi di usare bene quel poco che ci danno.
 
Quando si parla di individuare le cause della crisi economica si fa sempre una grande confusione,
perché molti economisti mainstream hanno la tendenza a paragonare l’Italia a paesi come il Venezuela, l’Argentina o addirittura lo Zimbawe.


Non me ne vogliano questi paesi, ma l’Italia è uno dei paesi più ricchi al mondo in termini di risorse umane,
materiali, artistiche, culturali e ambientali, e soprattutto una grande capacità produttiva.


Lo dimostra da anni il fatto che, nonostante il perdurare della crisi economica,
siamo ancora in grado di esportare in tutto il mondo ed abbiamo la bilancia commerciale in attivo,
cioè le nostre esportazioni superano sempre le importazioni.


Quindi, cari esperti economici mainstream, se proprio volete paragonarci ad altri paesi,
fatelo con chi ha le nostre caratteristiche, con paesi che come noi hanno la bilancia commerciale in attivo.


Bilancia-commerciale-300x247.jpg



Qui a fianco trovate la classifica dei migliori al mondo nel 2019,

e l’Italia è 5° dopo la Cina, la Germania, il Giappone e la Corea del Sud.


Ma se facciamo il rapporto tra il Surplus commerciale e la popolazione di questi paesi,

siamo addirittura 3° dopo la Germania e la Corea del Sud.



Alla faccia di chi crede che abbiamo bisogno di “riforme strutturali” per essere competitivi nel mondo.
L'Italia è seconda in Europa per saldo commerciale positivo con l'estero - E-Team International



Quindi vediamo ora quali sono le cause della crisi economica che abbiamo in Italia da tanti anni,
nonostante siamo ancora in grado di competere in tutto il mondo con il nostro Made in Italy.


Le cause della crisi economica


Abbiamo visto che l’economia reale senza moneta o con scarsità monetaria va in recessione,
perché anche se produci molto e sei competitivo, ma sei costretto a licenziare,
il risultato è che non circola sufficiente denaro nell’economia reale per acquistare beni e servizi.


In sostanza si riduce la domanda interna, cioè l’insieme costituito dai consumi e investimenti privati e pubblici,
che unito alle disastrose politiche di austerity, finisce per innescare un circolo vizioso che aggrava la crisi economica e peggiora la qualità della vita di tutti noi.



La maggior parte della moneta che usiamo proviene dal sistema bancario,

che in Italia è privato e in larga parte in mano a stranieri,

per cui non hanno interesse a prestare alla piccola e media impresa italiana,

perché preferiscono impiegare i soldi che creano nelle bolle immobiliari e nelle speculazioni finanziarie.



Quindi un problema è che più del 99,7% del denaro che usiamo proviene dal sistema bancario
e ci viene prestato con gli interessi, quindi genera un debito pubblico e privato
matematicamente inestinguibile che cresce in modo esponenziale con gli interessi.


Ma il problema è ingigantito dal fatto che solo il 10% di tutto il denaro creato dalle banche,

finisce alle imprese dell’economia reale,

mentre la restante maggior parte viene utilizzata per acquistare immobili

e fare speculazioni sui mercati, soprattutto con l’acquisto di titoli e prodotti finanziari.



In questo modo i mercati finanziari stanno vivendo da anni una crescita fantastica
che arricchisce meno dell’1% della popolazione mondiale, mentre l’economia reale è sempre più in difficoltà.


L’economia serve a soddisfare i bisogni


Le rivoluzioni industriali, tecnologiche ed informatiche, hanno aumentato notevolmente la nostra capacità di produrre beni e servizi,
ma soprattutto anche migliorato anche la nostra reale possibilità di distribuirli in tutto il mondo in poco tempo e con limitate risorse.


Se torniamo alla definizione originaria dell’economia, che dovrebbe essere

l’organizzazione dell’utilizzo di risorse scarse (limitate o finite), quando attuata al fine di soddisfare al meglio bisogni individuali o collettivi”,

allora non possiamo non rilevare che oggi le nostre capacità in questo senso sono notevolmente cresciute e le macchine potrebbero lavorare al posto nostro.


In sostanza potremmo potenzialmente lavorare tutti la metà del tempo,
ma in realtà siamo costretti a lavorare in pochi e molto,
perché viviamo contemporaneamente in un regime di scarsità monetaria nell’economia reale,
indotta da chi oggi ha il potere di creare praticamente tutto il denaro che usiamo,
cioè il sistema bancario con i prestiti e gli interessi.


Lavorare meno per lavorare tutti


Nel 1930 John Maynard Keynes, probabilmente il più influente economista del secolo scorso,
scriveva che nell’arco di cento anni la ricchezza disponibile sarebbe quadruplicata
e allo stesso tempo la settimana lavorativa si sarebbe progressivamente ridotta fino ad arrivare a 15 ore,
consentendo così alle persone di avere tempo per le passioni, il tempo libero e la salute.


Al 2030 manca ormai poco e se è vero che le previsioni keynesiane si sono ampiamente avverate per quanto riguarda la ricchezza complessiva degli stati occidentali,
già oggi di cinque volte superiore rispetto al 1930, lo stesso non si può certo dire riguardo all’orario di lavoro.


Ma abbiamo ancora 10 anni a disposizione per far in modo che la previsione di Keynes si avveri,
dobbiamo però superare lo scoglio che Keynes non poteva prevedere a quel tempo e che invece si è manifestato negli ultimi anni,
il trasferimento di fatto del potere di creare il denaro
dallo Stato al sistema bancario privato
che oggi costituisce un oligopolio assoluto in questo campo.



In realtà lo Stato non ha mai perso il potere di creare denaro, ma ha praticamente smesso di farlo,
demandando al sistema bancario ciò che potrebbe tranquillamente fare da sé,
anche con l’utilizzo degli strumenti innovativi e tecnologici che oggi ha a disposizione.


La creazione del denaro oggi è ancora legata allo Stato


Se analizziamo tutto il processo che oggi permette la creazione del denaro,
ci accorgiamo che in realtà tutto ha origine sempre e solo dallo Stato.


Vediamo come viene creato oggi tutto il denaro che usiamo:

  • le monete metalliche sono coniate dagli Stato direttamente e sono una moneta a corso legale come anche le banconote;

  • le banconote sono emesse dalla BCE per concessione degli Stati, che però hanno diritto a riscuoterne il signoraggio,
  • ma sono poi prestate al sistema bancario che le utilizza per creare la moneta elettronica bancaria;

  • la BCE crea riserve per prestare denaro elettronico alle banche con i TLTRO, cioè Targeted Longer-Term Refinancing Operations,
  • ma chiedono in garanzia titoli di stato acquistati sui mercati finanziari;

  • la BCE crea anche altre riserve con il QE, cioè il Quantitative Easing,
  • per far acquistare con denaro elettronico alle Banche Centrali Nazionali, titoli di stato sui mercati finanziari.

In definitiva tutto il denaro creato dal sistema bancario costituito da Banche Centrali e Banche Commerciali,
deriva direttamente o indirettamente dallo Stato, perché da lui autorizzato, come nel caso della moneta a corso legale,
o da lui garantito, come nel caso della moneta elettronica garantita dall’emissione di titoli di stato con il TLTRO o il QE.


Thomas Edison sulla moneta e sui titoli di stato


Come affermava Thomas Edison sul New York Times del 6 dicembre 1921:


È assurdo dire che il nostro paese può emettere $30 milioni in titoli e non $30 milioni in valuta.
Entrambe sono promesse di pagamento, ma una ingrassa gli usurai e l’altra aiuta la popolazione.
Se la valuta emessa dal Governo non fosse valida allora non sarebbero validi neanche i titoli di debito.
Quando il Governo, per incrementare il benessere dalla nazione, si deve indebitare
e sopportare il rovinoso pagamento di interessi a vantaggio di uomini che controllano il valore fittizio dell’oro,
si viene a creare una situazione terribile”




Oggi la situazione rispetto al 1921 è completamente cambiata,
il valore della moneta non è più legato all’oro, ma noi seguitiamo a ragionare come se lo fosse,
e lo Stato seguita a farsi prestare il denaro dai mercati finanziari
anziché crearselo da sé come è nel suo potere e nel suo diritto sacrosanto.


In conclusione, se vogliamo affrontare le cause dell’attuale crisi,
dobbiamo cambiare paradigma ed usare nuove soluzioni che la tecnologia oggi ci permette,
in modo da immettere una quantità di denaro maggiore all’interno dell’economia reale
e tendere all’obiettivo della piena occupazione e del progresso sociale,
come prevedono sia la nostra Costituzione all’art. 1 e 3, ma anche i Trattati Europei all’art. 3 del TUE.


Solo se comprendiamo le cause, riusciremo nei prossimi passi a trovare soluzioni concrete e realizzabili per uscire dalla crisi,
individuando strumenti che non siano necessariamente così legati al “debito”.


Perchè LORO non molleranno facilmente, ma NOI NON MOLLEREMO MAI.


La moneta sarà di proprietà dei cittadini e libera dal debito.
 

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