Quale Banca? (1 Viewer)

Perché le banche italiane sono in crisi?
I miei risparmi sono al sicuro? Come faccio a capire se la mia banca è affidabile? Come posso tutelarmi dai rischi che questa crisi comporta? Queste e altre sono le domande che tanti tra correntisti e risparmiatori si pongono da diversi mesi a questa parte. Per cercare di aiutarli a prendere le decisioni giuste abbiamo provato a fare il punto sulla situazione delle banche italiane oggi spiegando con parole semplici perché siamo arrivati a questo punto e cosa potrebbe succedere in futuro.

Che impatto ha avuto la crisi finanziaria del 2008 sulle banche?
Per parlare dello stato di salute delle banche italiane non si può non partire dalla crisi finanziaria del 2008. Un evento che cambiato il corso della storia per le economie dei Paesi occidentali. Una crisi che ha avuto come epicentro proprio le banche. Il sistema finanziario globale è finito al collasso per colpa dell’eccessivo impiego di strumenti complessi e speculativi come i derivati e l’elevato volume di crediti concessi dalla banche anche a chi non sarebbe stato in grado di rimborsarli in futuro. I famigerati mutui subprime o mutui ninja (no income no jobs) erano infatti concessi per l’acquisto della casa anche a famiglie senza redditi (income) e senza lavoro (jobs).

Questo terremoto ha lasciato relativamente indenni le banche italiane tradizionalmente meno speculative. Quando però la crisi si è trasferita ai debiti pubblici anche loro hanno sofferto. Tra il 2010 e il 2012 il mercato ha iniziato a temere che l’Italia non fosse più capace di rimborsare il suo debito pubblico. Questa crisi di sfiducia ha finito col travolgere anche chi, di questo immenso debito, è il principale acquirente: le banche italiane appunto.
Le banche hanno contribuito alla recessione?
Il timore che l’Italia e le sue banche fallissero ha fatto schizzare ai massimi i tassi di interesse a cui lo Stato e gli istituti di credito si finanziano sul mercato. Questi ultimi aloro volta hanno scaricato questi costi sui loro clienti. I prestiti a famiglie e imprese sono diventati più onerosi e il meccanismo del credito all’economia reale si è inceppato dando vita a quello che gli addetti ai lavori chiamano un «credit crunch», una stretta creditizia. In un’economia come quella italiana, che è fondata sul credito bancario, ciò è stato indubbiamente uno dei fattori che ha contribuito maggiormente ad alimentare la peggiore recessione dal dopo-guerra. Una crisi epocale che ha visto il Pil crollare del 10%; la produzione industriale del 25% e una miriade di imprese andare in fallimento.
Cosa sono i crediti deteriorati?
Con il crollo del Pil (cioè della ricchezza prodotta ogni anno dall’economia) e l’impennata della disoccupazione sempre più famiglie e imprese in tutta Italia si sono trovate in difficoltà a far fronte ai debiti contratti con le banche per comprare banche o finanziare l’acquisto di macchinari.

Il problema dei debitori (famiglie e imprese) si è trasformato in un problema dei creditori (cioè le banche) man mano che i prestiti non onorati (i cosiddetti «crediti deteriorati») crescevano nel loro bilancio. Quella dei prestiti malati (o Non performing Loans in inglese) è stata una mina a scoppio ritardato. Non è esplosa negli anni più duri della recessione (2011-2012) ma successivamente: tra il 2013 e il 2015 come si può vedere da questo grafico elaborato da PricewaterhouseCoopers su dati di Abi e Bankitalia.

Nell’anno più critico, il 2015, l’incidenza dei crediti deteriorati sul totale dei prestiti è arrivata fino al 22 per cento. Come dire che un prestito su cinque era «malato».
Che conseguenze ha avuto l’esplosione della «mina deteriorati»?
L’aumento esponenziale dei prestiti inesigibili ha costretto le banche a prendere le adeguate contromisure. Le ha costrette ad esempio ad accantonare riserve per far fronte ad eventuali perdite. Oppure a fare svalutazioni. Cioè dichiarare a bilancio che dei 200mila euro prestati al signor Rossi per comprare la casa e su cui le rate non sono state onorate si conta di recuperare 100mila. Ad esempio pignorando e mettendo all’asta l’immobile. Svalutare significa mettere una pietra sopra quel prestito accettando di andare incontro a una perdita.

Come nascono le perdite?
Quando si scrive un bilancio si prendono i ricavi (ciò che la banca incassa sotto forma di servizi, commissioni e margine di interesse sui prestiti ad esempio) e si sottraggono i costi. Innanzitutto quelli chiamati operativi (come gli stipendi dei dipendenti o l’affitto delle sedi) che in media pesano sui ricavi per il 60%. E poi si aggiunge tassello delle svalutazioni dei crediti malati. Quelli che non si riscuoteranno o si riscuoteranno con grande ritardo. Prima della crisi questa voce pesava per il 10-20% dei ricavi. Oggi ci sono banche in crisi in cui solo le rettifiche sui prestiti malati erodono tutti i ricavi. Da qui è diventa quasi automatico chiudere il bilancio, anzichè in utile, in perdita.

Quanto hanno perso le banche?
Il rosso accumulato dagli istituti di credito in questi anni è stato decisamente pesante. A fronte di un’esplosione del volume dei crediti deteriorati lordi oltre 341 miliardi di euro le banche italiane, dal 2011 ad oggi, hanno accumulato oltre 62 miliardi di euro di perdite secondo un’elaborazione che Il Sole 24 Ore ha fatto su dati S&P Market Intelligence.
Che effetto hanno avuto queste perdite sul patrimonio delle banche?
Come si è visto le perdite che si accumulano magari anno dopo anno finiscono per portare il patrimonio a livelli da non garantire più la solidità della banca. Ecco che, per rimediare, occorre riportare il patrimonio sopra determinati parametri indicati dalle autorità. Per fare questo si fa un aumento di capitale. Cioè si chiede soldi al mercato emettendo nuove azioni. Secondo una stima che Il Sole 24 Ore ha fatto su dati S&P Market Intelligence dal 2011 ad oggi sono stati fatti aumenti di capitale per oltre 45 miliardi di euro.

Sono stati sforzi sufficienti?
Non sempre anche perché è capitato che il mercato non abbia dato la propria disponibilità a finanziare delle banche in crisi. È capitato più di una volta l’anno scorso con il fallimento degli aumenti di capitale della Banca Popolare di Vicenza, di Veneto Banca e, soprattutto, del Monte dei Paschi di Siena.

Che succede se una banca fallisce l’aumento?
Con l’entrata in vigore della direttiva comunitaria BRRD (Bank recovery and resolution directive) si è introdotto il principio che lo Stato non debba farsi più carico del salvataggio di un istituto di credito in crisi pagando con i soldi dei contribuenti gli errori dei banchieri. Se una banca fallisce ad essere chiamati in causa sono in primo luogo gli azionisti e in secondo luogo i creditori a seconda del privilegio. Prima i possessori di titoli di debito subordinati, poi quelli che hanno bond senior e così via fino ad arrivare ai correntisti con depositi superiori ai 100mila euro. Al «bail-out» (salvataggio dall’esterno) si è contrapposto il «bail-in» (salvataggio dall’interno). Tra il bianco e il nero ci sono comunque molte sfumature di grigio e il fallimento di un aumento di capitale non significa automaticamente che debitori e correntisti debbano intervenire per salvare la banca.

La ricapitalizzazione precauzionale
Tra il «bail-out» e il «bail-in» la normativa prevede una terza via: la ricapitalizzazione precauzionale ad opera dello Stato. Di fatto una nazionalizzazione che può essere fatta solo se alcune condizioni sono rispettate: ad esempio se l’istituto è solvibile (cioè è in grado di affrontare situazioni di stress) o se c’è un rischio per la stabilità finanziaria del Paese ecc. Lo Stato italiano, che negli ultimi giorni del 2016 ha stanziato 20 miliardi di euro per decreto, è entrato nel capitale del Monte dei Paschi di Siena e potrebbe entrare in Veneto e Vicenza. Questa operazione prevede comunque una parte di condivisione del rischio da parte dei creditori dell’istituto attraverso, per esempio, la conversione in azioni del debito subordinato. Nel caso in cui questo debito sia stato venduto in maniera non trasparente è possibile una forma di rimborso che varia da caso a caso
http://www.ilsole24ore.com/art/fina...-e-popolare-vicenza-190226.shtml?uuid=AEyULjy

Come si misura il grado di rischio della mia banca?
Ci sono due indicatori. In generale i crediti malati non dovrebbero mai superare come valore a bilancio il livello del capitale. Più è alto questo rapporto, cioè le sofferenze superano il capitale più la banca rischia. Ovviamente più il rapporto tra sofferenze e capitale si riduce sotto il 100%, più la banca è da considersi virtuosa. Perchè avere sofferenze che non superano il patrimonio è importante, anche in prospettiva? Perchè, come si è visto, quei crediti che non rientreranno in banca vanno mano a mano rettificati di valore. Cioè andranno svalutati. Il peso di quelle svalutazioni impatterà sul conto economico producendo quelle perdite di cui abbiamo parlato che di riflesso limano mano a mano il capitale. È quindi evidente che una banca che ha sofferenze molto alte, andrà incontro a perdite sostanziose. Si può anzi si deve a questo punto ripristinare il capitale. cioè ai soci viene chiesto di iniettare nuovo denaro nella propria banca. Ma se le sofferenze continuano ad aumentare come è accaduto negli ultimi anni, quello sforzo di aggiungere nuovo capitale rischia di essere vanificato già l’anno successivo. Una sorta di spirale perversa.

Ho un conto corrente in una banca «a rischio» cosa devo fare?
La crisi e l’entrata in vigore delle nuove normative ha modificato in maniera sostanziale la realtà del risparmio bancario. È anche vero che finora non c’è stata alcuna crisi talmente grave da coinvolgere l’anello più debole della catena: i correntisti. I depositi (sia quelli degli istituti più solidi, sia quelli degli istituti più fragili) sono tutti coperti dalla garanzia del fondo interbancario che tutela le somme depositate fino all’ammontare di 100mila euro. Alla luce di questa considerazione chi è intenzionato a spostare il conto da una banca ad un’altra deve fare un’attenta analisi costi-benefici e rischio-rendimento. Anche tenendo conto del fatto che un istituto in difficoltà ha maggiore interesse a tenersi i clienti offrendo loro ad esempio remunerazioni più interessanti su prodotti come i conti di deposito. Se si ha un conto in una banca «a rischio» bisogna in primo luogo accertarsi che questo rischio sia ben remunerato. In caso contrario meglio cambiar
Il rialzo dei tassi può diventare la “manna” per le banche italiane e spagnole
Mi hanno proposto obbligazioni bancarie, sono prodotti sicuri?
Dipende dalla solidità della banca, dal rendimento offerto e dal grado di privilegio. Maggiore è la solidità dell’istituto e il grado di privilegio minore è il rischio e di conseguenza il rendimento. E viceversa. Chi sottoscrive o ha sottoscritto obbligazioni bancarie subordinate deve tenere conto del fatto che i suoi titoli potrebbero essere convertiti in azioni o addirittura azzerati di valore in caso di grave dissesto della banca. Un livello di rischio a cui dovrebbe corrispondere un adeguato livello di rendimento.

Come evolverà la situazione nei prossimi anni?
Difficile a dirsi. La buona notizia è che la crescita di crediti malati nei bilanci delle banche ha smesso di crescere. Quella cattiva è che la pulizia di bilancio non è stata ancora conclusa. L’uscita dalla crisi dipende dalla capacità di smaltire in maniera efficace il fardello dei crediti a rischio. Ad esempio favorendo le operazioni di cessione da parte delle banche. Da tempo il mercato dei crediti malati è condizionato da un forte divario tra domanda e offerta. Da una parte ci sono le banche che, pressate dalle autorità di vigilanza, hanno fretta di vendere. Dall’altra gli operatori specializzati che sono disposti a comprare ma solo a prezzi di saldo.

[Il Sole 24h]
 

tontolina

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tontolina

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PRESTITI SOCIALI: la COOP sei tu, ma i risparmi non ci sono più!
Scritto il 29 maggio 2017 alle 11:25 da Danilo DT

PRESTITI SOCIALI: la COOP sei tu, ma i risparmi non ci sono più! | IntermarketAndMore



E’ un periodo in cui le banche italiane sono nel mirino a causa di una serie di problemi, primi fra tutti l’esposizione nei confronti dei crediti deteriorati, o NPL. Ancora oggi abbiamo più “pratiche” aperte senza soluzioni definitive. Veneto Banca, Popolare di Vicenza e ovviamente MPS sono ancora storie senza una chiara soluzione e ne seguiranno ancora altre, probabilmente, se la situazione macroeconomica non migliora e se non si trovano soluzioni possibilmente condivise con l’Unione Europea, alla faccia della cosiddetta “Unione Bancaria”:
Questa volta però vorrei riportarvi un articolo che ha dell’incredibile, perché tratta di una vicenda che al momento non è nota alla maggior parte dei risparmiatori ma che potrebbe trasformarsi in un bubbone che non ha nulla da invidiare alle banche sopra citate. L’articolo, nella sua completezza, potrete leggerlo cliccando QUI.
Parliamo dei cosiddetti «prestiti sociali». Le cooperative li hanno utilizzati per trasformarsi in banche senza averne i requisiti. Bankitalia ha taciuto ma ora i nodi vengono al pettine: rovinati in migliaia. E il peggio deve arrivare.

Il prestito sociale, dice Legacoop, finanzia l’attività e quindi è per definizione un investimento a rischio, più delle stesse obbligazioni subordinate. Ma nessuno dice niente, nessuno ne parla…

Nei 1.189 supermercati affiliati a Legacoop funziona una vera e propria banca, che raccoglie i risparmi di 1,2 milioni di soci. Siccome però questa banca non si chiama banca, può fare cose che le banche non possono fare, proprio perchè in questo caso Bankitalia non la vigila. Quindi avrete già capito che siamo nella terra di nessuno. E quando così accade, qualcuno ci mangia ed inesorabilmente qualcuno di rimette.

A Varese, per esempio, sono in 800 i risparmiatori che sono a rischio. Si, rischiano di perdere tutti i loro risparmi: 7 milioni di euro. A Fidenza sono in 650 e rischiano di perdere 12,5 milioni di euro. A Milano Bollate sono in 700 e rischiano di perdere 16 milioni di euro. A Reggio Emilia sono in 2.250 e hanno già perso tutti i loro risparmi: 33 milioni di euro. E ora altri 1.730 rischiano di perderne ancora 22,5. Il motivo? Semplice: hanno affidato i loro risparmi a una cooperativa, come se fosse una banca. È possibile farlo? Sì, è possibile. Anzi, è stato per anni fin troppo facile. E così le cooperative hanno raccolto dai loro soci, in tutta Italia, oltre 11 miliardi di euro. Avete capito bene: 11 miliardi. Da 1 milione e 200 mila persone circa. Tutta gente semplice: pensionati, lavoratori, famiglie umili. Che, all’improvviso, potrebbero vedere saltare per aria il loro deposito. Puff, via, volatilizzato. Proprio come è successo a Varese, a Fidenza, a Bollate, a Reggio Emilia…

La coop sei tu, ma i soldi non ti ritornano più. Qualcuno ora ci scherza su, ma la notizia è sconvolgente. Così sconvolgente che tutti fanno a gara per tenerla nascosta. Sottotraccia. L’altra settimana i comitati delle diverse cooperative, che stanno cercando di coordinarsi a livello nazionale, hanno fatto una manifestazione a Roma, davanti a Montecitorio. Quasi nessuno se n’è accorto, nessuno ne ha parlato. Eppure il bubbone dei «prestiti sociali» (questo il nome ufficiale) delle cooperative rischia di essere assai più devastante di quello di Banca Etruria, Banca Marche, etc. Anche in questo caso, del resto, abbiamo semplici risparmiatori che si sono fidati e che sono stati traditi. Ma, soprattutto, che nessuno ha protetto e che nessuno sa più come proteggere.

L’unico caso che ha avuto gli onori delle cronache nazionali, per il momento, è quello del Friuli. Molti lo ricorderanno: la CoopCa, che gestiva una quarantina di supermercati in Carnia, e le Coop Operaie di Trieste avevano trascinato nel fallimento i risparmi di circa 20.000 soci, per un totale di quasi 130 milioni di euro . Nell’occasione il sistema delle cooperative era intervenuto per restituire una parte dei soldi e cercare di fermare l’ondata di panico presso gli altri prestatori sociali, cioè gli altri soci che hanno affidato i risparmi alle coop. Per lo stesso motivo Lega coop ha rimborsato anche ìl 40 percento delle somme depositate nelle prime due cooperative saltate a Reggio Emilia: la Coop Muratori di Reggiolo (su 49 milioni di prestiti ne sono stati rimborsati 19, gli altri 30 sono andati in fumo) e la Orion (su 5 milioni di prestiti ne sono stati rimborsati 2, gli altri 3 sono andati in fumo). Ma durante l’ultima riunione, pochi giorni fa, alla presenza della Federconsumatori che sta seguendo tutta la pratica nazionale, Legacoop è stata esplicita: i soldi sono finiti. Rien ne va plus.

Così ora si apre la pagina più amara. Alla cooperativa di costruzioni Di Vittorio di Fidenza si sono visti proporre un rimborso del 25 per cento. Troppo poco. Alla Coopsette e alla Unieco di Reggio Emilia stanno ancora aspettando,ma con sempre meno speranze. Le hanno già perdute tutte, invece, a Varese, dove gli 800 soci della Cooperativa Nuova (che ha realizzato oltre 3.500 immobili in tutta la provincia) da settembre è in mano a un liquidatore. «I 7 milioni di euro che abbiamo depositato lì non sono più disponibili per noi», dice Franca Centofanti, del comitato soci. E non lo saranno mai. I soci prestatori, infatti, sono creditori chirografari, gli ultimi a essere rimborsati’ dopo le banche, dopo i fornitori, dopo tutti gli altri. «È ovvio che per noi non resterà nulla», chiude sconsolato Franco Montali, della coop Di Vittorio di Fidenza, che sta cercando di organizzare il comitato nazionale dei risparmiatori beffati.


Ma come è stato possibile arrivare a questo punto?

«Il sistema è degenerato. Forse le coop si sentivano troppo forti, c’è stato delirio di onnipotenza», spiega Giovanni Trisolini, della Federconsumatori di Reggio Emilia. In effetti, è stato così: le coop si sono trasformate in banche, senza poterlo essere. Ma non essendo formalmente banche hanno potuto ignorare tutti quei parametri di bilancio che invece le banche devono avere. Per esempio: vi pare possibile avere 11 miliardi di raccolta credito su un fatturato complessivo di 12 miliardi di euro? Voi direte: qualcuno dovrebbe pur vigilare. Infatti, dovrebbe.

Ma Bankitalia nel frattempo che faceva? Ovviamente, dormiva. L’unico sussulto dell’istituto di via Nazionale si registra il 9 novembre 2016, quando vengono pubblicate le «disposizioni in materia di raccolta del risparmio da parte dei soggetti diversi dalle banche» , in cui si chiedono alle coop garanzie patrimoniali e si introducono obblighi di trasparenza. Un po’troppo poco, un po’troppo tardi. Guardate voi stessi, cliccate QUI.

(…) Le maggiori novità riguardano il “prestito sociale”, ossia la raccolta del risparmio che le società cooperative possono effettuare presso i propri soci. In particolare, sono state rafforzate le garanzie patrimoniali richieste alle società cooperative che ricevono prestiti sociali per un ammontare complessivo superiore a tre volte il proprio patrimonio (e comunque entro il limite massimo di cinque volte); sono stati precisati i criteri per determinare l’ammontare del patrimonio a tale fine; sono stati introdotti obblighi di trasparenza per accrescere la consapevolezza dei risparmiatori sulle caratteristiche e sui rischi del prestito sociale. Le nuove disposizioni ribadiscono il divieto per i soggetti diversi dalle banche di effettuare “raccolta a vista”, attività che rimane riservata solo alle banche; per evitare che il divieto possa essere aggirato, precisano che è considerata “a vista” non solo la raccolta rimborsabile su richiesta del depositante immediatamente o con preavviso inferiore a 24 ore, ma anche quella per la quale è previsto un termine di preavviso più lungo se il soggetto che ha raccolto i fondi si riserva la facoltà di rimborsare il depositante contestualmente alla richiesta o prima della scadenza del termine di preavviso. (…) (Bankitalia)

E il classico socchiudere la stalla quando i buoi stanno già facendo disastri ovunque. E adesso che cosa succede? L’impressione è che siamo soltanto all’inizio della catastrofe. L’impressione (ovviamente sussurrata sottovoce) è che, di quegli 11 miliardi depositati alle coop, pochi siano al sicuro. Le prime a crollare sono state le cooperative di costruzioni e quelle abitative. perché la crisi ha colpito duro innanzitutto lì. Ma ora sono a rischio anche le coop di consumo. Anzi, sono ancora più a rischio perché, come notava Il Sole 24 Ore qualche mese fa, esse «hanno scelto la strada della finanza spesse volte arrischiata o meglio indotta da intrecci politico-corporativi come proprio modus vìvendi». Più che supermercati, insomma, holding finanziarie: come documenta R&S Mediobanca il margine operativo dalle vendite alla cassa è pari allo zero e quel 2 per cento di utili netti sul fatturato che il sistema produce arrivano proprio dalla finanza.

Ma sono al sicuro i soldi dei soci prestatori nelle mani dei gestori di supermercati che sono diventati all’improvviso banchieri per necessità, furbizia, senso di onnipotenza o «intrecci politico-corporativi»?
Fra l’altro la crisi, dopo le coop abitative e di costruzioni, rischia di colpire duramente anche le coop di vendita: il fatturato è in discesa. E alcuni colossi come Unicoop Tirreno (109 negozi) sono andati in crisi con un buco di 100 milioni. E la Banca d’Italia (s’è svegliata! S’è svegliata!) ha fatto notare come quei 930 milioni (930 milioni) depositati dai soci prestatori di Unicoop Tirreno non potevano considerarsi per nulla al sicuro. In questo caso è intervenuto il soccorso ross , la Legacoop ha cercato di dare una boccata d’ossigeno. Ma ora se i soldi di Legacoop sono finiti che succederà al prossimo caso? E quante altre situazioni del genere ci sono in giro per l’Italia? Quante rischiano di esplodere come è successo a Varese, a Fidenza, a Bollate e a Reggio Emilia? E il governo che farà? I comitati dei soci, ovviamente, chiedono di essere tutelati. «Come i risparmiatori delle banche», dicono. Ma i risparmiatori delle banche non sono stati affatto tutelati. E poi: quanti soldi pubblici si potranno versare alle coop senza suscitare l’ira degli italiani? La bomba sta per esplodere. E i danni saranno devastanti.
Ma come sempre lo si capirà…dopo. E molti ignari risparmiatori, un giorno, lo scopriranno. Ma sarà troppo tardi.

STAY TUNED!

Danilo DT

(Clicca qui per ulteriori dettagli)
 

tontolina

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Banche Italia: cancro crediti deteriorati si cura così
Laura Naka Antonelli


“In questo periodo sta emergendo sempre di più la sostanziale incapacità del sistema bancario italiano a gestire efficientemente i circa 333 miliardi di euro di crediti deteriorati (12 miliardi in past due, 123 miliardi incagliati e 198 in insofferenza). Le posizioni corporate sono circa 250.000, mentre le imprese individuali e le famiglie coinvolte sono circa 7 milioni e mezzo. Enormità! La situazione è gravissima e, se possibile, sta ulteriormente peggiorando, considerando la sostanziale penuria di fondi da destinarsi a nuove straordinarie capitalizzazioni dei nostri istituti (o anche solo per attivare una Bad Bank di sistema, che notoriamente impedisce allo Stato di intervenire in materia, per non favorire gli operatori italiani).

Pesante risulta essere anche l’atteggiamento della BCE (che vuole imporre rapidissime cessioni,cioè svendite clamorose, dei crediti, in fondo per finalità bilancistiche ed incurante degli interessi sostanziali degli istituti creditori), nonché la prossima applicazione del IFRS 9, che, dalle simulazioni che ho effettuato, avrà effetti dirompenti sui bilanci delle nostre banche (qualora non venisse posticipato, come molti suggeriscono di fare).


Considerando che le coperture finora faticosamente effettuate non arrivano neppure al 57% delle predette masse, anche un bimbo comprende bene che, agli attuali prezzi di mercato dei Bad Credit (dal 2 al 5% per gli unsecured e dal 15 al 23% per i secured), la situazione è già insostenibile. Servirebbero infatti almeno 90 – 100 miliardi, possibilmente nei prossimi 18 mesi (periodo nel quale si chiuderanno i prossimi 2 esercizi), impossibili da trovare sul mercato, per un settore fortemente in crisi. Non sto parlando solo di MPS o delle due banche venete, ma anche di varie altre malmesse banche popolari e, soprattutto, di numerose BCC”.

Il Professor Francis Morandi, Managing Partner del Gruppo Tema Warren Europe e autore di vari libri e pubblicazioni, viene intervistato da Wall Street Italia, in merito a un aspetto decisivo per l’evoluzione del settore bancario e, indirettamente , per la stessa ripresa dell’intera economia italiana.

WSI – Prof. Morandi, cosa pensa che si possa fare per migliorare la situazione dei crediti in Italia

Per i non esperti, mi permetto qui di sintetizzare le ragioni che hanno condotto all’attuale disastrosa situazione dei credit portfolios delle nostre banche, oggi purtroppo la peggiore a livello europeo: prolungata stagnazione economica, superficialità nelle istruttorie iniziali ma anche nelle successive gestioni dei crediti, della documentazione e nei controlli. Mi riferisco, in particolare, alle carenti revisioni periodiche, alle modalità con cui vengono spesso gestite e mantenute le garanzie, le perizie, le pratiche catastali ed urbanistiche ma addirittura anche gli stessi dati anagrafici dei debitori, dei garanti, dei periti (che vengono lasciati diventare obsoleti e pertanto inutilizzabili, al punto da diventare spesso difficoltoso, se non impossibile rintracciare tali controparti).

Ho potuto sperimentare in alcuni grossi istituti le difficoltà a rintracciare le documentazioni fisiche, spesso non aggiornate (rispetto al momento dell’erogazione iniziale) e il cattivo stato delle procedure elettroniche di riferimento, che contengono quasi sempre pochi dati, anch’essi cristallizzati al momento iniziale, insufficienti, poco o nulla aggiornati e talora persino non corretti (anche a causa delle molte fusioni/migrazioni intervenute e dei mancati risk adjustment operativi effettuati, in quanto quasi sempre ci si limita a interventi formali, finalizzati quasi esclusivamente alle cogenti segnalazioni di vigilanza). Le stesse strutture organizzative bancarie preposte ed i processi di recupero sono molto basati sull’attività di costosissimi legali esterni (spesso assai lenti) o di pochi recuperatori esterni (“che devono costare poco……”).

Anche la legislazione ed i tribunali italiani, dopo anni di scelte demagogiche (che stanno danneggiando fortemente il settore), unita alla notevole burocrazia propria del comparto, sembra quasi che, nei fatti, tutelino più i debitori (il legislatore ed il governo si stanno oltretutto dimostrando incapaci di rendere operative persino certe norme interessanti, come, ad esempio, il patto marciano). Provate a non onorare un debito in Svizzera o in altre nazioni europee e vedrete come ve la passerete! I nostri tribunali inoltre impiegano troppi anni per esitare le controversie e le aste dei beni in garanzia e la stessa Centrale Rischi in Italia (vecchia e ancora con aggiornamenti mensili, invece di essere online), unita all’esistenza di pochissimi Credit bureaux (che spesso si limitano a fornire visure, protesti ed altri dati, con ritardi tali da renderli, di fatto, inefficaci) concorrono a determinare l’attuale stato delle cose.

A ciò si aggiunga anche la poca d’trasparenza delle banche in materia che, in nome di presunte esigenze di privacy, ma soprattutto per poter mantenere riservati i propri problemi, non si impegnano a sufficienza per trovare soluzioni, sia a livello di singolo istituto, ma soprattutto a livello di raggruppamenti di banche, di intero sistema bancario, attivando in proposito aggressivamente le associazioni di categoria (incredibilmente poco attive in materia).
In Italia inoltre non esiste un Mercato dei crediti (ci stiamo tentando solo ora, con alcune Fintech “intelligenti”) ed i pochi veri compratori dei crediti (a parte la brava Banca IFIS) sono solo pochissime grosse investment bank internazionali e fondi da taluni definiti “avvoltoi”, essenzialmente portati a penalizzare sia gli istituti creditori, sia i debitori, compromettendo i residui rapporti in essere, perché il loro obiettivo è quasi solo quello di entrare in possesso dei beni immobiliari ai prezzi più bassi possibili.

WSI. Perché abbiamo lasciato degenerare la situazione in questo modo?

Fatta la diagnosi, vorrei ora proporre delle osservazioni “in positivo”. Infatti, intervenendo immediatamente sui vari punti prima enunciati e favorendo approcci possibilmente “multibanca” (se non addirittura di sistema), a mio giudizio, nel giro di circa quattro anni, si potrebbe normalizzare la situazione dei crediti, evitando così che alcune banche debbano chiudere o divenire oggetto di facili ed economici take over da parte di operatori (probabilmente) esteri. Oltretutto è tempo che si torni finalmente a riavviare molte sane erogazioni creditizie, per fare ripartire la nostra economia.

Il primis serve “sporcarsi le mani e spingere al massimo” il recupero dei crediti, attrezzandosi, sia internamente, sia esternamente alle banche, per poterlo effettivamente ben realizzare.

Più banche insieme, ad esempio, potrebbero creare una BAD COMPANY (o meglio una DIGITAL BAD COMPANY) eventualmente, ma non necessariamente, sfruttando anche la normativa sulle GACS, e, se del caso, prevedendo anche la partecipazione di fondi tipo Atlante o anche di semplice equity da parte dello Stato (che non dovrebbe concentrare gli aiuti in due o tre banche, come attualmente pare stia facendo). Le partecipazioni in questione non sarebbero quindi consolidabili nei bilanci di alcun azionista, per evitare i connessi noti problemi.

Questa/e entità dovrebbe/ro, prima di tutto, procedere, su incarico di ogni singola Banca socia (o semplicemente cliente), a migliorare il livello qualitativo delle informazioni relative alle singole pratiche creditizie, operando con avanzate tecnologie e modalità digitali (temporalmente assai rapide). In tal senso propongo di utilizzare le procedure oggi usate esclusivamente da pochissime banche e finanziarie (soprattutto estere) nelle valutazioni computerizzate iniziali per gli shadow rating, il credit scoring, le burden tables e le overrides e di ricorrere massivamente ai cosiddetti “periti elettronici”, “avvocati elettronici”, “notai elettronici”, “cancellerie elettroniche”, agli accessi massivi e finalizzati (effettuati con strumenti “intelligenti”) ai pochi credit bureaux disponibili, agli info provider, anche commerciali, alle camere di commercio, ecc..

L’obiettivo è quello di procedere a enrichment ed enlargement massivi delle informazioni ed alla loro normalizzazione, relativamente a tutte le tipologie di bad credits bancari. In particolare si devono appurare l’effettiva persistenza dei garanti, delle garanzie, il loro valore effettivo, il reddito presunto delle varie controparti, gli aggiornamenti degli indirizzi di tutte le controparti, l’eventuale esistenza di note negative, il valore puntuale di mercato dei beni immobiliari sottesi (sulla base delle loro reali caratteristiche e location), nonché lo stato effettivo di ogni singolo credito, debitore ed azione di recupero, se già attivata.

Per esperienza so che applicando ai dati così rapidamente estratti, shell di intelligenza artificiale o semplici algoritmi statistici di correlazione multipla, nonché valutando digitalmente le performance dei molti legali e recuperatori coinvolti (togliendole loro immediatamente le pratiche, in caso di prestazioni inadeguate o lente) è possibile effettuare rapidissime e corrette valutazioni dei crediti (eventualmente da rendere oggetto di rating o di auditing da parte di esterni indipendenti, qualora ciò non costasse molto). Già solo questa attività farebbe crescere, di parecchi punti percentuali, il prezzo di eventuali cessioni dei crediti (oggi spesso comprati senza poter disporre di dati significativi e attendibili, fattore che determina inesorabilmente forti sconti di prezzo, così come prima indicati), ovviamente a beneficio delle banche e di una sana gestione del credito.

La piattaforma di lavorazione prima indicata sarebbe oltretutto anche in grado di definire le priorità dettagliate di intervento e le migliori strategie di recupero, evidenziando cioè le partite più rapidamente e meglio recuperabili e permettendo incassi maggiori, oltre che più attendibili.

WSI – Cos’altro si potrà fare?

La COMPANY in questione, in accordo con le banche socie o clienti, sulla base delle strategie e priorità individuate, potrà immediatamente avviare le attività dirette di recupero dei crediti migliori, utilizzando una propria struttura di recupero, basata su professionisti qualificati (con competenze legali, finanziarie e amministrative), su recuperatori e su call center efficienti, tutti da monitorare sistematicamente nelle loro performance (dalla piattaforma). Alternativamente, si potrebbe decidere di effettuare un contest, per procedere alla trasparente cessione, per conto della/e banca/he mandataria/e, di una parte dei crediti (avendo eventualmente “retato” le valutazioni creditizie sottese).

Un’ulteriore possibilità, limitata però dal capitale proprio disponibile, è rappresentata dal fatto che la BAD COMPANY possa procedere all’acquisto ed alla immediata lavorazione in conto proprio di una parte dei crediti (attivando così sistematiche rotation dei crediti stessi, per poter ottimizzare l’impiego del poco capitale disponibile). Preciso che i professionisti coinvolti devono avere delle preparazioni differenziate, per lavorare al meglio i past due, gli incagli, le ristrutturazioni, i chirografari oppure gli ipotecari. È tuttavia fondamentale che essi, ripeto, vengano sempre e sistematicamente supportati e monitorati da specifiche funzionalità della piattaforma (che deve essere in grado di elaborare anche le segnalazioni delle banche e quelle proprie).

La BAD COMPANY in questione, direttamente o attraverso una struttura master service esterna (ex art. 106 del T.U. Bancario), sempre mediante l’utilizzo della piattaforma, deve poter gestire anche il processo di securitization di parte dei credit, con relativa emissione di titoli senior, che potrebbero essere acquisiti direttamente dalle banche (che trasformerebbero così in asset “quasi sicuri” i precedenti crediti in sofferenza, migliorando così notevolmente la propria posizione contabile anche ai fini della BCE) oppure da controparti Institutional o da privati qualificati. I titoli mezzanini e quelli junior dovrebbero evidentemente rimanere in capo alla BAD COMPANY, che, avendo avuto la possibilità di valutare correttamente i crediti sottesi, potrebbe comunque trarre, anche da essi, parte della remunerazione dei propri servizi.

WSI – Quanto tempo ci vorrebbe per attivare uno o più BAD COMPANY?

A mio giudizio, il problema principale è soprattutto rappresentato dal fatto che alcune banche sappiano velocemente decidere di uscire dallo stallo in cui si trovano, per procedere rapidamente sulla base di quanto sopra indicato o con modalità assimilabili.

Stante l’urgenza degli interventi, all’inizio ci si potrebbe avvalere delle competenze di alcune selezionate società di recupero crediti (operando così soprattutto in termini di costi variabili), privilegiando possibilmente alcuni operatori piccoli (perché i pochissimi grandi, finora, non hanno dato buone prove di recupero). Si consideri che, come sostiene il Dr Beniamino Anselmi (che sta cercando di fornire al fenomeno soluzioni anche socialmente intelligenti), potrebbero essere in parte coinvolte anche delle risorse che le banche oggi vorrebbero “scivolare” (per i noti problemi di esubero del personale), previa però formazione delle stesse e attribuzione alle stesse di precisi MBO Program, per responsabilizzarle a un’efficienza operativa. Per quanto riguarda la piattaforma tecnologica, stiamo da tempo mettendo a punto una soluzione che, in buona parte, può essere resa operativa sin da subito.

L’intervento potrebbe essere, sin da subito, arricchito anche dall’ utilizzo di una REOCO (Real Estate Owened Company), e, se del caso, anche di una GACS, con parziali garanzie statali, per ottimizzare le gestioni, l’alienazione e il trattamento fiscale relativo agli immobili (espandendo anche i controvalori d’asta). Tutto ciò avrebbe costi significativamente inferiori rispetto ai soliti passaggi tra funzionari interni, periti, valutatori, legali, investment bank e recuperatori vari esterni, non allineati su piattaforme, metodologie e processi univoci, controllati e rigidamente pianificati.

Dai dettagliati calcoli che ho eseguito, inoltre il capitale necessario alla BAD COMPANY per attivare l’intero ciclo sopra indicato (specie qualora la stessa fosse assistita, come precedentemente accennato, da un master service e da una REOCO, oltre che da fondi immobiliari “vicini”) è abbastanza contenuto e pertanto facilmente alla portata delle banche. In altri termini, non servono le enormi cifre che ho più volte letto, relativamente alla costituzione di una Bad Bank italiana, che lavori i crediti, dopo averli acquistati.
 

tontolina

Forumer storico
Vendita diamanti: cinque grandi banche italiane perquisite per truffa
CataniaLiveNews -

In questi giorni, stando a quanto si apprende, i militari della Guardia di Finanza di Milano stanno acquisendo documenti e materiale informatico in alcune banche tra le quali alcune filiali di Banco Bpm,Intesa SanPaolo, Monte dei Paschi di Siena, Unicredit e Popolare di Bari.

Secondo alcune fonti, citate da Reuters, le Fiamme Gialle avrebbero prelevato documenti e file dai computer delle banche.
I broker di diamanti hanno usato le reti delle banche italiane per vendere le pietre preziose.
Gli accertamenti sono scattati dopo che la Consob, lo scorso novembre, si era occupata del caso in seguito ad un'inchiesta giornalistica della trasmissione 'Report'.
Molte banche infatti non possiedono le competenze necessarie in casa per trattare la compravendita di preziosi e si affidano a terzi.
In realtà poi per l'investitore rivendere il diamante è praticamente impossibile e l'unica strada è affidarsi a chi glielo ha venduto, pagando però una salata commissione.
 

tontolina

Forumer storico
Telegraph: La crisi bancaria italiana è frutto delle politiche dell’Unione Europea
Di Malachia Paperoga - Giugno 29, 2017


L’ottimo A.E. Pritchard riassume la situazione della crisi delle banche venete, intervistando anche Claudio Borghi. La permanenza nell’eurozona è costata all’Italia prima un “decennio perduto” e ora, come ulteriore conseguenza, una grave crisi bancaria, che non può essere risolta definitivamente… a causa delle stesse regole dell’eurozona.

Di Ambrose Evans-Pritchard, 26 giugno 2017

L’infinita crisi bancaria italiana è tornata alla ribalta. Il piano di emergenza per salvare due banche venete per un costo complessivo di 17 miliardi di euro è un fiasco di prim’ordine.
Gli italiani hanno lasciato che la crisi si incancrenisse, ma la causa sottostante è il regime insostenibile imposto dalle stesse autorità UE.


Se Bruxelles e Francoforte avessero permesso all’Italia di nazionalizzare Veneto Banca e la Banca Popolare di Vicenza con condizioni flessibili due anni fa, la crisi sarebbe stata ricomposta con meno danni all’economia italiana e con un costo molto inferiore per lo Stato.

Il piano di emergenza svelato dalle autorità UE venerdì notte mette al riparo gli obbligazionisti “senior” e i possessori di depositi anche oltre i 100.000€, lasciando che i contribuenti italiani paghino il conto.

Un conto che potrebbe ammontare ad un punto percentuale di PIL, spingendo così il debito pubblico al 133% dello stesso PIL. Anche se questo valore è ancora gestibile, è comunque fastidiosamente alto considerata la fase del ciclo economico globale in cui ci troviamo, e mette a rischio la sorte di un paese privo della propria sovranità monetaria e della propria banca centrale.

Gli speculatori che si sono appropriati del debito di queste due banche con uno sconto del 70% rispetto al valore nominale stanno facendo profitti da capogiro. “Le obbligazioni senior volano negli scambi a Milano. I fondi speculativi hanno appena guadagnato un sacco di soldi, e i contribuenti sono i grandi perdenti” ha detto un banchiere italiano.

Lo scopo delle nuove regole bancarie dell’eurozona è che la società non dovrebbe farsi carico delle perdite delle banche in fallimento, fintanto che gli investitori non abbiano subito il maggiore impatto. Questo principio è stato subito infranto alla prima occasione importante. E’ stato individuato un cavillo nella legge.

Certamente la decisione è contraria allo spirito della legge. Avrebbero dovuto lasciare che gli investitori subissero le perdite con un taglio del 20% del loro investimento”, ha detto Lorenzo Codogno, l’ex capo economista del tesoro italiano e adesso impiegato presso LC Macro Advisors.

La Banca Centrale Europea ha detto che entrambe le banche “stavano fallendo o sarebbero verosimilmente fallite” e che tutti i tentativi di trovare una soluzione realistica erano falliti. Tuttavia, sono state esentate dall’applicazione della regola draconiana del “bail-in”.

Bruxelles ha permesso un’eccezione alle normali regole riguardo gli aiuti di stato, sostenendo che il pacchetto di salvataggio era necessario per “evitare perturbazioni economiche nella regione veneta”. Detto in altri termini, la UE è al momento molto preoccupata dalla situazione politica italiana.

I termini dell’intervento sono incredibili. Per decreto, le attività sane saranno separate e vendute per la somma simbolica di 1€ a Banca Intesa, che otterrà anche un’iniezione di contanti di 5,2 miliardi di euro dallo stato per preservare i suoi coefficienti patrimoniali.

Bella la vita. Lo Stato stacca un assegno ad Intesa e le regala tutte le attività migliori, mentre i contribuenti si tengono le attività marce. E’ incredibile” ha detto Claudio Borghi, capo economista della Lega Nord.

Qualsiasi perdita futura sofferta da Intesa a causa di questo accordo, sarà coperta dal Tesoro. Una clausola dell’accordo dice che niente potrà essere cambiato quando i parlamentari italiani voteranno per confermare il decreto in parlamento. Il prezzo delle azioni di Intesa è salito del 4% lunedì, mentre Unicredit è salita del 3,6%.

Borghi sostiene che le due banche venete avrebbero potuto essere riportate in salute con i giusti interventi. Anche se i crediti inesigibili rappresentavano il 37% dei prestiti totali – il doppio rispetto alla media italiana – la principale causa non è stata l’eccessiva propensione a concedere prestiti o la speculazione.

“Abbiamo vissuto 13 trimestri di recessione. L’austerità che abbiamo dovuto sopportare avrebbe distrutto qualsiasi sistema bancario. Il vero problema è il ‘decennio perso’ dell’Italia”. L’economia si sta infine riprendendo, ma il PIL rimane dell’8% inferiore rispetto a prima della crisi-Lehmann.

I rialzi dei tassi della BCE del 2011 si sono rivelati uno shock macroeconomico per l’Italia, in quella fase. Hanno incancrenito le difficoltà del paese. Bruxelles ha aggravato la crisi ordinando all’Italia di condurre una stretta fiscale pro-ciclica eccessiva.

La UE ha continuato ad aumentare le sue richieste sui coefficienti patrimoniali delle banche, senza aspettare che queste si riprendessero. L’ultima goccia è stato il panico in cui sono stati gettati i clienti dal duro regime di insolvenza per gli obbligazionisti, insieme a una politica di tagli sui depositi che era stata sperimentata con risultati scioccanti a Cipro.

“Dire ai cittadini che non si possono più salvare le banche, è come buttare benzina sul fuoco. Le persone non stanno ad aspettare di essere liquidate. Non sono stupide” ha detto Borghi.

La conseguenza del timore di bail-in è stata una lenta fuga di capitali dal sistema bancario italiano. Le due banche venete hanno perso il 44% dei propri depositi tra giugno 2015 e marzo 2017. Sono entrate in un circolo vizioso. Insieme al Monte dei Paschi di Siena (un dramma parallelo), l’emorragia di depositi è stata di 65 miliardi di euro.

Immediatamente, i politici tedeschi di qualunque estrazione, si sono precipitati a denunciare il salvataggio come una disgrazia. “La promessa che i contribuenti non sarebbero più stati chiamati a pagare per i problemi delle banche è svanita in una notte nebbiosa” ha detto Markus Ferber dei Cristiani Sociali Bavaresi (CSU).

I Democratici Liberali (FDP) hanno insinuato che l’unione bancaria UE è a rischio. Le fonti a Bruxelles temporeggiano. Dicono che il rifiuto della Germania a sostenere l’unione bancaria con una garanzia dei depositi a livello europeo la rende impraticabile, quindi le regole devono essere modificate.

Roma ha commesso errori. L’ex premier Matteo Renzi ha puntato i piedi. Il Fondo Atlante, sostenuto dallo stato, era troppo piccolo per ridare fiducia. “La morale della storia è che più si aspetta, peggiore diventa la situazione” ha detto Codogno.

L’Italia ha avuto un pessimo tempismo. La Germania, l’Olanda, il Belgio (e il Regno Unito) hanno salvato le proprie banche utilizzando molti più soldi durante la crisi-Lehmann, con le vecchie regole. A quei tempi, la percentuale di crediti inesigibili era molto bassa in Italia. Quando poi si sono sviluppati i problemi italiani, le nuove regole erano ormai operative (più precisamente, le regole sono diventate operative mentre si sapeva già che i nostri problemi stavano per arrivare, mentre il Nord Europa aveva già ristrutturato con le vecchie regole, NdVdE).

Codogno ha detto che non bisogna interpretare questa disgrazia come un segno che la crisi bancaria italiana si sta aggravando ora. Potrebbe invece trattarsi del momento più buio prima dell’alba. Anche se i crediti deteriorati sono ancora intorno ai 350 miliardi di euro, molti sono compensati dalle relative riserve.

Il bilancio dei crediti deteriorati netti è di 76 miliardi e in rapida contrazione. Unicredit li ridurrà di altri 12 miliardi di euro in termini pre-concordati a luglio. Entro la fine dell’anno l’eredità tossica sarà ridotta al 3% del totale dei prestiti.

Ora, molto dipende da quanto durerà l’attuale ciclo economico globale, e cosa accadrà quando la BCE smetterà di assorbire totalmente l’emissione del nuovo debito pubblico italiano. La Banca Carige di Genova è la prossima a rischio, se i guai dovessero continuare.

Che il peggio sia passato o meno, una cosa è chiara: non è questo il modo in cui l’Europa dovrebbe gestire l’Unione Bancaria.

Telegraph: La crisi bancaria italiana è frutto delle politiche dell’Unione Europea
 

tontolina

Forumer storico
Banca in crisi? Blocchiamo i conti correnti! Non è uno scherzo ma un’idea Ue

http://blog.ilgiornale.it/foa/2017/07/31/banca-in-crisi-blocchiamo-i-conti-correnti-non-e-uno-scherzo-ma-unidea-ue/

Sarà senz’altro per il caldo, ma la notizia è sfuggita praticamente a tutti, sebbene la fonte fosse molto autorevole: la Reuters.
In Italia l’ho letta solo su scenari economici, eppure merita molta attenzione.

Scopriamo, infatti, che l’Unione Europea, tramite la Presidenza estone, sta considerando una norma che permetterebbe di bloccare i prelievi dai conti correnti e dai depositi al fine di evitare la corsa agli sportelli delle banche in difficoltà. Praticamente verrebbe dato ai supervisori europei la possibilità di congelare i conti. E non per poco: fino a un massimo di 20 giorni.

Traduco per semplicità: se il vostro istituto dovesse andare in crisi, voi correntisti non potreste prelevare un centesimo per 20 giorni, immagino lavorativi. Dunque rimarreste “a secco” per un mese.

Le attuali norme prevedono limitazioni parziali per un massimo di due giorni e un’altra proposta della Commissione europea presentata lo scorso novembre contemplava l’intoccabilità dei conti fino a 100mila euro.

Il piano rivelato dalla Reuters è molto più radicale.
La buona notizia è che diversi Paesi e le stesse banche si sono opposte; quella cattiva è che la Germania è favorevole.

A inquietare, però, è il messaggio complessivo che emerge da queste indiscrezioni. Se le cose andassero davvero bene, insomma se gli istituti bancari fossero davvero risanati, scenari così estremi non verrebbero nemmeno presi in considerazione. E invece apprendiamo che sul tavolo della Ue ci sono ben due proposte. Evidentemente nonostante le misure adottate dal 2008 ad oggi, il sistema bancario resta di salute alquanto cagionevole.

Basta poco per farlo ammalare. E per inguaiare, davvero, gli incolpevoli risparmiatori.

Attenti…



Tag: bloccare i bancomat, congelare i conti, cosa vuole l'isis, crisi bancarie, crisi banche, norme ue crisi banche
 

tontolina

Forumer storico
A giugno, quando Padoan urlava tronfio che il nostro sistema bancario viveva un nuovo rinascimento, le banche italiane vendevano 20 miliardi di btp, la maggiore dismissione dal 1997 che, peraltro, si somma ai 9,4 miliardi già ceduti a maggio. Aggiungo che da inizio anno le banche europee hanno venduto titoli del debito italiano per 257 miliardi. A comperare, almeno finché il QE resta in vigore, sono state la Bce e Banca d'Italia.
Gli istituti italiani custodirebbero complessivamente, secondo stime accreditate, 365 miliardi di debito pubblico, 50 miliardi in meno di un anno fa. Tra i gruppi più esposti ci sarebbero Poste Italiane (per 118 miliardi), Intesa Sanpaolo (si parla di 88 miliardi circa), Unicredit (58 miliardi circa), Banco Bpm (29 miliardi circa) e Mps (20 miliardi circa).

A cinque anni dalla storica dichiarazione «whatever it takes» di Mario Draghi che ha dato avvio agli acquisiti massicci di titoli di Stato, sono prossimi gli appuntamenti istituzionali in cui si potrebbe annunciare la fine della strategia che finora ha tutelato, tra l'altro, le sorti del debito pubblico italiano. Nel mirino, in particolare,
ci sono il prossimo vertice Fed di Jackson Hole (24-26 agosto) che, nell'estate del 2013, era stato utilizzato da Draghi come pulpito per la discesa in campo con il programma QE,
il comitato tecnico di Francoforte del 7 settembre e
il vertice della Bce del 26 ottobre,
quando anche la direzione della Fed, che si riunisce il 20 settembre, sarà chiara.

Il rischio per le nostre banche è quello di ritrovarsi a bilancio un buco di dimensioni più o meno profonde.
 

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