Val
Torniamo alla LIRA
Ma restiamo in Italia:
la grande narrazione del debito ha esondato persino in ambito professionale e deontologico.
Per esempio, i professionisti che non frequentano un certo numero di ore di formazione
accumulano “debiti” con il proprio ordine professionale e rischiano sanzioni di carattere deontologico.
Ma andiamo ancora più a fondo.
L’idea del debito come peccato originale e inestinguibile dell’umanità, a ben pensarci, ha addirittura un fondamento religioso.
La preghiera più famosa e più recitata di tutti i tempi, il Padre Nostro, contiene infatti la fatidica frase: “Rimetti a noi i nostri debiti”.
Chi è cresciuto in un ambiente cristiano sa che il debito è persino “originario”,
nel senso che non corrisponde a una colpa derivante da una trasgressione commessa in vita,
ma da una “violazione” precedente, addebitabile ai nostri progenitori assoluti.
Adamo ed Eva, con il loro peccato originale, hanno – per così dire – “indebitato” tutte le generazioni successive di mortali fino alla fine dei tempi.
Ma il cristianesimo non è l’unica religione in cui il debito gioca un ruolo cruciale.
Anche l’induismo, il buddhismo e molte altre forme di spiritualità di matrice orientale si ispirano a una logica similare: quella del karma.
A ogni azione una reazione.
Ogni errore lo si paga sulla propria pelle in virtù di una sorta di bilanciamento logico, aritmetico e infallibile, un equilibrio perfetto di pesi e contrappesi.
Bene, perché tutta questa premessa?
Per farvi capire quali e quanti ancoraggi negativi, di carattere emotivo e morale,
scattano nella nostra testa ogniqualvolta sentiamo pronunciare la parola “debito” e la parola “deficit”.
C’è però un modo per uscire dal vicolo cieco in cui siamo finiti ed è focalizzare questo punto:
i vocaboli succitati, quando usati in riferimento alle finanze pubbliche, sono profondamente fuorvianti.
Essi innescano una serie di reazioni psicologiche a cascata, nella piramide dei livelli logici di Dilts, proprio perché agiscono sulle nostre credenze.
Quindi, condizionano – in base a quanto spiegato sopra – le nostre capacità, le nostre competenze, i nostri comportamenti,
i rapporti umani e il nostro stesso modo di stare al mondo e di sentirci (oppure no) cittadini informati e responsabili.
“Deficit” e “debito” generano una convinzione limitante la quale, a sua volta, produce emozioni negative e sensi di colpa,
cioè il miele di cui vanno ghiottissimi i manipolatori di professione.
Essi, infatti, fanno scattare – a nostra insaputa – quell’autentica spirale perversa, quel circolo vizioso di ancore psichiche negative di cui abbiamo finora parlato.
Ora, per capire le radici di queste credenze fallaci, dobbiamo fare un passo indietro.
E cercare, finalmente, di comprendere cosa siano davvero, a livello di politica economica, il deficit e il debito.
Dobbiamo, insomma, modificare drasticamente le nostre convinzioni al riguardo.
Se ci riusciremo – in base alla prospettiva piennellistica della piramide di Dilts – condizioneremo positivamente tutta la nostra vita:
in particolare, i livelli sottostanti delle nostre capacità (di capire la politica),
dei comportamenti (al momento del voto e in ogni circostanza in cui si richieda un contributo da cittadini consapevoli)
e persino dell’ambiente.
Si definisce, tecnicamente, come “deficit” pubblico la differenza tra le entrate fiscali dello Stato e le sue uscite.
Così, se in un certo anno lo Stato avrà registrato spese per 105, supponiamo, ed entrate per 100,
il suo deficit sarà costituito dalla differenza tra le prime e le seconde.
Quindi, nell’esempio, alla voce deficit troveremo un bel -5.
La somma di tutti i deficit, accumulatisi anno dopo anno, va a costituire il famoso debito pubblico complessivo.
Potremmo dire che il deficit è un goccia annuale, mentre il debito è il “mare” venutosi a determinare dallo stillicidio di una goccia dopo l’altra.
Ergo: se il deficit è una misura che indica lo sbilancio, nei conti di fine anno, tra le entrate e le uscite di uno Stato,
il debito, invece, è lo stock cumulato, in un dato momento storico, di tutti i deficit generatisi negli anni precedenti.
In concreto, oggi l’Italia ha un debito pubblico di circa 2.450 miliardi di euro che è, appunto, la somma aritmetica di tutti i deficit degli anni addietro.
Per esempio, se quest’anno il bilancio dello Stato finisse in deficit per, putacaso, cinquanta miliardi,
il deficit dell’anno corrente si sommerebbe allo stock di debito già esistente che passerebbe, così, da 2.450 a 2.500 miliardi.
Ora facciamo un passo in avanti: sia il deficit che il debito si misurano in una percentuale commisurata a un’altra unità di valore che è il famoso PIL (prodotto interno lordo).
Il PIL è l’insieme complessivo di tutti i beni e servizi prodotti da un Paese in un anno.
Contribuiscono al PIL quattro “generatori”:
a) la spesa pubblica (destinata ai consumi finali, agli stipendi del personale e agli investimenti pubblici);
b) gli investimenti privati;
c) i consumi dei cittadini;
d) la bilancia commerciale di uno Stato (cioè il saldo fra esportazioni e importazioni).
In definitiva, il PIL italiano è la ricchezza creata dal Sistema Italia grazie al contributo dei fattori suindicati.
Oggi il PIL italiano ammonta a circa 1.800 miliardi di euro.
Ecco, allora, da dove nascono i concetti di rapporto deficit/PIL e debito/ PIL: dalla risposta a una semplice domanda:
qual è il rapporto tra il deficit di un anno e il suo PIL?
Qual è il rapporto fra il debito pubblico di un Paese e il suo PIL?
Nel caso dell’Italia, per esempio, se nell’anno in corso il bilancio dello Stato si chiudesse con un deficit di 18 miliardi,
si potrebbe dire che il deficit italiano in rapporto al PIL è stato dell’1 per cento.
Infatti, 18 miliardi stanno a 1.800 miliardi come 1 sta a 100.
Se guardiamo al rapporto debito/PIL, invece, concluderemo che il rapporto debito/PIL è stato del 136 per cento
perché 2.450 miliardi (stock complessivo del debito) sta a 1.800 miliardi (PIL) come 136 sta a cento.
Questi due rapporti, come sapete benissimo, sono cruciali per capire cosa è successo in Europa negli ultimi trent’anni.
Infatti, non passa giorno – e non è passato anno dalla firma del Trattato di Maastricht (1992) in poi –
in cui non si senta ripetere la solfa del rispetto dei celeberrimi parametri, fissati appunto dal Trattato di Maastricht:
il deficit non deve superare il 3 per cento sul PIL e il debito non deve superare il 60 per cento sul PIL.
Veniamo ora al disvelamento della convinzione errata: le parole “debito” e “deficit” hanno, in realtà,
un senso esattamente opposto a seconda che vengano impiegate in ambito privato o in ambito pubblico.
Più precisamente, a livello pubblico (diciamo pure politico) i termini debito e deficit
non dovrebbero avere lo stesso significato negativo attribuito loro a livello di vita privata, nello studio, nel lavoro, nel commercio e nelle professioni.
Anzi, a dire il vero, essi dovrebbero avere il significato contrario.
Il deficit, infatti, è una delle modalità attraverso le quali uno Stato sovrano può immettere nuova liquidità all’interno della propria economia reale.
Ripensateci:
se le entrate di uno Stato sono le tasse, le imposte e i tributi,
in cosa consistono le uscite?
Risposta controintuitiva: nel denaro necessario per far funzionare il sistema statale nel suo complesso.
Quindi, nella voce “uscite” ci sarà tutto ciò che lo Stato italiano spende per la sanità, per esempio,
per la scuola, per l’istruzione in generale, per le infrastrutture, per la tutela del territorio, per le pensioni,
per la protezione e assistenza dei lavoratori, per il funzionamento della macchina amministrativa
(quindi, stipendi dei propri dipendenti) e della macchina politica (quindi, indennità e vitalizi dei politici), eccetera.
Ergo, le spese dello Stato sono un “attivo” per i cittadini.
Ciò che uno Stato “spende” è tutto denaro messo in circolo nell’economia reale.
Se il deficit è un quid pluris (un qualcosa in più) rispetto a quanto lo Stato ha ricevuto dai cittadini sotto forma di tasse,
evidentemente lo Stato, facendo deficit, immette altra liquidità nell’economia.
Adesso, provate a sostituire la vostra solida convinzione circa il significato della parola “deficit” con l’espressione “denaro addizionale”
oppure “risorse finanziarie aggiuntive per la cittadinanza”.
Notate come tutto cambia?
Come insegnava Dilts, se modifichi le tue credenze modificherai le tue emozioni,
se cambi le tue emozioni cambierai il tuo comportamento e le tue capacità e quindi il tuo ruolo nel mondo.
Non solo: come insegna più in generale la PNL (si chiama programmazione neuro “linguistica” non a caso),
se cambi il tuo linguaggio cambi la tua percezione del mondo; e pure le tue convinzioni limitanti.
È un circolo virtuoso.
“Denaro fresco” è esattamente ciò di cui l’Italia ha bisogno e che, però, stranamente non trova mai, da nessuna parte.
Se non a prezzo di un braccio di ferro con la Commissione europea volto a ottenere, sotto forma di “flessibilità”
(cioè – guarda un po’ – di punti in più di deficit) la possibilità di sforare i famosi parametri.
E quando il nostro Paese ci riesce, anche solo per pochi decimali di punto,
immediatamente scatta il riflesso condizionato associato a ogni tipo di peccato:
il senso di colpa.
La stampa fa “sentire in colpa” il governo perché ha fatto troppo deficit,
perché il debito pubblico è aumentato,
perché le future generazioni dovranno accollarsi i nostri debiti (questa è una delle solfe preferite dai “guardiani del Sistema”).
Gli stessi politici che hanno sforato i parametri – soprattutto quelli non troppo avvezzi alle cose economiche –
si sentono “responsabili” e subito pensano a come potranno porre rimedio al proprio peccato.
Un inciso.
Anche la parola “parametri”, se ci riflettete, è strettamente connessa con il dogma del debito e con la liturgia del deficit.
Cos’altro sono i parametri se non dei “paletti”, cioè delle norme; anzi, per meglio dire, dei “comandamenti”?
Qualcuno potrebbe a buon diritto obbiettare: si, ma se è un debito, lo dobbiamo pur sempre restituire!
Un momento: arrivati a questo punto della storia, dovremmo aver cominciato a familiarizzare con il concetto del metamodello e delle domande di precisione.
Quale “violazione” contiene, da un punto di vista linguistico e piennellistico, la frase di cui sopra
(“Sì, ma se è un debito lo dobbiamo pur sempre restituire!”)?
È una generalizzazione, sotto forma di operatore modale di necessità.
E davanti a questa generalizzazione cosa dovremmo chiedere a chi la pronuncia?
Alcuni quesiti “metamodellanti” potrebbero essere, per esempio: chi ci obbliga a restituirlo?
A chi lo dobbiamo restituire?
Perché lo dobbiamo restituire?
Per il momento, in ogni caso, concentriamoci su questa nuova “convinzione”:
il deficit corrisponde sostanzialmente a “risorse addizionali” o a “liquidità aggiuntiva”, se preferite.
Non dobbiamo più sentirci in colpa quando pronunciamo questa parola
e neppure siamo obbligati a imprecare contro il “governo ladro”.
Semmai, dovremmo essere spronati a capirne di più.
la grande narrazione del debito ha esondato persino in ambito professionale e deontologico.
Per esempio, i professionisti che non frequentano un certo numero di ore di formazione
accumulano “debiti” con il proprio ordine professionale e rischiano sanzioni di carattere deontologico.
Ma andiamo ancora più a fondo.
L’idea del debito come peccato originale e inestinguibile dell’umanità, a ben pensarci, ha addirittura un fondamento religioso.
La preghiera più famosa e più recitata di tutti i tempi, il Padre Nostro, contiene infatti la fatidica frase: “Rimetti a noi i nostri debiti”.
Chi è cresciuto in un ambiente cristiano sa che il debito è persino “originario”,
nel senso che non corrisponde a una colpa derivante da una trasgressione commessa in vita,
ma da una “violazione” precedente, addebitabile ai nostri progenitori assoluti.
Adamo ed Eva, con il loro peccato originale, hanno – per così dire – “indebitato” tutte le generazioni successive di mortali fino alla fine dei tempi.
Ma il cristianesimo non è l’unica religione in cui il debito gioca un ruolo cruciale.
Anche l’induismo, il buddhismo e molte altre forme di spiritualità di matrice orientale si ispirano a una logica similare: quella del karma.
A ogni azione una reazione.
Ogni errore lo si paga sulla propria pelle in virtù di una sorta di bilanciamento logico, aritmetico e infallibile, un equilibrio perfetto di pesi e contrappesi.
Bene, perché tutta questa premessa?
Per farvi capire quali e quanti ancoraggi negativi, di carattere emotivo e morale,
scattano nella nostra testa ogniqualvolta sentiamo pronunciare la parola “debito” e la parola “deficit”.
C’è però un modo per uscire dal vicolo cieco in cui siamo finiti ed è focalizzare questo punto:
i vocaboli succitati, quando usati in riferimento alle finanze pubbliche, sono profondamente fuorvianti.
Essi innescano una serie di reazioni psicologiche a cascata, nella piramide dei livelli logici di Dilts, proprio perché agiscono sulle nostre credenze.
Quindi, condizionano – in base a quanto spiegato sopra – le nostre capacità, le nostre competenze, i nostri comportamenti,
i rapporti umani e il nostro stesso modo di stare al mondo e di sentirci (oppure no) cittadini informati e responsabili.
“Deficit” e “debito” generano una convinzione limitante la quale, a sua volta, produce emozioni negative e sensi di colpa,
cioè il miele di cui vanno ghiottissimi i manipolatori di professione.
Essi, infatti, fanno scattare – a nostra insaputa – quell’autentica spirale perversa, quel circolo vizioso di ancore psichiche negative di cui abbiamo finora parlato.
Ora, per capire le radici di queste credenze fallaci, dobbiamo fare un passo indietro.
E cercare, finalmente, di comprendere cosa siano davvero, a livello di politica economica, il deficit e il debito.
Dobbiamo, insomma, modificare drasticamente le nostre convinzioni al riguardo.
Se ci riusciremo – in base alla prospettiva piennellistica della piramide di Dilts – condizioneremo positivamente tutta la nostra vita:
in particolare, i livelli sottostanti delle nostre capacità (di capire la politica),
dei comportamenti (al momento del voto e in ogni circostanza in cui si richieda un contributo da cittadini consapevoli)
e persino dell’ambiente.
Si definisce, tecnicamente, come “deficit” pubblico la differenza tra le entrate fiscali dello Stato e le sue uscite.
Così, se in un certo anno lo Stato avrà registrato spese per 105, supponiamo, ed entrate per 100,
il suo deficit sarà costituito dalla differenza tra le prime e le seconde.
Quindi, nell’esempio, alla voce deficit troveremo un bel -5.
La somma di tutti i deficit, accumulatisi anno dopo anno, va a costituire il famoso debito pubblico complessivo.
Potremmo dire che il deficit è un goccia annuale, mentre il debito è il “mare” venutosi a determinare dallo stillicidio di una goccia dopo l’altra.
Ergo: se il deficit è una misura che indica lo sbilancio, nei conti di fine anno, tra le entrate e le uscite di uno Stato,
il debito, invece, è lo stock cumulato, in un dato momento storico, di tutti i deficit generatisi negli anni precedenti.
In concreto, oggi l’Italia ha un debito pubblico di circa 2.450 miliardi di euro che è, appunto, la somma aritmetica di tutti i deficit degli anni addietro.
Per esempio, se quest’anno il bilancio dello Stato finisse in deficit per, putacaso, cinquanta miliardi,
il deficit dell’anno corrente si sommerebbe allo stock di debito già esistente che passerebbe, così, da 2.450 a 2.500 miliardi.
Ora facciamo un passo in avanti: sia il deficit che il debito si misurano in una percentuale commisurata a un’altra unità di valore che è il famoso PIL (prodotto interno lordo).
Il PIL è l’insieme complessivo di tutti i beni e servizi prodotti da un Paese in un anno.
Contribuiscono al PIL quattro “generatori”:
a) la spesa pubblica (destinata ai consumi finali, agli stipendi del personale e agli investimenti pubblici);
b) gli investimenti privati;
c) i consumi dei cittadini;
d) la bilancia commerciale di uno Stato (cioè il saldo fra esportazioni e importazioni).
In definitiva, il PIL italiano è la ricchezza creata dal Sistema Italia grazie al contributo dei fattori suindicati.
Oggi il PIL italiano ammonta a circa 1.800 miliardi di euro.
Ecco, allora, da dove nascono i concetti di rapporto deficit/PIL e debito/ PIL: dalla risposta a una semplice domanda:
qual è il rapporto tra il deficit di un anno e il suo PIL?
Qual è il rapporto fra il debito pubblico di un Paese e il suo PIL?
Nel caso dell’Italia, per esempio, se nell’anno in corso il bilancio dello Stato si chiudesse con un deficit di 18 miliardi,
si potrebbe dire che il deficit italiano in rapporto al PIL è stato dell’1 per cento.
Infatti, 18 miliardi stanno a 1.800 miliardi come 1 sta a 100.
Se guardiamo al rapporto debito/PIL, invece, concluderemo che il rapporto debito/PIL è stato del 136 per cento
perché 2.450 miliardi (stock complessivo del debito) sta a 1.800 miliardi (PIL) come 136 sta a cento.
Questi due rapporti, come sapete benissimo, sono cruciali per capire cosa è successo in Europa negli ultimi trent’anni.
Infatti, non passa giorno – e non è passato anno dalla firma del Trattato di Maastricht (1992) in poi –
in cui non si senta ripetere la solfa del rispetto dei celeberrimi parametri, fissati appunto dal Trattato di Maastricht:
il deficit non deve superare il 3 per cento sul PIL e il debito non deve superare il 60 per cento sul PIL.
Veniamo ora al disvelamento della convinzione errata: le parole “debito” e “deficit” hanno, in realtà,
un senso esattamente opposto a seconda che vengano impiegate in ambito privato o in ambito pubblico.
Più precisamente, a livello pubblico (diciamo pure politico) i termini debito e deficit
non dovrebbero avere lo stesso significato negativo attribuito loro a livello di vita privata, nello studio, nel lavoro, nel commercio e nelle professioni.
Anzi, a dire il vero, essi dovrebbero avere il significato contrario.
Il deficit, infatti, è una delle modalità attraverso le quali uno Stato sovrano può immettere nuova liquidità all’interno della propria economia reale.
Ripensateci:
se le entrate di uno Stato sono le tasse, le imposte e i tributi,
in cosa consistono le uscite?
Risposta controintuitiva: nel denaro necessario per far funzionare il sistema statale nel suo complesso.
Quindi, nella voce “uscite” ci sarà tutto ciò che lo Stato italiano spende per la sanità, per esempio,
per la scuola, per l’istruzione in generale, per le infrastrutture, per la tutela del territorio, per le pensioni,
per la protezione e assistenza dei lavoratori, per il funzionamento della macchina amministrativa
(quindi, stipendi dei propri dipendenti) e della macchina politica (quindi, indennità e vitalizi dei politici), eccetera.
Ergo, le spese dello Stato sono un “attivo” per i cittadini.
Ciò che uno Stato “spende” è tutto denaro messo in circolo nell’economia reale.
Se il deficit è un quid pluris (un qualcosa in più) rispetto a quanto lo Stato ha ricevuto dai cittadini sotto forma di tasse,
evidentemente lo Stato, facendo deficit, immette altra liquidità nell’economia.
Adesso, provate a sostituire la vostra solida convinzione circa il significato della parola “deficit” con l’espressione “denaro addizionale”
oppure “risorse finanziarie aggiuntive per la cittadinanza”.
Notate come tutto cambia?
Come insegnava Dilts, se modifichi le tue credenze modificherai le tue emozioni,
se cambi le tue emozioni cambierai il tuo comportamento e le tue capacità e quindi il tuo ruolo nel mondo.
Non solo: come insegna più in generale la PNL (si chiama programmazione neuro “linguistica” non a caso),
se cambi il tuo linguaggio cambi la tua percezione del mondo; e pure le tue convinzioni limitanti.
È un circolo virtuoso.
“Denaro fresco” è esattamente ciò di cui l’Italia ha bisogno e che, però, stranamente non trova mai, da nessuna parte.
Se non a prezzo di un braccio di ferro con la Commissione europea volto a ottenere, sotto forma di “flessibilità”
(cioè – guarda un po’ – di punti in più di deficit) la possibilità di sforare i famosi parametri.
E quando il nostro Paese ci riesce, anche solo per pochi decimali di punto,
immediatamente scatta il riflesso condizionato associato a ogni tipo di peccato:
il senso di colpa.
La stampa fa “sentire in colpa” il governo perché ha fatto troppo deficit,
perché il debito pubblico è aumentato,
perché le future generazioni dovranno accollarsi i nostri debiti (questa è una delle solfe preferite dai “guardiani del Sistema”).
Gli stessi politici che hanno sforato i parametri – soprattutto quelli non troppo avvezzi alle cose economiche –
si sentono “responsabili” e subito pensano a come potranno porre rimedio al proprio peccato.
Un inciso.
Anche la parola “parametri”, se ci riflettete, è strettamente connessa con il dogma del debito e con la liturgia del deficit.
Cos’altro sono i parametri se non dei “paletti”, cioè delle norme; anzi, per meglio dire, dei “comandamenti”?
Qualcuno potrebbe a buon diritto obbiettare: si, ma se è un debito, lo dobbiamo pur sempre restituire!
Un momento: arrivati a questo punto della storia, dovremmo aver cominciato a familiarizzare con il concetto del metamodello e delle domande di precisione.
Quale “violazione” contiene, da un punto di vista linguistico e piennellistico, la frase di cui sopra
(“Sì, ma se è un debito lo dobbiamo pur sempre restituire!”)?
È una generalizzazione, sotto forma di operatore modale di necessità.
E davanti a questa generalizzazione cosa dovremmo chiedere a chi la pronuncia?
Alcuni quesiti “metamodellanti” potrebbero essere, per esempio: chi ci obbliga a restituirlo?
A chi lo dobbiamo restituire?
Perché lo dobbiamo restituire?
Per il momento, in ogni caso, concentriamoci su questa nuova “convinzione”:
il deficit corrisponde sostanzialmente a “risorse addizionali” o a “liquidità aggiuntiva”, se preferite.
Non dobbiamo più sentirci in colpa quando pronunciamo questa parola
e neppure siamo obbligati a imprecare contro il “governo ladro”.
Semmai, dovremmo essere spronati a capirne di più.