QUANDO SENTI QUALCOSA CHE TI FA VIBRARE IL CUORE NON DOMANDARTI MAI COSA SIA, MA VIVILO

Venticinque giorni prima, il 1° settembre, un caccia sovietico aveva abbattuto un jumbo jet coreano con 269 persone a bordo che era entrato nello spazio aereo dell’Urss.
Erano gli anni della gerontocrazia al comando, della paranoia e della profondissima crisi.
Il gensek (segretario generale del partito) Jurij Andropov era permanentemente in ospedale.
In quell’occasione a controllare i radar non c’era un «Petrov», ma un militare disciplinato e ottuso che riferì ai suoi superiori: un apparecchio,
probabilmente un aereo spia degli Stati Uniti, aveva violato il territorio della madrepatria.
I generali e i politici applicarono le regole.
In pochi minuti il maggiore Gennadij Osipovich che aveva affiancato il jet civile con il suo Sukhoi, ricevette l’ordine di abbattere l’intruso.

«Non dissi alla base che era un Boeing, perché nessuno me lo aveva chiesto», si è giustificato in seguito.

Petrov no. Petrov non era ottuso. I missili impiegano meno di mezz’ora per raggiungere la Russia dagli Usa.
Alcuni minuti servono per controllare che tutti i parametri siano giusti. Poi la comunicazione telefonica a Mosca. L’informazione arriva ai vertici.
Si sveglia il gensek e a quel punto bisogna decidere subito. Militari ed ex agenti del Kgb non sono abituati a mettere in discussione le procedure.

La tensione era altissima, con Reagan che aveva bollato l’Urss come «impero del male» appena sei mesi prima e Andropov che si diceva convinto della volontà di aggressione americana.
A un attacco si sarebbe risposto quasi certamente con una massiccia rappresaglia: decine di missili sovietici lanciati verso gli Stati Uniti.
E Washington avrebbe certamente replicato con il lancio (questa volta vero) delle sue testate nucleari. Per il pianeta sarebbe stata la fine.

Ma Petrov non era ottuso. Al suo posto di controllo a Serpukhov-15, vicino Mosca, arrivò il segnale sempre atteso e tanto temuto:

«Si accese una luce rossa, segno che un missile era partito. Tutti si girarono verso di me, aspettando un ordine. Io ero come paralizzato, dapprincipio. Ci mettemmo subito a controllare l’operatività del sistema, ventinove livelli in tutto».
Pochissimi minuti e si accese un’altra luce, poi un’altra.
«Nessun dubbio, il sistema diceva che erano in corso lanci multipli dalla stessa base», racconta. «Una nostra comunicazione avrebbe dato ai vertici del Paese al massimo 12 minuti. Poi sarebbe stato troppo tardi».

Petrov era sicuro che la segnalazione fosse sbagliata, nonostante tutto.
«Ero un analista, ero certo che si trattasse di un errore, me lo diceva la mia intuizione».

Così comunicò che c’era stato un malfunzionamento del sistema. «I quindici minuti di attesa furono lunghissimi. E se eravamo noi a sbagliare? Ma nessun missile colpì l’Unione Sovietica».

In seguito si chiarì che il sistema era stato ingannato da riflessi di luce sulle nuvole.
Pensava di venir premiato, e invece gli arrivò un richiamo:
se lui aveva ragione, qualcun altro aveva sbagliato a progettare il sistema. E tutto venne insabbiato.

«Quando mi congedai, non mi concessero nemmeno la solita promozione a colonnello», racconta ancora.
Petrov ha ricevuto vari riconoscimenti all’estero, ma nulla in patria. E ancora oggi, a 76 anni, fa la vita di sempre nel palazzo di Fryasino. Nessuno ricorda più l’uomo che ha salvato il mondo.
 
AMSTERDAM – In Olanda si costruisce un tunnel autostradale in un week end.
In Olanda infatti, si lavora anche di notte e sotto la pioggia.
Il video che segue mostra la costruzione di un tunnel lungo 70 metri sull’autostrada A12.

E da noi? Sulla Salerno Reggio Calabria, i lavori di adeguamento sono in corso da decenni.
Renzi lo scorso febbraio aveva annunciato alla stampa estera che il cantiere verrà definitivamente chiuso il 22 dicembre scatenando l’ilarità dei presenti:

“Fatemi fare una pubblicità progresso. Come sembrava impossibile concludere la variante di valico, so che non ci crederete, ma il 22 dicembre inaugureremo la Salerno-Reggio Calabria”.
 
Dopo la sconfitta alle comunali di Torino il sindaco uscente Piero Fassino rivolge un appello a Matteo Renzi:

“Ascolti di più chi fatica e affidi il partito ad un suo vice”.

Un appello, quello a smettere di voler ricoprire sia i panni del premier sia quelli del segretario, già rivolto al presidente del Consiglio da alcuni esponenti del Pd all’indomani del flop alle amministrative.

L’ex sindaco di Torino rivendica di aver “buttato sangue” per la città: “Si parla tanto di meritocrazia, ma nel mio caso è stata negata”, ha detto intervistato da Sebastiano Messina di Repubblica.

Fassino si dice preoccupato:

“Non per me, ma per la città. Cinquestelle ha vinto con una sequenza di no. Ma che progetto ha per Torino? Non lo vedo. E la città rischia di tornare indietro. Avevo capito sin dal primo turno che il ballottaggio sarebbe stato difficile. Perché essendoci 27 elettori su 100, quasi tutti di centro-destra, che avevano per le mani un voto libero, per loro era un’occasione molto ghiotta per estromettere il centrosinistra che ha governato la città dal 1993. Ho fatto il possibile per evitarlo. Al primo turno abbiamo ottenuto la percentuale più alta di una grande città. Poi, certo, se il 95 per cento degli elettori di destra al ballottaggio vota per Cinquestelle, l’esito è scontato”.

E a Messina che fa notare come la sconfitta di Roma fosse stata messa nel conto, dal Pd, ma non quella di Torino, Fassino risponde:

“Perché è giudizio unanime che questa città è stata governata bene. Anche se io, a tutti quelli che mi dicevano “lei non avrà problemi” rispondevo: “Non è vero, perché soffia un vento che non tiene conto di come si è governato”. Le racconterò un aneddoto illuminante. Domenica esco dal seggio, entro in un caffè e una signora mi ferma: “Sindaco, volevo ringraziarla per tutto quello che ha fatto. Grazie a lei Torino è diventata una città bellissima, piena di cose”. Mi aspettavo che concludesse: e quindi l’ho votata. Macché. “Io ho votato la Appendino” mi ha detto. Ma perché? “Perché è bene cambiare”. Quando una ti dice così, cose vuoi ribattere?”.

Ha pesato di più la voglia di dare uno schiaffo a Renzi o quella di votare contro la giunta Fassino?

“Onestamente, io penso che il sentimento contro la giunta Fassino abbia pesato poco. L’Unione europea dice che Torino è la seconda città del continente per l’innovazione. E poi, nonostante la spending review, noi abbiamo garantito tutti i servizi a una città che su tutti i fronti, dall’infanzia agli anziani, ha standard più alti della media nazionale. Ogni anno abbiamo aiutato 25 mila famiglie. E io non so in quante altre città italiane si è chiuso un campo rom di 800 persone, non con le ruspe ma ricollocandole tutte in situazioni abitative diverse o con il rimpatrio assistito: a uno che voleva fare il contadino in Romania abbiamo comprato persino le caprette…”.

Dopo 23 anni di amministrazioni di centrosinistra c’era una parte della città che si sentiva esclusa.

“Io non so cosa voglia dire esclusa. Io in cinque anni non ho fatto una sola nomina che fosse figlia della lottizzazione politica. Le persone sono state prese sulla base di curriculum, competenza ed esperienza. Potrei fare i nomi, uno per uno”.

Quindi non c’era un sistema di potere del Pd?

“Assoutamente no”.

C’è un errore che non rifarebbe, col senno del poi?

“E’ un esercizio che non mi appassiona. Io ho speso ogni energia per questa città. Sedici ore al giorno ogni settimana, ogni mese, ogni anno. Ho buttato il sangue. Ho dato tutto quello che potevo e sapevo. (…) “.

Lei pensa di essere stato travolto da un vento anti-renziano?

“Da un vento anti-politica sicuramente. E questo vento, in tutta Europa, penalizza chi sta al governo, locale o nazionale”.

Renzi l’ha chiamata, dopo il risultato?

“Certo, ci siamo sentiti più volte. Abbiamo fatto una riflessione sul cambiamento del sistema da bipolare a tripolare che innesca dinamiche nuove. Perché se nel ballottaggio il secondo e il terzo si coalizzano, anche senza dichiararlo, il primo soccombe”.

Questo consiglia un ripensamento sul ballottaggio, che è il cuore dell’Italicum?

“E’ una riflessione da fare”.

Ma lei che è stato il segretario dei Ds, e uno dei fondatori del Pd, quale consiglio darebbe oggi a Renzi?

“Non gli consiglierei certo di ridurre la forte tensione all’innovazione che lo spinge, perché l’Italia ha bisogno di un grande cambiamento. Però ci vuole anche una maggiore attenzione a quella sofferenza sociale che nella società c’è. Quando tu hai un pensionato che ha 400 euro al mese, un reddito con cui già non si può vivere, e deve mantenere pure un figlio disoccupato di quaranta o cinquant’anni, devi dargli una risposta. Altrimenti quello va da Grillo”.

Nel Pd c’è chi chiede a Renzi di lasciare ad altri la segreteria. Lei è d’accordo?

“In Europa la guida del governo coincide quasi sempre con quella del partito. Poi, se uno guarda al modello più sperimentato, quello tedesco, vede che c’è un leader – il cancelliere – e poi c’è una figura forte, il numero due del partito a cui è affidata la gestione. Mi sembra un modello ragionevole, è quello dell’Spd. Detto questo, non è il modello organizzativo che risolve i problemi”.
 
Matrimonio a Macerata. Rigorosamente in chiesa.
Tutto si svolge secondo un copione che si ripete immancabilmente identico da centinaia di anni.
In Chiesa ci sono tutti i parenti, il prete e lo sposo. La sposa invece no. E’ in ritardo di qualche minuto.
Si fa attendere e desiderare: tradizione richiede che sia così. Solo che a Macerata succede qualcosa di straordinario. Non è il classico caso della sposa che all’ultimo ci ripensa e pianta il futuro marito sull’altare.

Semplicemente la sposa è in ritardo ma il parroco ha fretta.
E decide di iniziare il rito senza di lei. Raccontano i presenti di un certo (e legittimo) senso di smarrimento.
Si celebrano le nozze e la sposa non c’è.
Non solo: sempre parenti e amici assicurano che il ritardo della sposina è stato assolutamente tollerabile e nella norma: meno di una decina di minuti rispetto all’orario prefissato per l’inizio del rito.

Il parroco, per ragioni che difficilmente sapremo mai, ha però iniziato la cerimonia.
E quando la sposa è arrivata ha dovuto rinunciare alla tradizionale passerella con papà per precipitarsi in chiesa.
 
Dopo la sconfitta alle comunali di Torino il sindaco uscente Piero Fassino rivolge un appello a Matteo Renzi:

“Ascolti di più chi fatica e affidi il partito ad un suo vice”.

Un appello, quello a smettere di voler ricoprire sia i panni del premier sia quelli del segretario, già rivolto al presidente del Consiglio da alcuni esponenti del Pd all’indomani del flop alle amministrative.

L’ex sindaco di Torino rivendica di aver “buttato sangue” per la città: “Si parla tanto di meritocrazia, ma nel mio caso è stata negata”, ha detto intervistato da Sebastiano Messina di Repubblica.

Fassino si dice preoccupato:

“Non per me, ma per la città. Cinquestelle ha vinto con una sequenza di no. Ma che progetto ha per Torino? Non lo vedo. E la città rischia di tornare indietro. Avevo capito sin dal primo turno che il ballottaggio sarebbe stato difficile. Perché essendoci 27 elettori su 100, quasi tutti di centro-destra, che avevano per le mani un voto libero, per loro era un’occasione molto ghiotta per estromettere il centrosinistra che ha governato la città dal 1993. Ho fatto il possibile per evitarlo. Al primo turno abbiamo ottenuto la percentuale più alta di una grande città. Poi, certo, se il 95 per cento degli elettori di destra al ballottaggio vota per Cinquestelle, l’esito è scontato”.

E a Messina che fa notare come la sconfitta di Roma fosse stata messa nel conto, dal Pd, ma non quella di Torino, Fassino risponde:

“Perché è giudizio unanime che questa città è stata governata bene. Anche se io, a tutti quelli che mi dicevano “lei non avrà problemi” rispondevo: “Non è vero, perché soffia un vento che non tiene conto di come si è governato”. Le racconterò un aneddoto illuminante. Domenica esco dal seggio, entro in un caffè e una signora mi ferma: “Sindaco, volevo ringraziarla per tutto quello che ha fatto. Grazie a lei Torino è diventata una città bellissima, piena di cose”. Mi aspettavo che concludesse: e quindi l’ho votata. Macché. “Io ho votato la Appendino” mi ha detto. Ma perché? “Perché è bene cambiare”. Quando una ti dice così, cose vuoi ribattere?”.

Ha pesato di più la voglia di dare uno schiaffo a Renzi o quella di votare contro la giunta Fassino?

“Onestamente, io penso che il sentimento contro la giunta Fassino abbia pesato poco. L’Unione europea dice che Torino è la seconda città del continente per l’innovazione. E poi, nonostante la spending review, noi abbiamo garantito tutti i servizi a una città che su tutti i fronti, dall’infanzia agli anziani, ha standard più alti della media nazionale. Ogni anno abbiamo aiutato 25 mila famiglie. E io non so in quante altre città italiane si è chiuso un campo rom di 800 persone, non con le ruspe ma ricollocandole tutte in situazioni abitative diverse o con il rimpatrio assistito: a uno che voleva fare il contadino in Romania abbiamo comprato persino le caprette…”.

Dopo 23 anni di amministrazioni di centrosinistra c’era una parte della città che si sentiva esclusa.

“Io non so cosa voglia dire esclusa. Io in cinque anni non ho fatto una sola nomina che fosse figlia della lottizzazione politica. Le persone sono state prese sulla base di curriculum, competenza ed esperienza. Potrei fare i nomi, uno per uno”.

Quindi non c’era un sistema di potere del Pd?

“Assoutamente no”.

C’è un errore che non rifarebbe, col senno del poi?

“E’ un esercizio che non mi appassiona. Io ho speso ogni energia per questa città. Sedici ore al giorno ogni settimana, ogni mese, ogni anno. Ho buttato il sangue. Ho dato tutto quello che potevo e sapevo. (…) “.

Lei pensa di essere stato travolto da un vento anti-renziano?

“Da un vento anti-politica sicuramente. E questo vento, in tutta Europa, penalizza chi sta al governo, locale o nazionale”.

Renzi l’ha chiamata, dopo il risultato?

“Certo, ci siamo sentiti più volte. Abbiamo fatto una riflessione sul cambiamento del sistema da bipolare a tripolare che innesca dinamiche nuove. Perché se nel ballottaggio il secondo e il terzo si coalizzano, anche senza dichiararlo, il primo soccombe”.

Questo consiglia un ripensamento sul ballottaggio, che è il cuore dell’Italicum?

“E’ una riflessione da fare”.

Ma lei che è stato il segretario dei Ds, e uno dei fondatori del Pd, quale consiglio darebbe oggi a Renzi?

“Non gli consiglierei certo di ridurre la forte tensione all’innovazione che lo spinge, perché l’Italia ha bisogno di un grande cambiamento. Però ci vuole anche una maggiore attenzione a quella sofferenza sociale che nella società c’è. Quando tu hai un pensionato che ha 400 euro al mese, un reddito con cui già non si può vivere, e deve mantenere pure un figlio disoccupato di quaranta o cinquant’anni, devi dargli una risposta. Altrimenti quello va da Grillo”.

Nel Pd c’è chi chiede a Renzi di lasciare ad altri la segreteria. Lei è d’accordo?

“In Europa la guida del governo coincide quasi sempre con quella del partito. Poi, se uno guarda al modello più sperimentato, quello tedesco, vede che c’è un leader – il cancelliere – e poi c’è una figura forte, il numero due del partito a cui è affidata la gestione. Mi sembra un modello ragionevole, è quello dell’Spd. Detto questo, non è il modello organizzativo che risolve i problemi”.
mi spiace ma fassino non ha capito una mazza della città
al massimo ha seguito solo la minoranza borghese della crocetta, coi suoi musei e nientaltro.
peggio per lui
ora vada alla bocciofila o sul cavalcavia della ferrovia a vedere i treni che passano
 
:d:

ClbB4FMWAAE209j.jpg
 

Users who are viewing this thread

Back
Alto