«La vertenza UBS a un bivio decisivo»
Intervista con Henry Peter, professore di diritto economico all’Università di Ginevra
A CURA DI ROBERTO GIANNETTI
La risposta del Governo al giudice Alan Gold sarà molto importante: se fosse positiva aprirebbe scenari impensati, mettendo a repentaglio la stessa esistenza di UBS
HENRY PETER per UBS si aprono scenari preoccupanti.
Abbiamo rivolto alcune domanda a Henry Peter, Professore di diritto economico all’Università di Ginevra, per capire gli aspetti salienti della vertenza che impegna UBS negli Stati Uniti.
Qual è la posizione di UBS in questa delicata causa aperta negli Stati Uniti?
«Per rispondere a questa domanda dobbiamo innanzitutto ricordare i fatti. UBS è una banca la cui casa madre è in Svizzera, e di cui una parte importante dell’attività si svolge all’estero, e in particolare negli Stati Uniti.
In Svizzera vige il cosiddetto segreto bancario, mentre negli Stati Uniti questo non esiste. Si sono realizzate due tipi di fattispecie: da una parte UBS ha accolto in Svizzera dei clienti americani venuti in Svizzera ad aprire dei conti e a depositare fondi non dichiarati negli Stati Uniti, commettendo un reato nel loro paese.
D’altra parte, UBS è stata direttamente attiva sul territorio americano, con i propri uomini, anche inviati dalla Svizzera, allo scopo di procacciare sul territorio americano clienti ed inducendo questi ultimi ad aprire dei conti presso UBS in Svizzera, spiegando anche loro come fare per trasferire i loro fondi in Svizzera».
Si intuisce abbastanza facilmente che le due fattispecie possono avere delle conseguenze diverse.
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«Certo, come primo fatto abbiamo l’americano che non dichiara i suoi soldi al fisco del suo paese, senza intervento diretto di UBS negli Stati Uniti; nel secondo caso
invece la banca stessa è stata direttamente attiva negli Stati Uniti, per non dire istigatrice o complice di un atto illecito commesso sul suolo americano.
Questo fatto è stato scoperto dall’autorità americana la quale ha quindi arrestato alcuni alti quadri della banca, i quali hanno ammesso i fatti e dato informazioni molto precise, rivelando anche che UBS aveva una strategia molto articolata vertente proprio a permettere a dei residenti e cittadini americani a violare il diritto americano.
La conseguenza è stata che le autorità penale e fiscale americane hanno aperto un procedimento contro UBS, ritenendola colpevole di reati sul territorio americano.
Questo non è stato contestato da UBS la quale ha quindi accettato di pagare una multa di USD 914 Mio. con accordo del febbraio scorso».
Ma l’accordo raggiunto in febbraio fra Stati Uniti e UBS non doveva almeno in parte risolvere l’intera vertenza?
«No. L’accordo lasciava infatti ancora aperta la questione dei 52.000 conti aperti da cittadini americani presso la banca in Svizzera, quindi la seconda categoria di fattispecie nell’ambito della quale non necessariamente UBS è stata direttamente attiva sul territorio americano.
Questo è ora il punto dolente che è oggetto della causa di cui si parla in questo momento e la quale si svolge davanti ad un giudice di Miami. In altre parole, la convenzione di febbraio 2009 non ha segnato la fine della vertenza, come si era lasciato intendere all’epoca, ma in un certo senso e un po’ paradossalmente il suo inizio. Infatti, nella convenzione medesima la parte un po’ nascosta dell’iceberg è che UBS si è impegnata a collaborare con l’autorità fiscale americana. E qui i nodi vengono al pettine e comunque spiegano l’attuale preoccupante braccio di ferro tra gli Stati Uniti, da una parte, e UBS e la Svizzera, dall’altra. La situazione è questa: da un lato UBS, aiutata dal governo svizzero, cerca di dimostrare che i dati relativi a questi conti non possono essere comunicati direttamente al fisco americano senza rispettare la convenzione detta di “doppia imposizione” esistente tra gli stati Uniti e la Svizzera.
Se così è, allora la trasmissione dei dati non può essere decisa dal giudice di Miami e sottostà a precise condizioni, tra cui, in una certa misura, al rispetto del segreto bancario svizzero.
Quindi UBS sostiene che non può rispondere alla richiesta, perchè in caso contrario commette in Svizzera un reato penale.
Dal canto suo l’IRS, il fisco americano contesta questa tesi affermando da una parte che siamo di fronte ad un reato commesso sul territorio americano e che non vi è quindi spazio per l’applicazione del segreto bancario svizzero e prevalendosi, sembra anche, di un precedente del 1982 (Banca di Nova Scotia) in occasione del quale l’autorità americana aveva costretto una banca straniera a comunicare dei dati bancari nonostante il fatto che la banca stessa si potesse prevalere del segreto bancario in vigore presso la propria sede.
Su questa base, il fisco americano chiede al giudice americano di condannare UBS a rivelare i dati dei propri clienti americani, e se non lo faranno chiedono di sequestrare i beni di UBS o addirittura di chiudere le attività della banca negli Stati Uniti.
Ciò sarebbe naturalmente fatale per UBS data l’importanza del proprio ramo d’azienda sul territorio americano. UBS negli USA conta 30.000 dipendenti».
Ma attorno a queste due posizioni la situazione si complica tremendamente a giudicare dalle notizie di ieri.
«Certo, ora è intervenuto lo stesso governo svizzero, che ha detto che UBS non può fornire i dati, e che se lo fa la Confederazione interverrà contro la banca stessa perchè violerebbe il diritto svizzero».
Ma è un comportamento un po’ inusuale quello di un’autorità che proclama che non è possibile infrangere una legge?
«Chiaro. Siamo però in una situazione molto particolare. Vi è stato un primo episodio nel febbraio di quest’anno quando, sempre sotto la pressione degli Stati Uniti, UBS ha comunicato loro l’identità e i dati di 250 clienti. Sapendo che farlo ammontava ad una violazione del segreto bancario, UBS ha in sostanza chiesto all’autorità svizzera di farle ordine di trasmettere tali dati alle autorità fiscali americane. Questa volta succede il contrario: UBS chiede questa volta all’autorità svizzera di proibirle di comunicare dati all’autorità americana».
Ma questo non sembra impressionare molto gli americani.
«No. L’IRS, che si comporta infatti spesso in modo aggressivo. Si può quasi dire che sta usando l’arma atomica chiedendo, come detto, al giudice competente: “Giudice Gold, chiudi la banca se questi non mi danno queste informazioni” .E ora il giudice Gold, ha chiesto al governo americano se è pronto a chiudere UBS. Anche questa non è una prassi normale, ma ricordiamo che negli Stati Uniti il giudice ha molti poteri ed è talvolta molto “creativo”».
Ma fra Svizzera e Stati Uniti non esistono accordi che dovrebbero regolare questi contenziosi?
«Sì, appunto, come detto fra i nostri due paesi esiste una convenzione contro la doppia imposizione, che è stata peraltro rinegoziata lo scorso mese. Questa convezione ha anche lo scopo di creare il canale che deve essere usato quando le autorità americane vogliono avere informazioni dalla Svizzera o da una banca svizzera. E ora la Svizzera continua a ricordare agli americani che non possono chiedere al giudice di Miami di condannare UBS per avere i dati, ma che devono passare attraverso i canali stabiliti da questo trattato internazionale. La risposta, almeno in prima istanza, la conosceremo quando il giudice americano deciderà».
La risposta del Governo arriverà entro domenica. Il processo si aprirà lunedì. La risposta condizionerà il processo?
«Certo, la risposta data dal governo sarà molto importante. Si può immaginare l’effetto se diranno “Sì, siamo pronti a chiudere UBS negli Stati Uniti” .
Questa risposta aprirebbe scenari impensati. Si potrebbe a questo punto ipotizzare, come ha fatto Merz, un accordo con il quale UBS potrebbe prendere a suo carico l’ammontare delle imposte evase più le relative multe, il che ammonterebbe a miliardi di franchi. Ma forse nemmeno questo basterebbe».
Quali sono gli obbiettivi di questa offensiva fiscale americana?
«Gli americani hanno tre obbiettivi: vogliono soldi, perchè ne hanno bisogno; vogliono infliggere una lezione contro l’evasione e infine vogliono che questi conti vengano dichiarati. Nemmeno la proposta di Merz soddisferebbe completamente tutti questi punti. Infatti in questo modo la lezione verrebbe data, perchè ci si può immaginare l’effetto di questo accordo su tutte le altre banche del mondo. Inoltre i soldi li riceverebbero e in terzo luogo si può pensare che i clienti americani dichiareranno i conti, perchè ora non sanno più dove andare.
Oggi non c’è più una banca in Svizzera che accetti un cliente americano e la tendenza fra questi clienti è di autodenunciarsi. Tra l’altro gli Stati Uniti hanno messo in piedi un sistema che in questo momento è quasi un incentivo a rimpatriare e a dichiarare i fondi».
A suo avviso si tratterà di un processo lungo?
«Io vedo spesso questi giudici all’opera e sono capaci di decidere estremamente velocemente, talvolta anche seduta stante. Chiaramente in questo caso il processo potrebbe durare anche due settimane, ma non penso più di un mese. Quindi si tratta di tempi abbastanza ristretti».
corriere del ticino,oggi