PRODUZIONE INDUSTRIALE
Fra le principali voci di esportazione sia dell’Italia che della Germania c’è l’industria, vediamo quindi un altro confronto fra questi due paesi.
Prima dell’euro l’Italia andava mediamente meglio della Germania:
negli anni 70-80 la produzione industriale italiana è cresciuta in media del
2,89% annuo mentre quella tedesca dell’
1,97%.
Negli anni 90 la performance italiana non è entusiasmante, eccetto per il “mini-boom” del 1994-95,
qui la Germania in media ha fatto leggermente meglio di noi (1,15% contro il 1,05%).
Ma fu un decennio dove la lira rimase “agganciata” al marco per la maggior parte degli anni (1990-92 e 97-99).
Vediamo ora la sola Italia, ecco la produzione industriale espressa come
numero indice con il 2015 come anno di riferimento.
FONTE: elaborazione su
dati OCSE
Nel 2019 l’indice della produzione industriale
era rimasto ai valori dei primi anni 90.
Benché in passato ci siano state difficoltà, anche in questo caso non ci sono precedenti di una produzione ferma ai livelli di 25-30 anni fa.
Chi ci ha guadagnato?
Lo abbiamo visto prima, è la Germania che così ha potuto riempire l’europa (e non solo) con le sue automobili.
PRODUTTIVITÀ DEL LAVORO
Si definisce produttività del lavoro il semplice rapporto fra
valore aggiunto ed
ore lavorate.
Ecco la serie ricostruita dal 1970, in riferimento al totale delle attività economiche.
Codice valore aggiunto (OVGE), codice ore lavorate (NLHT)
In trent’anni di “liretta” raddoppia, per poi quasi arrestarsi dal 2002.
Le opzioni sono due:
o un’ondata di pigrizia ha colpito il Paese,
oppure anche qui c’è stato un break strutturale.
La tesi secondo cui il problema dell’Italia sarebbe la
produttività (con un clamoroso scambio di causa-effetto),
non può prescindere dall’analisi del percorso che ci ha portato nella moneta unica.
L’argomento della produttività è già stato approfondito in
questo articolo.
RISPARMIO DELLE FAMIGLIE
La ricchezza delle famiglie italiane è storicamente il loro risparmio.
Ecco l’andamento del tasso di risparmio netto dal 1970 al 2019.
FONTE: elaborazione su
dati OCSE
Negli anni 70-80 il risparmio netto variava da un minimo del 18% del 1970 al massimo del 26,1% del 1978.
Dal 1971 fino al 1991 il risparmio non va
mai sotto il 20% del reddito.
Questo vuol dire che, dopo aver speso
tutto quello che dovevano spendere
– inclusa “a rata der mutuo” e il pieno alla 500 – le famiglie italiane erano fra
quelle che risparmiavano di più al mondo,
altro che “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità”.
Dal 1992 inizia una discesa, notevole poi quella nella seconda metà degli anni 90, il motivo?
Il risparmio si crea quando lo stato fa
deficit, se invece lo taglia il risparmio fa la stessa fine.
Dentro l’euro il risparmio tocca il suo minimo storico con il 1,5% del 2012
mentre nel 2019 è risalito un pochino al 2,5%.
Per il 2020 ci si attende, in Italia come negli altri paesi, un forte incremento del risparmio,
per via di mancati consumi ma anche di
politiche a sostegno del reddito per coprire le perdite causate dalle misure anti-covid.
SALDI DI FINANZA PUBBLICA
Anticipato dal punto precedente, parliamo del
bilancio dello Stato.
Nei conti pubblici, la differenza fra il totale delle entrate e il totale delle uscite dà come un saldo che, se negativo, si chiama
deficit (o disavanzo).
Il deficit è una delle scelte più importanti dei policy makers,
perché è semplicemente la
quantità di moneta che ogni anno lo Stato immette nell’economia,
che va parametrata in base al ciclo economico.
In caso di crisi bisogna aumentare il deficit e lo abbiamo fatto negli anni 70 e 80,
dopo la crisi del 1992 invece lo abbiamo invece ridotto (per via degli obblighi di Maastricht) con i risultati che abbiamo visto prima.
Fino al 1979
dati FMI (public finances in modern history), dal 1980
dati Banca d’Italia
Dal 1997, anno in cui fu istituito il
patto di stabilità e crescita (PSC), al 2019 il deficit medio dell’Italia è stato del 2,9%
mentre il limite da rispettare era il 3%: per la serie “essere più realisti del re”.
Vale la pena analizzare pure il
saldo primario cioè la differenza fra il totale delle entrate e la spesa primaria,
quest’ultima rappresenta il totale delle spese eccetto quella per gli interessi pagati sul debito pubblico.
Dal 1992 l’Italia è infatti in avanzo primario, cioè va in deficit solo per pagare gli interessi,
togliendo di fatto soldi dall’economia reale e pompando quella finanziaria.
Unica eccezione il 2009 e vedremo pure il 2020.
INFLAZIONE E SALARI
Ora parliamo di lei, l’
inflazzzione (con 3 zeta) il principale spauracchio per cercare di infangare l’Italia del passato.
FONTE: elaborazione su
dati OCSE
Quante volte abbiamo sentito dire che l’inflazione è la più iniqua delle tasse perché colpisce il
potere d’acquisto della gente?
Questo perché in TV non vi hanno mai fatto vedere la dinamica salariale.
Dall’
Economic Outlook – una pubblicazione semestrale dell’OCSE –
andiamo a prendere fra i dati disponibili “wage rate”, cioè la
retribuzione lorda per occupato dipendente.
Calcoliamo la variazione annua di “
wage rate” e mettiamola in correlazione con la variazione dei prezzi.
Se la retribuzione nominale sale più dell’inflazione il
potere d’acquisto reale aumenta, viceversa diminuisce.
Dati retribuzioni presi da “Economic Outlook 108 (December 2020)”
Nei “cattivi” anni 70 e 80 solo nel 1982 c’è stata una diminuzione del potere d’acquisto,
ma nel complesso la
scala mobile (introdotta nel 75, depotenziata nell’84 e abolita nel 1992) faceva il suo dovere.
Con la soppressione della scala mobile e con il
protocollo 23 luglio 1993 (un accordo fra governo, sindacati e confindustria),
ci fu un’altra perdita del potere d’acquisto, nella particolare condizione in cui
l’inflazione scese ma i salari ancor di più.
Sembra che il nemico numero uno dei salari sia la lotta all’inflazione più che l’inflazione in sé,
dato che anche la crescita dei salari è un fattore che contribuisce alla variazione dei prezzi.
Per non parlare poi dall’austerità, infatti la
peggiore perdita del potere d’acquisto c’è stata nel biennio 2011-12,
una “voragine” che si vede anche ad occhio nudo.
Infine, ecco “wage rate” deflazionato con l’
indice nazionale dei prezzi al consumo,
così l’intera serie è stata portata dai valori nominali a quelli del 2015.
Valori deflazionati con l’indice nazionale dei prezzi al consumo AMECO (codice ZCPIN)
Nel 2019, in termini reali, la perdita del 2011-12 non era ancora stata recuperata,
nemmeno qui non esistono precedenti così gravi.
Abbiamo quindi passato un intero decennio di stagnazione salariale, al quale si aggiungerà l’ulteriore perdita del 2020.
Com’era la storia che “con l’euro lavoreremo un giorno in meno guadagnando come se lavorassimo un giorno in più”?