Schegge di storia militare

Fleursdumal ha scritto:
f4f ha scritto:
grazie
bellissimo

cè aspetto un commento sui libri di Keegan che stai leggendo

sono un lento recensore
come anteprima posso dirti che entrambi hanno il 'bias anglosassone' (cfr. perfida albione)
il primo descrive piacevolmente l'evoluzione della strategia navale tramite 4 battaglie : Trafalgar, Jutland, Midway ( :p ) e Battaglia dell'Atlantico.

a prest
 
La "GUERRA DEL PELOPONNESO"
LA CADUTA DELLA DEMOCRAZIA (413-404 a.C.)


Alcibiade

Possiamo facilmente capire la costernazione degli Ateniesi, allorchè seppero lo sfortunato evento della spedizione Siciliana e la totale rovina sia dell'esercito che dell'armata. Mai prima di allora gli Ateniesi si erano ridotti a una simile condizione; senza denaro, senza esercito, senza una flotta.
Inoltre altre sventure si moltiplicavano. I Greci loro collegati, particolarmente quelli di Eubea, Chio e Lesbo, stanchi di versare ad Atene i contributi per la guerra, pensarono che questa sventura offriva una favorevole opportunità per assicurare la loro indipendenza e quindi scuotersi di dosso il gioco ateniese. Giunsero perfino a supplicare i Lacedemoni affinchè li prendessero sotto la loro protezione.

Ma non è che ad Atene le cose stavano meglio. Il partito oligarchico ritenne giunto il momento opportuno per abbattere gli ordinamenti vigenti. Una serie di uomini fra i più eminenti per cultura intellettuale e per posizione sociale si alleò a questo scopo. A capo di essi erano Antifone, un distinto oratore e giurista, che per odio contro la democrazia si era fino allora tenuto lontano dalla politica; c'era Pisandro, uomo di stato autorevole, che sino a quel momento aveva recitato la parte radicale ed ora invece si scoprì oligarca; poi c'era Teramene, il cui padre Agnone aveva occupato una posizione eminente sotto Pericle come uomo di Stato e come generale e sedeva ancora al governo.

Infine c'era Alcibiade che non si tenne estraneo al movimento. Il famoso Ateniese, da tempo era occupato in malvage trame contro i suoi concittadini per vendicarsi dell'ingiusto trattamento che gli avevano riservato.
Già in altre pagine abbiamo visto che Alcibiade dopo il benservito datogli dagli Ateniesi, era passato al servizio di Sparta. Integratosi perfettamente, perfino nella severa disciplina, aveva fatto di tutto per spingere gli Spartani alla guerra contro la sua città natale; li aveva accompagnati nella spedizione a Chio; ed aveva contribuito in misura assai notevole affinchè la Jonia si ribellasse ad Atene.
Entrato così nelle grazie degli Spartani, questi più nulla facevano se non con la mediazione di Alcibiade. Ma se a una parte degli Spartani questo andava bene, da un'altra parte il suo crescente potere attirò le gelosie, soprattutto di Re Agide e dei principali Efori, i quali temendo di essere esautorati da quel carisma che l'uomo possedeva, oltre l'abilità, si promisero di distruggere il loro avversario.
Alcibiade informato del pericolo, abbandonò il Peloponneso e questa volta trovò rifugio a Sardi, sotto la protezione del Satrapo di Persia Tisaferne.
Anche a Sardi Alcibiade trovò il modo di farsi apprezzare e benvolere, fino al punto che Tisaferne gli rivelò tutti i suoi futuri progetti contro Atene onde cancellare l'onta che i Persiani avevano provato a Maratona e a Salamina.
Dimostrandosi ancora una volta pieno di rancore per la sua vera patria, Alcibiade consigliò Tisaferne di non intervenire direttamente, ma di sostenere la discordia fra Sparta ed Atene, cioè di favorire alternativamente l'una e l'altra in modo da far esaurire le loro forze fino alla reciproca distruzione, per poi farne di una o dell'altra o di entrambe, una facile preda.
Ed infatti, Tisaferne più che usare la forza, impiegò il denaro per fomentare ribellioni ad Atene come a Sparta, e nel farlo bilanciava queste sovvenzioni in modo che una non potesse giungere ad una vittoria netta sull'altra.

Questi complotti non erano sfuggiti al movimento oligarchico di Atene, inoltre l'alta considerazione che Alcibiade godeva presso la corte Persiana, li portarono a pentirsi di aver riservato ad Alcibiade quell'ingrato esilio, e a pensare quanto sarebbe stato utile ora, con una crisi che era tutta a loro favore. Ma anche lo stesso Alcibiade nutriva la segreta speranza di poter tornare ad Atene. In qualche modo, al movimento oligarchico queste intenzioni le fece anche sapere; di voler tornare in patria, promettendo che con la sua influenza avrebbe fatto rompere l'alleanza fra la Persia e Sparta, e procurato ad Atene l'amicizia e l'assistenza di Tisaferne. Ma ad una condizione, che fosse abbattuta la "democrazia degli straccioni" come la chiamava, e stabilissero nuovamente l'aristocrazia.

Ad Atene queste condizioni trovarono grande opposizione ovviamente nelle rappresentanze democratiche popolari, massime fra i nemici di Alcibiade. Ma siccome altra via non c'era per sottrarre la repubblica alla sua totale rovina, il popolo assentì benché contro la propria inclinazione.
A Pisandro che capitanava la flotta e ad altri dieci deputati gli si diede l'incarico per trattare con Alcibiade e Tisaferne. La missione non ebbe però l'esito sperato, anzi fu un fallimento, perchè all'ultimo momento Tisaferne temendo di rendere gli Ateniesi troppo potenti fece -per arrivare a una pace- delle richieste tali (gli Ateniesi dovevano abbandonare tutti i domini della Jonia) che i deputati disgustati misero fine all'incontro. Adirati anche con Alcibiade, che probabilmente aveva promesso più di quanto lui poteva mantenere. Infatti Tisaferne anche se si fidava poco dei Peloponnesi, non voleva rompere con loro, in quanto avevano nelle proprie mani l'intera costa della sua satrapia.

Mentre questo accadeva a Sardi, ad Atene, Androcle ed altri capi del partito radicale erano stati tolti di mezzo con i pugnali di alcuni sicari. Il popolo ne rimase terrorizzato e quindi, magrado l'insuccesso delle trattative con la Persia, si potè procedere alla riforma della costituzione.
Seguendo quella linea che aveva proposta Alcibiade, fu abolito il governo popolare e prese le redini l'aristocrazia. Tutte le magistrature furono abbandonate nella mani di quattrocento persone rivestite di potere assoluto.
La cronaca di questi giorni sono diverse: Robertson (in "Istoria dell'Antica Grecia") riporta che questi tiranni manifestarono subito la loro tirannia. Entrarono in Senato circondati da guardie e armati di pugnali, disciolsero il vecchio governo popolare, poi iniziarono la loro amministrazione con una serie di sentenza di esilio, di proscrizioni, di avvelenamenti di tutti coloro dai quali prevedevano opposizione.
J. Beloch (In Storia Universale) invece narra che fu fatto tutto per le vie legali, che una deliberazione dell'assemblea popolare abolì la democrazia e vi sostituì a titolo di governo provvisorio un consiglio di 400 membri, che vennero nominati dai capi del movimento politico, con l'incarico di elaborare la nuova costituzione; era stabilito che d'ora innanzi il godimento dei diritti politici si sarebbe limitato ai 5000 cittadini più ricchi e che nessuno avrebbe ricevuto stipendio per la gestione di cariche pubbliche.

Da entrambi i due autori però sappiamo che l'esercito allora accampato a Samo, si sdegnò così tanto di ciò che era avvenuto ad Atene, che la massima parte dei soldati (di estrazione popolare) rifiutarono obbendienza agli ufficiali (sospetti di essere legati all'aristocrazia e conniventi al colpo di stato), ed elessero nuovi capi (Trasilo e Trasibulo) al loro posto, e proposero il comando supremo ad Alcibiade, nella giusta convinzione che egli solo era l'uomo capace di salvare lo Stato nella crisi che attualmente attraversava.
Alcibiade accettò l'incarico, poi mettendosi alla testa delle truppe avanzò fino a Mileto per presentarsi nella sua nuova dignità a Tisaferne, e tornando ad essere orgoglioso di essere Ateniese, mostrò al Satrapo persiano che il potere dei suoi concittadini era tornato ad essere nuovamente formidabile.

Poi tornò a Samo; vi trovò messaggeri inviati dai quattrocento di Atene. I soldati non solo insistettero di non riceverli, ma proposero ad Alcibiade di marciare su Atene per sbarazzarsi subito dei tiranni.
Alcibiade tornò ad essere un grande stratega e un grande politico. Primo: considerò che partendo da Samo avrebbe lasciato sguarnita la Jonia incapace di difendersi dai probabili assalti del nemico. Secondo: temeva che la sua comparsa ad Atene avrebbe potuto provocare una guerra civile, nella quale i suoi concittadini avrebbero esaurito le proprie forze uno contro l'altro, facendo così il gioco dell'aristocrazia più insolente.
E a proposito di questa, dichiarò (proprio lui che l'aveva proposta come condizione per tornare ad Atene) che era necessario abolirla e di nuovo ristabilire il Senato.
Queste sagge decisioni valsero ad ottenere che i soldati rinunziassero di muovere contro il Pireo sotto la sua guida.

Ma intanto ad Atene la rivolta militare di Samo, e la notizia che Alcibiade era stato dai soldati nominato comandante supremo dell'esercito ateniese, aveva profondamente scossa l'autorità del nuovo dispotico governo. L'unico mezzo per quest'ultimo di mantenersi al potere era di venire ad una pronta intesa con Sparta, ed Antifone (il capo del movimento oligarchico che aveva preso il potere) era pronto a pagarla a qualsiasi prezzo, sia pure occorrendo a sacrificarle l'indipendenza dello Stato.
Ma quando già si preparava a consegnare il Pireo in mano alla flotta Spartana, si vide abbandonato dai suoi seguaci, gli opliti cominciarono ad ammutinarsi e soltanto la promessa del governo di pubblicare la lista dei 5000 cittadini di pieno diritto e far eleggere da essi un nuovo collegio di magistrati governanti potè impedire lo scoppio della guerra civile.

I nemici di Atene nel frattempo non erano rimasti a guardare; i Lacedomi (alleati di Sparta) approfittando della grave crisi all'interno e all'esterno di Atene, fecero avanzare una loro flotta fino all'Ubea, e qui essa si scontrò con una armata inviata dai quattrocento. Questa si fece incontro ai Lacedomi dinanzi a Eretria ma rimase sconfitta con gravi perdite. Ad Atene si cadde nella più gran costernazione, per la semplice ragione che l'Ubea somministrava la maggior parte delle vettovaglie. Questo grave colpo rovinò del tutto il governo oligarchico. La maggior parte vista l'aria che tirava fuggì da Atene, riparando presso gli Spartani. Antifone non si mosse, preferì il giudizio, che fu severo, fu condannato e mandato al supplizio.
A capo dello stato salì Teramene, che pur avendo capitanato l'opposizione, e provocato la caduta dell'oligarchia, rimase pur sempre sospetto ai democratici avendo un passato pure lui oligarchico.

Ma anche il fato andò incontro ad Atene: I Lacedomi pur conquistando l'isola, si attardarono a mandare rinforzi; inoltre essendoci ora - come abbiamo visto sopra- al comando supremo Alcibiade - per nulla impressionati della disfatta di Eretria, allestì tre potenti armate: le prime due con due validi comandanti, Trasilo e Tarsibulo, che misero in fuga i rinforzi Lacedomi; l'altra - bramoso di fare prima del suo ritorno ad Atene qualche luminosa azione - guidata dallo stesso Alcibiade, fece vela verso Coo e Gnido. Poi informato che una delle flotte stava per incrociare i Peloponnesiaci nelle vicinanze di Abido (autunno 411 a.C.) si precipitò in soccorso, piombò in piena battaglia, e pur avendo diciotto velieri, fece strage di navi, di soldati, catturò trenta navi nemiche, e si guadagnò la gloria che cercava.
L'anno successivo (primavera 410 a.C.) colse un'altra vittoria strepitosa a Cizico contro i Peloponnesi.
Pur avendo riunita la flotta che contava ormai 80 navi, con 40 di queste, mentre il cielo e il mare era plumbeo e i tuoni accompagnavano scrosci di pioggia, facendosi seguire ai lati dalle altre 40 navi, affrontò subito frontalmente quelle spartane guidate da Mindaro. Questi vedendo così poche navi davanti a se, si schierò a battaglia, ma quando avvicinandosi attaccò, ai suoi due lati piombarono le due flotte di 20 navi ciascuna; ne fecero strage, e lo stesso Mindaro fu ucciso da Alcibiade.
E mentre lui coglieva questi successi, Trasilo in Attica piombava sulla retroguardia e distruggeva l'esercito spartano che era stato condotto quasi fino alle mura di Atene dal loro re Agido.

In seguito a tale disfatta, Sparta si decise di trattare: essa offrì la pace sulla base dello stato attuale delle cose, tali che avrebbe conservato ad Atene più della metà dei suoi antichi domini.
Ma in Atene all'annunzio della vittoria, la costituzione temperata introdotta da Teramene era staya abbattuta ed era stata ripristinata la democrazia illimitata; e il fabbricante di strumenti musicali Cleofone, che ora portava la battuta all'assemblea popolare, non volle saperne di pace a meno che essa non ricostituisse pienamente il dominio ateniese. Perciò la guerra continuò. Fu compiuto l'anno seguente (409 a. C.) il tentativo di riconquistare la Jonia; ma nell'attacco portato contro Efeso gli Ateniesi subirono una grave disfatta. E invece di guadagnare dei territori li perse, e nello stesso periodo Atene perdè pure Pilo e Nisea che andarono nelle mani dei Peloponnesi.
Andò meglio invece l'anno dopo (408 d.C.) ad Alcibiade, che proseguendo la sua azione, con luminose gesta ricondusse all'obbedienza le città dell'Ellesponto; gli Ateniesi tornarono ad esserne i padroni di quelle contrade, ristabilendo il predominio marittimo di Atene.
A questo punto nei primi mesi del 407 d.C. Alcibiade decise di far vela verso il Pireo; non solo bramava di sperimentare la gratitudine del suo paese, ma ritenne che era venuto il momento di ritornare ad Atene per prendere lui nelle proprie mani le redini del governo. Era quello che aspettava da anni.
Il giorno del suo arrivo fu il più glorioso della sua vita. Tutto il popolo di Atene uscì fuori ad incontrarlo per condurlo in trionfo in città. Entrando nel porto tutte le navi della sua armata erano agghindate a festa con le spoglie del nemico, seguivano poi un gran numero di navi spartane catturate che ora portavano sul pennone le insegne di Atene.
Alcibiade sbarcò fra le ripetute acclamazioni dei cittadini, e gli antichi amici gli si affollavano intorno trattandolo come una Deità. Cinto dell'aureola della vittoria, entrando in città, l'accoglienza fu un bagno di folla che purificò la maledizione religiosa che ancora gli gravava sopra per il sacrilegio compiuto contro i misteri. Infine, il popolo (anche se parte dei cittadini la consideravano una follia) lo elesse a stratega supremo per mare e per terra con poteri illimitati, gli decretarono una corona d'oro a titolo di riparazione per il cattivo trattamento che prima aveva ricevuto, e gli resero i suoi beni.

Per dissipare i sospetti di essere antireligioso, Alcibiade volle celebrare anche i misteri Eleusini. Ma da alcuni anni gli Ateniesi erano costretti a condurre questa processione per mare, perché le principali strade presso Eleusi erano in mano ai Lacedomi. Alcibiade volle svolgerla nella consueta maniera, cioè dalla terra e, con tale determinazione, pose le sue truppe lungo i lati del cammino, pronte a respingere ogni eventuale assalto del nemico. La processione si svolse con grande ordine per tutta la strada fino ad Eleusi; si celebrarono i riti con grande solennità e tornarono indietro senza alcun inconveniente. Anche quest'azione fu considerata una grande impresa e l'entusiasmo del popolo Ateniese salì alle stelle, fino al punto che molti volevano incoronare Alcibiade re.

Molti dei cittadini primari, con questo clima euforico della folla, sempre pronta ad esaltarsi, si aspettavano che Alcibiade sarebbe andato anche più in là, e che abbattuta la democrazia, si sarebbe reso padrone assoluto dello Stato. Ma Alcibiade non osò fare questo passo, si mantenne nei limiti legali nei successivi quattro mesi che rimase ad Atene. I primari temendo che prima o poi si pronunciasse in tal senso, non vedevano l'ora di farlo ripartire com'era sua intenzione, accordandogli quanto desiderava. Avuta a disposizione una flotta di cento navi, Alcibiade fece vela verso la Jonia, l'unica provincia che non si era riusciti a sottomettere.

Nella Jonia la situazione nel corso di questi tre anni era però alquanto cambiata ed era assai sfavorevole ad Atene. I Peloponnesi, dopo la sonfitta di Cizico, avevano avuto tutto tempo di creare una nuova flotta, e soprattutto avevano trovato nel loro nuovo ammiraglio, l'uomo adatto a comandare questa flotta.
Era costui LISANDRO; pur di nobile nascita, nondimeno era stato educato con tutto il rigore alla disciplina spartana. Era bravo, accorto, intelligente, ma era anche molto ambizioso e per raggiungere i suoi scopi avrebbe sacrificato ogni cosa, ogni piacere.
Anche i rapporti degli Joni con i Persiani erano diventati migliori di prima. Questo perchè Tisaferne nella Satrapia di Sardi era stato affiancato da Ciro, il secondogenito di Dario, giovane anche lui ambizioso, che nutriva in animo il disegno di soppiantare suo fratello maggiore (il futuro Artaserse) e insediarsi sul trono egli stesso.
Con questo progetto, non trovò di meglio che cercare un sostegno con gli Spartani, ed entrò immediatamente in contatto con Lisandro, accordandogli copiosissimi aiuti in denaro, che Lisandro accettò volentieri per aumentare di quattro oboli al giorno gli stipendi dei suoi marinai. Lui con quelle forti somme, sollevato da preoccupazioni finanziarie per molto tempo, e decisamente più motivati i suoi uomini, le due cose insieme contribuirono fortemente all'indebolimento dell'armata Ateniese.
Tuttavia, Liasandro non ingaggiò subito battaglia con un uomo del valore di Alcibiade. Pertanto le due flotte stettero per un po di tempo una di fronte l'una all'altra inoperose, i Peloponnesi all'àncora nel porto di Efeso e gli Ateniesi nel vicino porto di Notion.

Purtroppo accadde l'irreparabile nella primavera del 406 a.C. Essendosi Alcibiade per alcuni giorni allontanato dalla flotta, pur avendo dato ordine al suo sostituto Antioco di non ingaggiare battaglia, costui bramoso di dimostrare il suo coraggio fece vela con due galere nel porto di Efeso a sfidare il nemico. Affrontato dalle navi ben posizionate nel porto da Lisandro, non solo lui fu catturato, ma per toglierlo dal pasticcio che aveva combinato, altre 15 galere corsero in suo aiuto. Ma strette al centro, dai lati della flotta nemica, furono tutte catturate.

Le conseguenze non furono solo di carattere militare, ma politiche. Al suo ritorno, nell'udire Alcibiade questo disastro non è che si perse d'animo. Radunò tutte le navi davanti a Samo pronto ad ingaggiare battaglia con Lisandro. Che però pago del suo successo a Efeso, ritenne opportuno evitare.
Ma la notizia del disastro a Efeso e lo smacco a Samo, giunse ad Atene, e i nemici di Alcibiade riacquistarono il sopravvento. Giunsero perfino a dire che la disfatta di Antioco era da amputarsi alla negligenza di Alcibiade; e qualcuno ancora più malizioso, affermò che bisognava fortemente dubitare della sua fedeltà, vista la precedente connivenza con Spartani prima e Persiani poi. L'ingrato e capriccioso (ignorante) popolo - come al solito- prestò fede a queste insinuazioni.
Erano in quel momento ad Atene imminenti le elezioni, i suoi avversari riuscirono a far sì che Alcibiade non venisse eletto. E ciò equivaleva a una vera e propria immeritata deposizione. Da parte sua Alcibiade, sdegnato, depose immediatamente la sua carica e, con quell'aria pesante che tirava, prima che accadesse qualcosa di simile alle sue due precedenti esperienze se ne partì per un volontario esilio in uno dei suoi castelli in Tracia.
Al comando della flotta ateniese fu scelto CONONE. Un inetto come vedremo in seguito.

Ma anche presso gli Spartani, il proprio ammiraglio cadde nella disgrazia dell'ingratitudine. La costituzione spartana non consentiva una rielezione, e Lisandro (che nel frattempo per compiere il suo personale ambizioso progetto si era dato molto da fare nel mettere nella mani dei suoi amici il potere delle città soggiogate) fu sostituito da Callicratida, uno spartano di stampo antico, militare tutto d'un pezzo, senza stravaganze, che invece di restare in attesa davanti al nemico, preferiva imporre alla guerra un indirizzo del tutto diverso da quello praticato da Lisandro; lui era un uomo d'azione, e la sua strategia era molto semplice: attaccare sempre, infliggere al nemico incessanti e rapidi colpi, non dargli tregua.

Lisandro vedendolo arrivare, non nascose la sua gelosia, e si comportò nella più bassa e immaginabile maniera. Prima di lasciare il comando al suo successore, rimandò a Sardi tutto il denaro che aveva ricevuto dal Satrapo persiano per aumentare gli stipendi alle truppe; poi rivolgendosi a Callicatrida, gli disse che se desiderava denaro doveva prima andare a inginocchiarsi e adulare il gran Re persiano.
Per il nuovo comandante fu dura doversi abbassare a quelli che considerava barbari, ma con gran senso pratico, o costretto dalle necessità, ad elemosinare alla corte persiana ci andò per davvero. Ma ora con uno, ora con un altro pretesto non riuscì a ottenere udienza da Ciro. Sdegnato se ne tornò a casa.
Con il concorso di contingenti di navi fatte venire da Chio portò ugualmente la flotta a 140 unità. Poi attaccò Lesbo e con un primo assalto prese immediatamente Metimma; Conone, accorso in aiuto dell'isola con 70 navi; non subì una vera e propria rovinosa sconfitta, ma fu bloccato nel porto di Mitilene. Se non giungeva pronto aiuto, la flotta ateniese di Conone era perduta.
Infatti ad Atene compresero subito il pericolo. Vennero allestite tutte le navi che si trovavano ancora disponibili nel Pireo, si caricarono di ogni uomo disponibile, compresi gli schiavi che vennero liberati, e furono richiamate tutte le squadre che si trovavano sparse nell'Egeo e aggiungendo le 40 navi dislocate a Samo, in tal modo si riuscì a formare una flotta di 150 navi e far vela verso Mitilene per liberare le altre 70 navi di Conone.

Callicratida con la sua solita strategia di voler sempre attaccare, anche incautamente, fidandosi solo del suo coraggio, con a disposizione 120 navi non attese quelle ateniesi nelle proprie acque, ma mosse incontro al nemico preso le isole Arginuse. Allo stretto che separa Lesbo dal continente si venne a battaglia.
Fra gli Ateniese si distinse Pericle, figlio e omonimo del più famoso ateniese. Con il rostro della sua nave colpì proprio la nave di Callicratida. Immobilizzata l'ammiraglia, caduto nella lotta il comandante, le altre navi senza più una guida precipitarono ben presto nella confusione, 70 velieri furono affondati, altri si diedero alla fuga, i rimanenti furono catturati. Fu un tracollo totale per Sparta.
Ma gli uomini di Callicratida prima della disfatta si erano non solo difesi eroicamente, ma avevano inflitto numerose perdite agli Ateniesi. Di navi loro ne avevano affondate 25, e questo mentre durante la battaglia si era alzata una tempesta che impedì agli Ateniesi di salvare gli equipaggi naufraghi, che per la massima parte trovarono la morte nelle onde limacciose "proprio a causa della tempesta, che impediva di soccorrerli". Così almeno dissero al ritorno ad Atene gli ammiragli vittoriosi, mentre invece alcuni marinai superstiti li accusarono di non aver fatto il possibile per salvare i loro compagni afferrati alle carcasse delle navi distrutte. Furono così chiamati i responsabili sul banco degli imputati prima davanti al Senato (che se ne lavò le mani) poi davanti a un'assemblea popolare per rendere conto davanti agli Ateniesi quello che fu considerato un delittuoso operato. Dopo un procedimento tumultuoso sei di essi su dieci vennero condannati a morte (compreso il figlio di Pericle, che in un certo senso era stato - mandando in fondo al mare l'ammiraglia e lo stesso Callicratida - l'artefice del successo).

A difendere gli accusati fu chiamato il famoso Socrate. La sua accorata tesi difensiva fu quella che "i generali a causa della tempesta, non mettendo a repentaglio gli equipaggi delle proprie navi, avevano adempiuto al proprio dovere come comandanti delle navi stesse. Inoltre, era la più manifesta e crudele ingiustizia il porre a morte uomini che si erano esposti con tanta gloria e buon successo in difesa della patria".
Purtroppo gli accusatori avevano infiammato il popolo, e il popolo ingrato, istigato da una pietosa demagogia ("i poveri resti dei nostri fratelli che non hanno potuto avere l'onorata sepoltura giacciono in fondo al mare") furono spietati. Quale irragionevole ingrato popolo!
Platone colse da questo evento occasione per sostenere che "la plebaglia è un incostante, ingrato, crudele e geloso mostro, assolutamente incapace di essere guidato dalla ragione; e un tale sentimento è confermato dalla universale esperienza di tutte le età e di tutte le nazioni".
E non aveva visto i successivi duemila anni !!!

Paradossalmente ci furono elogi postumi per l'ammiraglio nemico. Plutarco in seguito, pur facendo gli encomi al coraggioso Callicratida come uomo, lo biasimò come comandante per avere incautamente ingaggiato battaglia dove non doveva ingaggiarla. "Pericoloso - scrisse- per un generale condottiero abbandonarsi all'impeto del proprio coraggio. Nel farlo non pone a rischio soltanto la propria vita, ma quella di tutti coloro che sono al suo comando".
Anche Cicerone era di questo parere: condanna coloro che "...per una falsa opinione della propria gloria, o per salvare la propria reputazione, mettono a rischio i propri uomini e la propria patria."
Infatti sembra che Callicratida, prima della impulsiva e sciagurata decisione, fosse stato consigliato di schivare la battaglia al largo. L'ammiraglio spartano rispose al saggio consiglio dicendo che "Sparta poteva allestire un'altra flotta nel caso questa fosse stata distrutta; ma che la sua fuga lo avrebbe oppresso di eterna vergogna". Pensò più al suo onore che non a quello della Patria.

Nonostante questo infausto dibattito che si concluse con la morte dei responsabili, non passò in secondo piano la vittoria che gli stessi imputati avevano clamorosamente ottenuta, che non solo avevano vinto e poi liberato la flotta di Conone a Mitilene, ma anche la supremazia degli Ateniesi sul mare con quella clamorosa vittoria era stata restaurata.
Inoltre Sparta, uscita distrutta dallo scontro, offrì ancora una volta la pace, ma gli Ateniesi, convinti ora più che mai della propria invincibilità sul mare (pur avendo mandato a morte gli artefici di quel successo), respinsero le proposte. A Sparta ne approfittarono i seguaci di Lisandro, che chiesero agli Efori e al re di metterlo nuovamente a capo della flotta.
Il rancore e le ambizioni di quest'uomo non erano per nulla cessate, e nemmeno gli intrighi per raggiungere i suoi personali scopi. Nuovamente a capo della flotta, si rimise subito in contatto con il persiano Ciro, per ottenere come in passato, sovvenzioni in denaro. Con questo allestì una nuova potente flotta, 180 navi, e nell'estate del 405 riprese l'offensiva veleggiando verso l'Ellesponto; assediò Lamsaco, la prese di assalto e l'abbandonò al saccheggio.

Gli ateniesi con un po' di ritardo si mossero pure loro con 180 navi. Ma si mossero incautamente, e altrettanto incautamente Conone scelse il luogo per mettere all'ancora le navi: su una inospitale costa senza porto e città dove in caso di necessità poter ritirarsi. Iniziale fortuna per i Greci che Lisandro non voleva ingaggiare subito la battaglia. Però si era egregiamente organizzato qualora gli Ateniesi avessero deciso di attaccare. E si era anche organizzato per fare un attacco di sorpresa appena si sarebbe presentata l'occasione buona.
Resi fiduciosi dall'esitazione del nemico, gli ateniesi alla fonda per quattro giorni trascuravano servizi di guardia, scendevano a terra, gozzovigliavano allegramente notte e giorno.
A salvarli da una potenziale precaria situazione, si offrì ancora una volta Alcibiade, che trovandosi da quelle parti, incontratosi con i comandanti ateniesi, da buon stratega qual'era, espose il grave pericolo in cui si trovavano se rimanevano in quel posto. Si offerse di cooperare piombando sul nemico dalla parte di terra con un esercito trace al suo comando. Ma i generali ateniesi, o per boria o per gelosia, sicuri di sè non accettarono nè l'aiuto nè i saggi consigli di abbandonare quel luogo infame.

Con la solita negligente maniera, soldati e marinai, inoperosi da giorni, seguitarono ad abbandonare le navi per scendere a terra a gozzovigliare. Funzionando bene i suoi informatori, per Lisandro l'atteso momento per attaccare di sorpresa era arrivato. Con lui al comando la grande flotta spartana si mosse, attraversò l'angusto stretto per poi piombare come un falco sulle navi quasi vuote. Conone su una di queste, scoprendo che il nemico si avvicinava, si agitò e gridò verso terra come un ossesso per richiamare gli uomini di salire a bordo. Ma i soldati essendo sparsi sulla costa non poterono obbedire. Sentendosi impotente, Conone con poco più di una decina di navi che avevano ancora un misero equipaggio a bordo, vista la critica situazione decise di salvarsi con la fuga, facendo vela per Cipro presso il suo amico Euagora, re di Salamina.
(Una nota su questo inetto Conone. - Dopo la figuraccia a Mitilene (con il blocco delle sue 70 navi), e dopo quest'altra disfatta a Egospotami, Conone non osò più comparire dinanzi agli occhi dei suoi concittadini. Alla fine il suo amico Euagora gli trovò un posto presso i persiani, dove Farnabazo gli diede il comando di una flotta).

La flotta di Lisandro, come detto, piombata all'improvviso in quelle acque, catturò l'intera flotta, circa 170 navi, quasi senza colpo ferire. Molti Ateniesi a terra si diedero alla fuga sulla inospitale terra, ma 3000 di loro compresi tre comandanti furono circondati catturati, poi trucidati tutti spietatamente a sangue freddo.
Con la massima facilità, ormai incontrastato, proseguendo l'azione, Lisandro occupò tutte le piazze che sull'Ellesponto, nella Tracia e nelle isole erano occupate dagli Ateniesi, che si arresero senza resistenza al vincitore.

Giunti a questo punto, la sanguinosa guerra che era durata ventisette anni, era ormai decisa.

Atene non aveva più una flotta, nè aveva i mezzi necessari per metterne in piedi un'altra. Inoltre Lisandro terminato il lavoro a nord, comparve minaccioso con la sua forza navale davanti al Pireo, mentre l'esercito del Peloponneso guidati dai due re di sparta Agide e Pausania, circondava la città di Atene dalla parte di terra.
La città non poteva sperare soccorso da alcun lato; ma i capi radicali - che la plebe seguiva ciecamente e irrazionalmente - non volevano sentir parlare di resa, anche perchè loro sapevano che voleva dire che era finita. O forse qualcuno voleva proprio questo. Così gli Ateniesi si ressero per tutto l'inverno con accanto due uniche compagne: la fame e la disperazione. Ma trovarono il tempo di riversare la loro rabbia e mandare a morte Cleofone, la cui politica di guerra a oltranza, aveva attirato su Atene tutte queste sciagure.

Intanto a Sparta gli Efori decidevano il destino degli Ateniesi e della stessa Atene; i più esaltati dalla vittoria ne volevano la distruzione totale, e Tebe e Corinto erano della stessa opinione. Quasi inutile fu l'invio a Sparta di due ambasciate Ateniesi guidati da Teramene. La condanna per Atene, sempre seguendo l'opinione della plebaglia spartana, doveva essere la sua totale distruzione. La nuova generazione, che nei 27 anni era cresciuta nella sanguinosa guerra, fin dalla loro culla gli avevano insegnato a coltivare questo sogno: di vedere rasa al suolo la città rivale.

A quel punto fu Lisandro ad opporsi, e radunata la classe più saggia, dichiarò che "sarebbe stata un'infamia estinguere uno degli occhi della Grecia". Per quanto fosse spartano, Lisandro insomma riconosceva la grandezza e la magnificenza di Atene.
Si giunse così con la sua saggia moderazione a preparare un trattato di pace, che anche se dettava severe condizioni, Atene riuscì a conservare una propria modesta autonomia e il possesso del territorio attico con Salamina. Dovette però rinunciare a tutti i suoi possedimenti esterni, abbattere le lunghe muraglie e le fortificazioni del Pireo, consegnare le sue navi da guerra, infine entrare a far parte della confederazione spartana.
Gli Ateniesi che da mesi stavano morendo di fame, furono costretti ad accettare tutte le dure condizioni.
Lisandro nell'aprile del 404 a.C., entrando da trionfatore nel Pireo, coronò la sua nota ambizione nel vedere smantellare le fortificazione del Pireo, che fu fatta fra il suono dei vari strumenti musicali. Per gli Spartani una festa, per gli Ateniese una marcia funebre.

Così finì la guerra Peloponnesiaca.

La sola Samo resistette invano ancora per qualche mese; poi Lisandro la tenne bloccata alcuni mesi fin quando si arrese. Tutte le altre piccole o grandi città e le isole, informate del fato di Atene, volontariamente aprirono le porte e i porti ai vincitori

Atene prostrata, ridotta a una così misera condizione mai provata da quando essa esisteva, non potendo reagire, si abbandonò alla discrezione dei propri nemici. Più nulla di peggio poteva ormai accadere.
Tuttavia una gran parte delle classi abbienti e principalmente gli esiliati reduci precipitatisi in patria, guidati da Trisibulo, credevano giunto il momento di abolire la democrazia dominante; ma essi non erano abbastanza forti per riuscire a compiere in contrasto col popolo il mutamento di costituzione. Invitarono quindi Lisandro ad intervenire, convinti che avrebbero ricevuto dei benefici e le nuove cariche di un governo oligarchico.

Lisandro dopo l'appello ad Atene giunse, ma maneggiò ogni cosa a piacer suo. Obbligò la città ad abolire la democrazia, ma stabilì trenta suoi Arconti, con l'incarico di elaborare la nuova costituzione; uomini interamente devoti ai suoi interessi perchè gran parte erano sue proprie creature. (Dagli storici sono stati distinti giustamente col nome "dei trenta Tiranni").

Lisandro acquisita una specie di sovranità su tutte le città, al colmo della sua gloria, pensò di ritornarsene a Sparta a godersi i frutti del successo. Si fece precedere da Gilippo con tutto l'oro e l'argento da lui raccolto nelle sue imprese. Ma si narra che Gilippo avido e venale nell'assolvere questo compito, lungo il tragitto, aprendo i preziosi sacchi asportò quasi un quinto dell'intero contenuto. Scoperta la sua slealtà, per evitare il cartigo e una severa pena, ebbe comunque il tempo per fuggire. Ma Sparta venuta a sapere che si voleva introdurre in città quei metalli (dai tempi di Licurgo banditi), biasimò altamente Lisandro perchè introduceva ciò che era sempre divenuto il veleno e la corruttela degli Stati e del genere umano. Gli Efori ordinarono che i metalli rimanessero fuori dalla città, ribadendo che l'unica moneta in metallo che doveva circolare a Sparta era quella solita, di ferro. I due preziosi metalli non furono banditi, perchè gli amici di Lisandro si opposero; tuttavia dopo averli requisiti, finirono nel pubblico tesoro per essere solennemente in futuro impiegato solo dallo Stato.

Lisandro invece di godersi il suo tesoro, rientrato in patria, dovette accontentarsi solo delle adulazioni; gli eressero anche degli altari e dei monumenti; e vanitoso com'era ordinò che le sue statue dovevano essere fatte non in pietra ma fuse in rame. Conoscendo la sua vanità, i migliori poeti non si risparmiarono nel servilismo, ed usarono tutto il proprio talento per celebrare le sue lodi.

Ma se a Sparta si celebravano i successi - con gli spartani che finita così la guerra ora erano divenuti il primo popolo della Grecia - per Atene iniziava il giogo spartano; che riuscì a scrollarsi di dosso solo dopo trent'anni. Tali furono i tempi di reazione.
 
Uranio Usa
o U-234
e U-235
tedesco?

di M. Saba

Tra i risultati di una ricerca condotta sulla storia dell'uranio, per la parte recente sull'uranio impoverito per conto dell'Osservatorio Etico Ambientale, vi è sicuramente un risvolto molto interessante che riguarda proprio l'inizio del progetto Manhattan.

Nel 1945 gli USA bombardarono il Giappone con due bombe atomiche, dopo aver effettuato la prima esplosione ad Alamogordo nel New Mexico (16 luglio 1945 - attenzione alla data!).

Quello che i nostri lettori forse non sanno è da dove arrivava l'uranio utilizzato per queste ultime due esplosioni, Hiroshima (6 agosto 1945) e Nagasaki (9 agosto 1945). Intanto occorre precisare che si lanciarono due bombe sul Giappone, invece di una, per dimostrare che la prima non era l'unica e ultima bomba atomica posseduta dagli USA.

E poi, e questa è la rivelazione, bisogna sapere che alcuni componenti fondamentali delle due bombe arrivarono dalla... Germania, da un carico che si vuole in origine destinato ad uno scambio di materiali bellici tra Hitler ed Hirohito, l'imperatore del Giappone. La versione comunemente accreditata dice che le prime tre bombe atomiche vennero prodotte dagli USA con un costo di due miliardi di dollari e cinque anni di lavoro di un'armata di scienziati di alto livello, con l'aiuto della Gran Bretagna. E' vero che gli USA avevano avuto successo nell'arricchimento dell'uranio - il componente principale della bomba atomica - ma le prove scoperte indicano chiaramente che a causa della fretta e dei ritardi tecnologici, solo grazie alla sorprendente opportunità di poter ottenere dalla Germania i componenti necessari, che erano scarsi negli USA, fu possibile per il Progetto Manhattan di completare le sue bombe in tempo per il bombardamento sul Giappone previsto per la fine dell'agosto 1945.

Quello che scioccherà il lettore sarà lo scoprire che questi materiali non vennero catturati durante una fortunata azione di guerra, bensì erano una contropartita di una transazione segreta tra la Germania e gli USA: l'accordo prevedeva che i nazisti ricevessero una garanzia d'impunità, ancorché vivendo nascosti per decenni dopo la fine della seconda guerra mondiale, dopo essere fuggiti dall'Europa. Vi sono documenti degli Archivi di Stato degli USA a dimostrazione di questa tesi che gettano luce anche sulla politica di alcuni presidenti statunitensi nei decenni successivi all'armistizio. Si tratta proprio di effettuare una revisione storica di enorme portata, alla luce dei dati e dei documenti acquisiti, che chiarirà molti aspetti altrimenti destinati a rimanere oscuri.

Tra questi documenti vi è la lista dei materiali immagazzinati all'interno del sommergibile tedesco (Unterseeboot) U-234 XB, tra i quali troviamo 560 kg di ossido di uranio in dieci contenitori ed altre tecnologie belliche naziste che all'epoca erano allo stato dell'arte. Ad esempio, due aerei jet da caccia Messerschmidt 262 completamente smontati (il Messerschmidt fu il primo aviogetto e venne utilizzato durante la seconda guerra mondiale). Inoltre vi erano i silenziosi siluri a propulsione elettrica e vari progetti tra cui quelli per costruire i temuti missili V-2 a propulsione chimica ed i proiettili all'uranio impoverito destinati alla difesa contraerea. Un Messerchmidt 262 Schwalbe.
Le casse contenenti i caccia Me262 vennero trasferite presso la base aerea di Wright Field, Dayton (Ohio), dove l'ingegnere Bingewald provvide a ricostruirne un esemplare che, a quanto pare, volò nel maggio/giugno 1945. In seguito Bringewald diventerà il direttore del progetto per la costruzione del nuovo caccia a reazione F-105 Thunderchief (primo volo il 22/10/1955) ed era semplicemente l'evoluzione di un precedente (ma riuscitissimo) caccia: l'F-84 thunderjet, il quale fu impiegato in maniera considerevole dagli USA
nel dopoguerra, nella guerra di Corea e nelle prime fasi della guerra del Vietnam prima di essere sostituito proprio dall' F-105.

(Anche se appare illogico che gli USA volessero copiare il motore a reazione tedesco dato che
nè disponevano uno nel '42 (il Bell P-59 Airacomet, il quale compì il suo primo volo già il 1/10/1942) semmai la cosa può essere spiegata dal fatto che gli USA volessero capire fino a che punto si era spinta la ricerca tedesca. Servì insomma per aiutare gli ingegneri americani - Ndr).


L'esistenza del sottomarino U-234 (dal nome troppo casualmente corrispondente ad un isotopo dell'uranio) e del suo carico è un argomento di cui ogni tanto si vagheggia. L'elemento clou della discussione consiste nella seguente domanda: il carico trovato nel sommergibile è stato utilizzato nella guerra contro il Giappone? Fino ad oggi non vi erano prove, non lo si poteva dimostrare. Il primo indizio importante ritrovato consiste nella scoperta di un dispaccio segreto del Comando delle Operazioni Navali di Washington che indicava che l'uranio era stato immagazzinato per il trasporto in barili assieme a dell'oro. Ricerche successive mostrarono che l'oro, che è un metallo molto stabile, era semplicemente usato per poter maneggiare l'uranio già arricchito e allo scopo di evitare la contaminazione e la corrosione. L'uranio arricchito è una componente essenziale per la costruzione della bomba atomica, poiché è fissile.
In valuta del 1945, una oncia di uranio valeva 100.000 dollari, quindi non stupisce che si usasse dell'oro per isolarlo. L'oro non sarebbe stato usato se l'uranio trasportato fosse stato uranio naturale e non del tipo arricchito, poiché il valore dell'uranio naturale non avrebbe giustificato la spesa. Negli Stati Uniti, all'epoca, l'uranio naturale veniva trasportato in barili di acciaio o contenitori imbottiti senza alcun tipo di protezione contro la corrosione.

Un'altra prova del fatto che l'uranio trasportato dall'U-234 era uranio arricchito, viene dalla testimonianza di un marinaio del sommergibile che era presente al caricamento ed allo scaricamento dell'imbarcazione. Questo marinaio ha raccontato in due memorie che i container dell'uranio avevano la scritta "U-235" (nome ancora troppo casualmente corrispondente ad un isotopo dell'uranio) dipintavi sopra poco prima dell'imbarco. La sigla U-235 è quella che scientificamente indica l'isotopo 235 dell'uranio, ovvero l'uranio cosiddetto arricchito. Quello che rimane dal processo estrattivo, è invece il cosiddetto uranio impoverito, ovvero un uranio privato di circa la metà della quantità dell'isotopo U-235 normalmente presente nell'uranio naturale (ovvero 0,3 % invece del normale 0,7 %).

Lo stesso sommergibilista racconta che il personale della Marina degli Stati Uniti in seguito ha testato con dei contatori geiger alcune parti del sommergibile per verificarne la radioattività. Gli strumenti registrarono una forte contaminazione radioattiva. Senza capire il significato della scritta U-235, il marinaio pensava che l'uranio fosse stato dimenticato in Germania prima della partenza. Ovvero nel reattore per la produzione di plutonio che non funzionò ma che venne ampiamente pubblicizzato. Ma anche se prove evidenti dimostrano che l'uranio contenuto nel sommergibile era uranio arricchito, questo non vuol dire automaticamente che fosse stato usato nel conflitto col Giappone.

Per provare che questi due episodi sono collegati, abbiamo copie di documenti degli archivi nazionali USA che dimostrano dei collegamenti tra il progetto Manhattan e il sommergibile U-234. Uno dei documenti è un cablogramma segreto, sempre dal comando navale di Washington, che ordina ad una pattuglia di tre uomini di prendere possesso del carico dell'U-234. Secondo il documento l'accompagnatore dei due uomini era il Maggiore John E. Vance del corpo del genio (l'Army Corps Engineer), il corpo che lavorava al progetto Manhattan. Altri documenti mostrano che poco dopo l'arrivo di Vance, quando venne fatto un ulteriore inventario del carico, l'uranio era scomparso dai materiali in carico alla Marina. Alcune trascrizioni di telefonate che avvennero circa una settimana dopo tra due agenti segreti del progetto Manhattan, attestano che il carico di polvere di uranio era consegnato ed affidato esclusivamente ad una persona indicata solo come "VANCE".

Sarebbe una coincidenza poco probabile che si tratti di un altro Vance e non dell'ufficiale che aveva fatto il sopralluogo sul sottomarino, e addirittura che si tratti di un'altra polvere di uranio e non quella catturata nell'imbarcazione. Un secondo collegamento documentario tra il Progetto Manhattan e l'U-234, che trasportava otto persone che non erano della ciurma oltre al pericoloso carico, era che due delle persone catturate avevano avuto contatti con un sedicente ufficiale dei servizi della Marina USA identificato in altri documenti come "Comandante Alvarez" o "Signor Alvarez".
(nella stessa occasione (3 maggio, a Urfeld liberata) "catturarono" anche Heisemberger, il "cervello" atomico più ambito dagli Usa.)

Questa persona -Alvarez- è quella -guarda caso- che ha preso in carico il prigioniero Dott. Heinz Schlicke, uno degli scienziati a bordo del sommergibile, che era appunto diventato prigioniero di guerra. Il Dott.Schlicke era un esperto di tecnologia delle alte frequenze, come ad esempio il radar e gli infrarossi. Cercando tra gli allievi ufficiali dell'Esercito e gli ufficiali di Marina tra il 1943 ed il 1945 non si sono trovati nominativi corrispondenti ad "Alvarez". Ma si sa che il Generale Groves, capo del progetto Manhattan, era solito fornire coperture militari a scienziati del progetto Manhattan per lasciarli operare più agevolmente, quando necessario, all'interno della struttura militare.

Infatti troviamo Luis W. Alvarez indicato come uno degli eroi del progetto Manhattan e si tratta proprio dell'Alvarez che era chiamato "Comandante Alvarez", travestito da militare per ottenere informazioni scientifiche più facilmente dal Dott. Dr. Heinz Schlicke. Proprio Luis Alvarez era lo scienziato che all'ultimo momento tirò fuori dal cilindro la soluzione per far detonare contemporaneamente i 32 inneschi della seconda (in realtà della terza bomba, essendo stato tenuto nascosto fino a pochi anni fa il test ad Alamogordo), quella al plutonio, la bomba poi sganciata su Nagasaki.

E pensare che prima di questa improvvisa soluzione gli uomini del Progetto Manhattan avevano lavorato un anno e mezzo senza cavare un ragno dal buco. Proprio Alvarez, secondo documenti dell'archivio di stato, era a capo dell'equipe di tre scienziati incaricati di trovare la soluzione per gli inneschi. Il Dott. Schlicke, mentre era a bordo del sommergibile, aveva in carico un nuovo sistema d'innesco a base raggi infrarossi. Ancora in un cablogramma segreto possiamo trovare traccia del fatto che Schlicke venne riaccompagnato a bordo del sommergibile da due ufficiali per ritrovare gli inneschi agli infrarossi che vi erano rimasti. Questi inneschi funzionano sul principio della luce ed alla velocità della luce.

La prima bomba USA ad implosione, quella del New Mexico, aveva un sistema di innesco multi-punto basato su detonatori filocomandati e solamente in seguito si passò ad un sistema di accensione basato sulla luce per proteggerlo dalle interferenze elettromagnetiche che avrebbero potuto provocare un innesco accidentale. Allora si usavano come inneschi dei "thyrotron" all'idrogeno ad alta tensione prodotta da alimentatori ad alta tensione collegati con fili elettrici alla testata. Il sistema descritto invece è molto simile a quello del flash. Questo sistema d'innesco della detonazione è molto più accurato e meno suscettibile all'interferenza dei campi elettromagnetici. Le prove mostrano che Alvarez ed il Comandante Alvarez erano la stessa persona, inoltre Alvarez usò la tecnologia ad infrarossi del Dott. Schlicke per accendere simultaneamente i 32 inneschi risolvendo così il problema dell'accensione della bomba al plutonio, quindi la sua trasportabilità, quindi il suo impiego come arma.

Alvarez, prima di essere assegnato al progetto Manhattan, lavorava sulla tecnologia delle alte frequenze, incluso il radar, lo stesso campo in cui Schlicke era un esperto. Sulla base dei curriculum di chi era addetto al progetto Manhattan, solo Alvarez avrebbe potuto essere l'interlocutore di Schlicke negli USA. Dopo la guerra, il Dr. Schlicke divenne uno dei tanti assunti a contratto nel progetto segreto denominato "Operazione Paperclip".

Luis Alvarez vinse il premio Nobel 1968 per la fisica per il suo studio sulle alte frequenze, fu lui a costruire nel dopoguerra a Berkeley il primo acceleratore lineare di particelle elementari, e fu anche quello che propose la teoria, all'epoca derisa, secondo la quale i dinosauri si sarebbero estinti a causa di un meteorite che avrebbe colpito la terra.

Queste rivelazioni sul sommergibile U-234 ed i suoi passeggeri sono destinate a causare delle discussioni tra gli studiosi e gli appassionati della Seconda Guerra Mondiale, ma certamente il fatto che tutto sia basato su un accordo tra i nazisti e gli americani accenderà ancor più il dibattito. Esiste infatti tutta una serie di prove che testimoniano del fatto che gli alti ufficiali di Hitler avevano avuto contatti con alti ufficiali dei servizi USA e con militari per fare l'accordo dello scambio tra l'U-234 e la loro libertà.

Ad esempio, Martin Bormann capo del partito nazista e segretario personale di Hitler, probabilmente l'uomo più potente nell'entourage di Hitler, trattò lo scambio col sommergibile U-234 prima della caduta di Berlino nell'aprile 1945. Alcuni storici sostengono che Bormann morì durante la fuga da Berlino il primo maggio 1945 (vedere cfr.: http://www.us-israel.org/jsource/Holocaust/bormann.html).

La "prova" principale proviene dalla testimonianza dell'autista di Hitler, Erich Kempka e di Arthur Axmann, capo della gioventù hitleriana, i quali erano profondamente legati e furono fedeli al nazismo fino alla loro morte. Almeno per questo le loro motivazioni sono da considerare sospette. Nonostante che nessuno dei due avesse detto di aver visto con certezza Bormann morto, tuttavia questa è la tesi che viene normalmente accreditata. Bormann venne condannato in contumacia per crimini di guerra durante il processo di Norimberga e venne elevata una taglia sul suo arresto che venne mantenuta per molti anni. Addirittura un mandato di cattura venne emesso nella Germania Ovest nel 1967 sulla base di varie testimonianze che lo davano per vivo e vegeto. Vennero fatti molti avvistamenti di Bormann nei trent'anni che seguirono la guerra. La pretesa tomba del compagno di fuga di Bormann, il capo della Gestapo Heinrich Mueller (ma altri dicono che il suo compagno di fuga fosse il dottor Stumpfegger) venne dissotterrata nel 1963 e si trovò che conteneva tre scheletri, ma nessuno dei quali corrispondenti a Mueller (e tantomeno Stumpfegger).

La storia tradizionale contiene molte lacune. L'ultima versione attesta che Bormann ed il capo della Gestapo Mueller, cercarono di scappare insieme passando attraverso i sotterranei attorno alla Cancelleria del Reich prima di incontrare la morte in uno scontro sulla strada, il corpo di Bormann sarebbe stato poi avvistato nella Invalidenstrasse, a nord del fiume Spree a Berlino. E' possibile che siano scappati assieme, ma quello che non torna è che i sotterranei furono allagati dalle SS causando tra l'altro la morte di migliaia di donne e bambini che vi si erano rifugiati per sfuggire ai bombardamenti o perché le loro case erano state bombardate. Le SS inondarono i sotterranei per evitare che le truppe Russe si avvicinassero in segreto ed attaccassero il bunker di Hitler dal di sotto.

La storia della fuga attraverso i sotterranei si dimostra una montatura predisposta per facilitare la fuga di Bormann e di Mueller. Ma questa versione non teneva conto del fatto che le SS avrebbero allagato questi sotterranei. Una versione più plausibile, logica e credibile, della fuga di Bormann venne raccontata dagli agenti dell'intelligence di Josif Stalin. Stalin stesso disse a Harry Hopkins, consulente politico e uomo di fiducia dei Presidenti Roosevelt e Truman, in seguito segretario di Stato, che gli agenti sovietici gli avevano riferito che Bormann era fuggito a notte fonda il 29 aprile, da Berlino, con un piccolo aereo ed in compagnia di tre uomini, uno vistosamente bendato, ed una donna. Da quel punto, Stalin continua, i suoi agenti ne avrebbero seguite le traccie fino ad Amburgo dove si sarebbe imbarcato in un grande U-boat e avrebbe lasciato la Germania.

Molti dettagli suonano plausibili. Per esempio, si sa che mentre Berlino era bombardata e l'élite nazista era presa dal panico od era fuggita, Martin Bormann mantenne contatti radio segreti con l'Ammiraglio Karl Doenitz (anche lui non finì sulla forca a Norimberga, se la cavò con qualche anno di prigione (!?)) il comandante di tutti gli U-boat della Germania, e che aveva fatto progetti per scappare dal quartier generale dei sommergibili di Doenitz. Doenitz all'inizio fece resistenza ma alla fine ricevette ordini da Hitler (presumibilmente su indicazioni di Bormann) per accogliere Bormann al suo quartier generale.
(MA ALLORA SORGE IL DUBBIO, PERCHE' ACCOGLIERE BORMANN E NON ANCHE LUI ?)

Ma vediamo nel dettaglio gli elementi a disposizione:
1) Hanna Reitsch, la famosa donna pilota amica di Hitler che faceva da controcanto ad Amelia Earhart, nella sua biografia descrive come aveva fatto fuggire il Generale dell'Aviazione tedesca Ritter von Greim, appena promosso da Hitler a capo della Luttwaffe, fuori Berlino e a notte fonda negli ultimi giorni di guerra. Altre testimonianze confermano il volo nel 29 aprile 1945, la stessa notte di cui riferiscono gli agenti di Stalin a proposito della fuga di Bormann su di un piccolo aereo. La Reitsch racconta di come andarono al quartier generale di Doenitz "per un ultimo saluto al Grande Ammiraglio Doenitz" prima di volare a sud verso il confine svizzero-austriaco. Una strana deviazione di centinaia di chilometri con a bordo l'importante Generale von Greim gravemente ferito... Si trattava di qualcosa di più che di un viaggio per fare un saluto. (C'ERA SU ANCHE HITLER?)
2) Un altro racconto sulla fuga del capo della Gestapo Heinrich Mueller, segue un percorso simile, ma qui si dice che Bormann è fuggito da solo da Berlino. In questa versione, Mueller si sarebbe allontanato dalla capitale Berlino la stessa notte del racconto della Reitsch, in un aereo Fieseler Storch, lo stesso aereo della storia della Reitsch, nelle stesse circostanze descritte da lei. Mueller non parla di un volo per incontrare per l'ultima volta l'Ammiraglio Doenitz, ma parla di un volo diretto al confine austro-svizzero molto simile a quello raccontato dalla Reitsch.

Ci sono evidentemente delle discrepanze tra queste storie, come ci sono in tutte le storie relative a quegli eventi. E' difficile sapere qual'è quella vera e quella prefabbricata, ma la somiglianza dei racconti con il rapporto degli agenti di Stalin che parlano di tre uomini, uno ferito, ed una donna che lasciavano Berlino a bordo di un piccolo aereo sono evidenti. Di fatto Stalin identifica Bormann e Mueller per nome, poi parla di un uomo molto bendato che corrisponde proprio alla descrizione del von Greim del tempo. La donna poteva benissimo essere Hanna Reitsch, probabilmente l'unica donna al mondo che ci si aspetterebbe di trovare in simili circostanze, in quel posto ed in quel momento. Le tre versioni sono troppo simili per non apparire interconnesse tra loro.

L'operatore radio dell'U-234 descrive come a metà aprile aveva ricevuto almeno un messaggio su una frequenza ad alta priorità (e probabilmente almeno un altro in codice) direttamente dal bunker di Hitler a Berlino mentre il sommergibile era di stanza a Kristiansand in Norvegia. L'ordine recitava: "U-234. Salpate solamente su ordini di alto livello. Quartier generale del Fuerher." Questo implica varie cose, tra cui il fatto che c'era qualche tipo di collegamento ed accordo tra l'U-234 e qualcuno nel quartier generale di Hitler. Un ordine successivo di Doenitz sembra che voglia cercare di far tornare l'U-234 sotto la sua autorità. Probabilmente disse: "U-234. Salpa solo su miei ordini. Non salpare di tua iniziativa."

Il sommergibile U-234 era il più grande della flotta della Marina tedesca. Salpò dopo poche ore diretto da Kristiansand verso sud, proprio verso Amburgo dove le spie di Stalin avevano affermato che Bormann vi sarebbe salito nelle prime ore del mattino del primo maggio 1945. Anche tra questi racconti ci sono delle discrepanze, come ad esempio il fatto che ci sarebbe voluto solo un giorno per una imbarcazione come l'U-234, per raggiungere Amburgo da Kristiansand. Mentre secondo i dati, l'U-234 lasciò Kristiansand a metà aprile e non avrebbe imbarcato Bormann che il primo maggio. Ma dell'U-234 non si sarebbe più saputo niente fino al 12 maggio 1945, un mese dopo aver salpato da Kristiansand. Allora l'U-234 era localizzato a 500 miglia da Newfoundland. Se l'imbarcazione avesse seguito la rotta attribuitagli dal suo capitano e dalla storia che dice che era diretta in Giappone, allora avrebbe viaggiato ad una velocità di un miglio e mezzo all'ora, ovvero meno che a passo d'uomo. Molto più lentamente della velocità tipica di quella imbarcazione.

In realtà si pensa che l'U-234 abbia pattugliato il mare del nord silenziosamente secondo dei piani prestabiliti tra Bormann ed il quartier generale di Hitler, finché Bormann non fosse stato in grado di trovare un accordo con Doenitz. Mentre si avvicinava la fine della guerra, l'imbarcazione si avvicinò alla baia di Amburgo col favore della notte e prese a bordo Martin Bormann e Heinrich Mueller (E PERCHE' NON HITLER?) Dopodiché continuò il suo viaggio facendo tappa in Spagna (dove si trovava la struttura di intelligence tedesca che si occupava del sud america, chiamata "Sofindus") per scaricare Bormann ed infine arrendersi alla flotta USA sempre sotto accordi misteriosi.

Bormann venne poi avvistato nel 1946 in un monastero del nord Italia. Nello stesso anno sua moglie Gerda (una nazista fanatica, figlia del Giudice Supremo del Partito Walter Buch) morì di cancro nel Sud Tirolo (alle ore 22,30 del 23 marzo 1946, all'ospedale di Merano; ed è sepolta nel cimitero di questa città) ma i suoi dieci figli sopravvissero alla fine della guerra. Pare poi che Bormann sia scappato via Roma, come altri fedeli nazisti, in America Latina (Cile, Argentina, Brasile?). Dicono che abbia vissuto da miliardario in Argentina e che fu visto anche in Brasile ed in Cile. Una negoziazione portata avanti con successo tra Bormann e Doenitz spiegherebbe non solo lo scambio di messaggi radio ma anche perché Doenitz, che non aveva esperienza politica e nessun seguito degno di nota, diventò improvvisamente il successore designato di Hitler. (CHE METTE IN SALVO LUI E NON PENSA A SE STESSO?)
Una serie di eventi altrimenti inspiegabili sarebbe così chiarita dagli accordi segreti che trovarono il compimento nel giorno della resa in mare il 16 maggio 1945.

Il sommergibile venne trasferito a Portsmouth, nel New Hampshire, il 19 maggio 1945. Alcuni giornalisti ne furono testimoni. Infine c'è una fotografia presa da un fotoreporter di un giornale locale, quando l'U-234 era all'àncora, che mostra un misterioso prigioniero civile molto somigliante a Heinrich Mueller. Questi sbarcò dalla navetta che era usata per sbarcare il personale dall'U-234.

L'uomo nella foto è proprio l'ex capo della Gestapo che sbarca sul territorio americano. La sua missione consisteva nell'assicurarsi della consegna del materiale per le bombe atomiche e di altro materiale che era stato concordato con gli USA, in cambio dell'immunità e della protezione per i nazisti che l'hanno ricevuta per decenni fino ad oggi.

Il 20 novembre 1947, il sommergibile U-234 venne affondato con un siluro dalla USS Greenfish durante degli addestramenti, a circa 40 miglia a nord-est di Cape Cod sulla costa orientale USA.

di M. Saba - http://stop-u238.i.am
 
1940: l'attacco tedesco alla Francia


Situazione alla vigilia dell'attacco: "la strana guerra"


Dopo aver annichilito la Polonia in meno di due settimane, le truppe tedesche non passarono, tra l'ottobre del 1939 ed l'aprile del 1940, immediatamente all'azione contro la Francia, come invece tutti si aspettavano accadesse; i due rispettivi schieramenti si fronteggiano senza che nulla accada, al riparo delle linee fortificate (la Maginot francese e la Sigfrido tedesca): è una "strana guerra", senza battaglie, morti o prigionieri, e soprattutto molto diversa, per la sua esasperata lentezza e noia, dalla fulminea campagna scatenata ad est.
Nell'attesa delle scoppio delle ostilità, divengono palesi i contrasti tra le due diversissime strategie dei due belligeranti: se da un lato l'esercito francese rimaneva ancorato ai vecchi dettami della strategia classica, e si rassegnava ad un ruolo prettamente difensivo misconoscendo le straordinarie possibilità offerte dell'arma corazzata, i tedeschi sicuramente non avevano questo difetto.


Il generale Guderian, "inventore" dell'arma corazzata
tedesca, in una foto durante la campagna del 1940
Già a partire dal 1937, infatti, il generale Guderian aveva diffuso e reso esecutive le sue teorie strategiche circa l'impiego dei carri armati come arma non più di accompagnamento e di protezione della fanteria, ma come mezzo di attacco puro ed in grado di effettuare sfondamenti veloci e finora impensabili. Nella sua fondamentale opera Achtung! Panzer! pubblicata appunto nel 1937, Guderian descriveva ottimamente la situazione dei belligeranti del '40, presentando una opposizione di due eserciti, uno disposto in una uniforme posizione difensiva e con i carri armati suddivisi lungo la linea del fronte, ed uno invece che aveva raggruppato le sue forze corazzate in potenti e veloci formazioni. L'intuizione di Guderian fu di comprendere che il carro armato offriva la velocità e la resistenza necessarie ad effettuare un'avanzata a velocità vertiginosa e che fosse perciò in grado di formare una breccia incolmabile dal nemico: prima del carro armato, infatti, uno sfondamento era effettuato da truppe di fanteria o di cavalleria, che avevano non solo una velocità di movimento molto inferiore, ma che inoltre nel giro di pochi giorni sarebbero state troppo esauste per proseguire l'attacco, permettendo così all'avversario di chiudere la breccia. Il carro armato invece, offriva appunto l'autonomia e la potenza per poter polverizzare in un punto lo schieramento avversario, piombare alle spalle della vecchia linea del fronte, ed effettuare accerchiamenti così rapidi da risultare fatali e non ostacolabili. L'intuizione tedesca, che portò alla costituzione della divisioni Panzer, non fu invece recepita in Francia.

Solo il futuro generale De Gaulle, infatti, predicava dal '34, pur rimanendo del tutto inascoltato, che la difesa della Francia non poteva essere solo quella statica della Linea Maginot, affermando che "il motore attribuisce ai mezzi moderni di distruzione una potenza, una velocità ed un raggio d'azione tali che la guerra sarà, presto o tardi, contraddistinta da movimenti, sorprese, irruzioni, inseguimenti, i quali, per ampiezza e rapidità, supereranno di gran lunga quelli degli avvenimenti più folgoranti del passato". Egli proponeva dunque la costituzione di un corpo d'armata meccanizzato, con 100000 effettivi, dotato di divisioni corazzate con 3000 carri armati, protetto dall'aviazione da ricognizione, caccia e assalto, da artiglieria pesante e contraerea, che su un fronte di 50 chilometri potesse avanzare di altrettanto durante un giorno di combattimento.
Queste intuizioni sono tutt'altro che condivise dagli altissimi comandi: durante le manovre di Metz del '37, il tema proposto prevede l'impiego dei carri, ed il generale Giraud chiede a De Gaulle quale sarà la sua manovra, ed il colonnello gliela illustra. Spazientito, Giraud insiste: "Insomma, qual è il vostro obiettivo entro sera?". "Arrivare a Pont-à-Mousson". "Ma è a 80 chilometri, ed in più bisogna attraversare la Seille". "Eppure è possibile". Gli replica Giraud: "No De Gaulle. Finché io avrò un comando, voi, con me, avanzerete al passo della fanteria".
 
Dal Fall Gelb al Sichelschnitt


L'attacco decisivo sul fronte occidentale inizia, per i tedeschi, con un colpo di sfortuna: il 10 gennaio '40, dopo una serie di rinvii dovuti soprattutto al freddo eccezionale di quell'inverno ma anche in attesa di una improbabile soluzione pacifica del conflitto, Hitler fissa al giorno 17 l'inizio dell'offensiva decisiva contro la Francia. Ma lo stesso giorno, un piccolo aereo da collegamento tedesco che ha perso la rotta a causa del maltempo è costretto ad un atterraggio di fortuna in territorio belga, vicino ad un paese a sedici chilometri da Maastricht. Ai tre soldati belgi subito accorsi in bicicletta, si presenta uno spettacolo curioso: dei due membri dell'equipaggio, entrambi incolumi, uno, nascosto dietro un cespuglio, sta cercando affannosamente di bruciare delle carte, ed è proprio il fumo di questo piccolo falò a richiamare l'attenzione dei militari sulla sua persona, che è quella del maggiore Reinberger, ufficiale di collegamento presso una squadra aerea, e sulla sua borsa, una borsa di cuoio giallo zeppa di documenti segretissimi riguardanti il piano tedesco per l'invasione del Belgio e dell'Olanda. Quei piani appunto che lo sfortunato ufficiale, maledicendo il giorno in cui aveva accettato un passaggio sull'aereo di un collega diretto a Colonia con un carico di biancheria da lavare, stava invano cercando di distruggere.
La notizia dell'aereo costretto ad atterrare in territorio belga con i piani dell'invasione, arriva a Berlino nella nottata del 10 gennaio, e fa piombare il comando tedesco nella costernazione più profonda: Hitler, furibondo, silura un paio di ufficiali, poi si consulta con il generale Jodl (capo di stato maggiore dell'OKH, il comando supremo dell'esercito) e con il maresciallo Goring (comandante dell'aviazione), per decidere se proseguire secondo i piani o rinviare tutto. Si decide di proseguire, dato che mancava meno di una settimana all'attacco e belgi e francesi non avrebbero avuto tempo di organizzarsi. Col passare dei giorni cresce l'incertezza: "Se il nemico è in possesso di tutti i documenti, la situazione è catastrofica", dice Jodl la mattina del 12; Hitler, sempre più incerto, decide il 13 un rinvio di qualche giorno, benché il servizio segreto gli garantisca che tutti i documenti sono stati ridotti in cenere. Le notizie di una mobilitazione parziale in Belgio e Olanda, unita alle sfavorevoli previsioni meteorologiche, spingono alla fine per un rinvio a tempo indeterminato: dai documenti tedeschi emerge infatti che se le cattive condizioni del tempo ebbero un certo peso nella decisione, ed altrettanto ne ebbe la riluttanza dei generali tedeschi a lanciare un'offensiva in pieno inverno, il motivo principale che indusse Hitler a rinviare l'attacco fu che egli si rese conto di non poter più contare sul fattore sorpresa, giacché Belgio e Olanda si stavano rapidamente preparando alla difesa, e sarebbero sicuramente stati aiutati dalla Francia. Hitler disse quindi a Jodl che l'intera operazione doveva essere rielaborata di nuovo con altri criteri, in modo da garantirsi la segretezza e la sorpresa. E' a questo punto che sale alla ribalta tra gli strateghi tedeschi ed ottiene la incondizionata approvazione di Hitler, il piano elaborato a suo tempo dal generale von Manstein, che ha già un nome in codice (Sichelschnitt, cioè Colpo di falce): l'obiettivo non era più quello di conquistare qualche base aerea e navale lungo la manica, come prevedeva il piano caduto in mano ai belgi, e che era denominato Fall Gelb, cioè Caso Giallo (in pratica un aggiornamento del piano di invasione usato nel 1914 dalla Germania imperiale), bensì di sfondare nelle Ardenne, ai lati di Sedan, per passare la Mosa e spingersi fino ad Abbevile, sulla Manica, tagliando fuori il grosso del nemico nelle Fiandre. Annientate queste forze, sosteneva von Manstein, sarebbe stato facile sbaragliare il resto dell'esercito francese: "Mein Fuhrer, noi non vogliamo sconfiggere il nemico, ma distruggerlo".




Di fronte alla prospettiva di un attacco tedesco, le linee guida della strategia francese sono quelle del 1919, e cioè risparmiare vite umane per non ripetere la carneficina della prima guerra mondiale, e tenere il conflitto lontano dal suolo francese; per raggiungere questi obiettivi, avevano ammassato le loro forze ai confini del Belgio, pronti ad entrare in quel paese non appena i tedeschi ne avessero violato la neutralità. Alle linee di questa strategia, che continua a prevedere un'offensiva tedesca in Belgio anche quando l'OKH ha cambiato radicalmente i suoi piani, il comandante in capo delle forze alleate generale Gamelin resta fedele contro ogni avvertimento: e bisogna dire che certo gli avvertimenti non mancavano, dato che già durante l'inverno e l'inizio della primavera si erano avuti parecchi indizi del fatto che il centro di gravità delle forze tedesche stava spostandosi da nord a sud, e lo spionaggio alleato non aveva mancato di notare che il numero delle divisioni tedesche concentrate lungo le frontiere del Belgio e del Lussemburgo era più che raddoppiato. Già in marzo, dunque, lo schieramento delle truppe e delle forze corazzate tedesche avrebbe dovuto far pensare che l'attacco principale dovesse avvenire al centro del fronte, tra Sedan e Namur, proprio là dove i francesi erano più deboli; inoltre l'8 marzo il re del Belgio Leopoldo informava il suo governo che i tedeschi avrebbero attaccato "attraverso le Ardenne in direzione di Dinant-Saint-Quentin, con l'obiettivo di isolare da Parigi le forze alleate penetrate nel Belgio e di spingerle verso Calais", esattamente come avverrà! Tra il 3 e il 9 maggio, olandesi belgi e francesi sono letteralmente inondati di rapporti che riferiscono dove e quando i tedeschi avrebbero attaccato. Il 3 maggio è il colonnello Oster, ufficiale dell'Abwehr e membro della resistenza tedesca (poi fucilato dopo il complotto del 1944), ad informare l'addetto militare olandese a Berlino colonnello Sas, che il suo paese sta per essere aggredito. Il 4 il nunzio apostolico avverte il re del Belgio che secondo il Vaticano è imminente l'offensiva; due giorni dopo il Papa conferma la notizia alla principessa Maria José, che si affretta a trasmetterla al fratello Leopoldo. La notte tra il 7 e l'8 maggio un pilota dell'aviazione francese, rientrando da un volo di propaganda su Dusseldorf, riferisce di aver visto una colonna corazzata tedesca lunga quasi cento chilometri in marcia verso le Ardenne. L'8 maggio due messaggi cifrati dell'ambasciata belga a Berlino raggiungono a Bruxelles: nel primo l'ambasciatore informa che l'ultimatum per il Belgio è in preparazione, mentre nel secondo l'addetto militare assicura che l'alto comando tedesco ha già impartito l'ordine di lanciare l'offensiva. Nessuno di questi avvertimenti è raccolto dal governo francese, che li considera un frutto dell'abile propaganda tedesca.
Il 9 maggio a mezzogiorno, Hitler fissa definitivamente l'attacco per le ore 5.35 del giorno dopo, mentre a Parigi Paul Reynaud (il primo ministro francese) sta chiedendo la testa del generale Gamelin, per la passività da lui dimostrata durante l'invasione tedesca della Norvegia: lo scontro tra il primo ministro ed il suo generalissimo si concluderà con le dimissioni di entrambi, analogamente a quanto avveniva in Inghilterra, dove Chamberlain era caduto e Churchill si accingeva a sostituirlo, tutto ciò mentre il più grande esercito mai messo insieme dalla Germania stava per investire il punto più debole dello schieramento francese con la forza di un ariete. Quella sera alle 21 viene trasmessa a tutti i comandi la parola d'ordine che farà scattare l'operazione militare; mezz'ora dopo, a Berlino, Oster raggiunge Sas, che lo aspetta all'ombra di un viale: poche parole "il maiale (Hitler) è partito per il fronte occidentale. Speriamo di vederci ancora dopo la guerra". Pochi istanti dopo all'Aja squilla il telefono del ministro degli Esteri: è il capo dello spionaggio olandese con un laconico messaggio da Berlino: "Domani all'alba; resistete forte".
 
Fleursdumal ha scritto:
Dal Fall Gelb al Sichelschnitt


L'attacco decisivo sul fronte occidentale inizia, per i tedeschi, con un colpo di sfortuna".

qui è da correggere l'articolo originale con "gran colpo di fortuna" :smile: seguendo il piano originale difficilmente avrebbero sfondato
 
Fleursdumal ha scritto:
Fleursdumal ha scritto:
Dal Fall Gelb al Sichelschnitt


L'attacco decisivo sul fronte occidentale inizia, per i tedeschi, con un colpo di sfortuna".

qui è da correggere l'articolo originale con "gran colpo di fortuna" :smile: seguendo il piano originale difficilmente avrebbero sfondato
:-D
 
La battaglia di Francia
I due eserciti che nella notte tra il 9 e il 10 maggio '40 stanno per iniziare quella che passerà alla storia come Battaglia di Francia, sono numericamente quasi uguali: alle 140 divisioni schierate dai tedeschi, si contrappongono le 144 divisioni alleate (101 divisioni francesi, 22 belghe, 10 olandesi e 11 del corpo di spedizione inglese). Lo stesso equilibrio di forze esiste nelle Fiandre e nelle Ardenne, dove avverrà lo scontro decisivo, ed in cui i tedeschi mandarono all'attacco due gruppi di armate comprendenti 74 divisioni, 10 delle quali corazzate, a cui gli alleati opponevano 81 divisioni in tutto. Come riconoscerà il generale Gamelin nelle sue memorie, "c'era parità di forze tanto sul fronte attaccato quanto su quello stabile". Equilibrio vi era anche nel numero dei mezzi corazzati: l'esercito francese disponeva di circa 2300 carri moderni, cui vanno aggiunti i quasi 300 degli inglesi, mentre i panzer tedeschi che, trascinati da Rommel e da Guderian, in dieci giorni raggiungeranno la Manica, non sono sette o ottomila, ma appena 2600, e quasi tutti meno potenti dei francesi. Il confronto sul campo, in realtà, potrebbe risolversi a vantaggio di questi ultimi, ma mentre i francesi non sanno usare i loro carri armati, i tedeschi al contrario hanno fatto di questa tecnica una vera e propria arte.
Laddove infatti i generali francesi non hanno capito l'importanza dell'arma corazzata e sono rimasti ancorati alla vecchia idea residuo della prima guerra mondiale, che i carri armati si impiegano in appoggio alla fanteria, i tedeschi li hanno raggruppati in dieci celeri divisioni corazzate, che al momento giusto si trasformarono in altrettanti robustissimi arieti. Anche sul piano dell'aviazione le forze più o meno si equivalgono, anche se i tedeschi hanno circa il doppio dei bombardieri alleati, mentre questi ultimi dispongono di più caccia: complessivamente, però, entrambi schierarono, alla vigilia dell'attacco, circa 3000 aerei moderni.


L'Olanda, con il suo piccolo e debole esercito di 250.000 uomini, contava di difendersi allagando ampi tratti del proprio territorio e distruggendo tempestivamente i ponti sui canali: il piano era facile da prevedere, ed Hitler, per sventarlo, ordina ai suoi generali di agire di sorpresa e con la massima rapidità. Il 10 maggio dunque, dopo che gli aerei della 2ª Luftflotte di Kesselring hanno spazzato a colpi di mitragliatrice le vie di Rotterdam e dell'Aja, le truppe aviotrasportate di von Sponeck appoggiate dai paracadutisti di Student, atterrano negli aeroporti e nei dintorni dei principali porti olandesi: due di essi cadono prima di mezzogiorno, mentre i pochi aerei dell'aviazione olandese giacciono distrutti sulle piste bombardate: è la prima volta che si cerca di conquistare un paese dal cielo. La sera dell'11 maggio, ad appena 48 ore dall'inizio dell'offensiva, l'Olanda sta cedendo: i suoi soldati sono in fuga dappertutto, ed il panico dilaga, mentre si vocifera di una quinta colonna, e si comincia a gridare al tradimento: sarà il leit motiv dell'intera campagna di Francia. Il 13 maggio la guerra in Olanda è praticamente finita, mentre solo Rotterdam resiste ancora, e quella sera il generale von Kuchler, comandante della 18ª armata tedesca, ordina alle sue truppe di infrangerne la resistenza "con ogni mezzo". Ci pensa Hermann Goring: la mattina dopo, mentre un ufficiale tedesco si presenta per consegnare al comandante della piazzaforte l'intimazione di resa, il capo della Luftwaffe ordina a Kesserling di compiere su Rotterdam un bombardamento a tappeto, senza curarsi che intanto erano iniziate le trattative per un "cessate il fuoco"; verso mezzogiorno un ufficiale olandese raggiunge il comando tedesco, e ne riparte un'ora dopo con le condizioni della resa: a questo punto il generale Schmidt vorrebbe forse fermare i bombardieri, ma il suo ordine non arriva o rimane inascoltato, e gli Heinkel 111 di Kesserling sono già in volo. Furono davvero lanciati, come sosterrà il generale Schmidt, i razzi rossi che dovevano fermare i bombardieri? I tedeschi hanno sempre sostenuto di aver fatto il possibile per annullare l'incursione, e di non esserci riusciti, e a Norimberga Goring e Kesserling negheranno di essere stati avvertiti che erano in corso trattative per la resa. Alle 14 di quel giorno di maggio, sessanta Heinkel 111 lasciano cadere sul vecchio centro di Rotterdam: da una fabbrica di margarina, colpita in pieno, un fiume d'olio e di grassi incendiati si riversa nelle strade formando un mare in fiamme, davanti a cui la popolazione fugge terrorizzata: venti minuti dopo, quando gli aerei tedeschi se ne vanno, i morti sono quasi 900, migliaia i feriti e 78000 i senzatetto. L'opinione pubblica mondiale è sconvolta dalla brutalità dell'azione, ma in tedeschi hanno ottenuto ciò che volevano, cioè la capitolazione. In soli cinque giorni la 18ª armata di von Kuchler ha completato l'opera dei paracadutisti. La resa ufficiale avverrà la mattina seguente; il 15 maggio anche la sorte del Belgio è segnata, anche se capitolazione formale sarebbe avvenuta solo dopo due settimane, ed il generale Billotte, resosi conto della gravità dello sfondamento tedesco sulla Mosa, aveva dato l'ordine di ritirata. Per non farsi infilare sulla destra, tutto il fronte alleato doveva arretrare sulla Schelda, ed il ripiegamento sarebbe stato completato il 19 maggio.
Come mai in meno di una settimana i tedeschi hanno sfondato anche nel Belgio? Non disponevano i belgi, a nord di Liegi, di una delle fortezze tra le più solide al mondo? E non hanno, nel Canale Alberto, un ostacolo contro il quale la marcia degli aggressori avrebbe dovuto arrestarsi? La presa del forte di Eben-Emael, il fiore all'occhiello dell'apparato difensivo belga, è forse l'esempio più classico di come funzioni la Blitzkrieg (cioè la cosiddetta guerra lampo). Alle 4.30 del 10 maggio un distaccamento di guastatori tedeschi decolla dall'aeroporto di Colonia a bordo di 11 grossi alianti trainati da Junkers 52. Nel cielo di Aquisgrana, a 2800 metri di altezza, gli Junkers sganciano gli alianti, e proseguono il volo effettuando un lancio di paracadutisti fantoccio imbottiti di fuochi artificiali per confondere i difensori. Le sentinelle di Eben-Emael sentono i colpi della contraerea olandese ma non riescono a vedere niente, mentre gli alianti, silenziosi come uccelli notturni, sono sopra di loro quando è ormai troppo tardi per respingerli. Atterrati di sorpresa sul tetto della fortezza, i guastatori tedeschi balzano dagli alianti e si gettano sui belgi; usando potenti cariche esplosive ed i lanciafiamme, mettono rapidamente fuori uso cannoni e torrette. In pochi minuti la fortezza più solida d'Europa è accecata e resa inoffensiva; poi dagli spalti, gli 85 uomini venuti dal cielo tengono a bada per ventiquattr'ore i 1200 uomini della guarnigione, fino all'arrivo dei rinforzi. Intanto, poco lontano dalla fortezza, due dei tre ponti sul Canale Alberto sono catturati intatti da un'altra unità di guastatori: il colpo, suggerito da Hitler a Student, è riuscito perfettamente, ed ha permesso al 16° corpo corazzato del generale Hopner di spingersi in poche ore molto avanti in territorio belga; vale la pena di notare, come fece in seguito osservare Student allo storico inglese Liddell Hart, che "in tutto lo scacchiere belga-olandese gli unici ponti che i difensori non riuscirono a far saltare sono stati quelli conquistati dai paracadutisti: tutti gli altri sono stati distrutti secondo i piani".





Il pomeriggio del 12 maggio, terzo giorno dell'offensiva, i tedeschi raggiungono la Mosa: sono avanzati di 120 chilometri in tre giorni ed investono un fronte che, da Dinant a Sedan, ha un'ampiezza di 128 chilometri. Più che un'operazione militare era stata, fino a quel punto, una marcia di avvicinamento, dato che i lussemburghesi non avevano opposto resistenza, i belgi si erano sganciati prima del loro arrivo e solo i francesi avevano tentato debolmente ed inutilmente di opporsi. Il problema principale, per i tedeschi, non era stato tattico, ma organizzativo, un problema di rifornimenti, percorsi, orari, risolto con precisione tutta teutonica ma che avrebbe potuto avere una soluzione ben diversa se, mentre avanzavano lungo le strade tortuose delle Ardenne, le vulnerabilissime divisioni corazzate tedesche fossero state attaccate dal cielo o dai versanti dei colli: come scrisse lo storico americano Shirer, "pochi pezzi di artiglieria anticarro nascosti nella fitta boscaglia, avrebbero potuto seminare lo scompiglio tra quelle colonne interminabili di veicoli che avanzavano l'uno attaccato all'altro. Ma i generali francesi evidentemente non pensarono neppure alla possibilità di adottare tale tattica, e questi attacchi non furono effettuati". Infatti il 12 maggio il generale Halder, capo di stato maggiore dell'OKW, annota nel diario "Aviazione nemica sorprendentemente cauta". E' il primo miracolo del "santo patrono" dei tedeschi, la mancata concretizzazione di un attacco aereo franco-britannico, sempre sospesa sul loro capo. Il generale Blumentritt dichiarò a fine guerra che "in quel momento temevamo le forze aeree alleate. Se voi aveste attaccato quelle enormi colonne, si sarebbe determinata una confusione spaventosa. Per esempio sul Semois rimanemmo bloccati per ventiquattr'ore, senza che vi fosse alcuna resistenza da parte francese: l'ingorgo poté essere individuato e districato solo da un ufficiale che sorvolò la zona in aereo": è facile immaginare cosa sarebbe successo se su quell'aereo, al posto di un ufficiale tedesco, ci fosse stato un carico di bombe alleate.


Alle 16 del 13 maggio, dopo che cinque ore di bombardamenti ininterrotti avevano logorato i nervi dei fanti e degli artiglieri francesi appostati sull'altra riva della Mosa, i fucilieri della prima divisione panzer attraversano il fiume, ed espugnano le prime casematte: fino alle 18 tutto sembra sotto controllo, la piccola testa di ponte tedesca è formata da pochi battaglioni di fanteria, che non sono ancora riusciti a far passare sull'altra sponda un solo carro armato o un solo pezzo d'artiglieria, mentre i francesi hanno cannoni e carri armati per respingere il nemico. Invece tra le 18 e le 19 crolla tutto: i primi carri armati tedeschi passano il fiume su un ponte di barche alle sei della mattina dopo, quando i francesi non sono ancora riusciti ad organizzare un contrattacco. La linea della Mosa, sulla quale i tedeschi si aspettavano di incontrare un'accanita resistenza, si è rivelata quasi inesistente; è il secondo miracolo, dirà Blumentritt, di quel folgorante inizio dell'offensiva. La sera del 15 maggio la battaglia della Mosa è perduta, e resta soltanto un interrogativo: i francesi hanno perduto una battaglia o tutta la guerra? Il generale Menu scriverà, a tal proposito, che alle sedici del 15 maggio "per noi la guerra era definitivamente perduta". Solo allora comincia ad insinuarsi, nell'alto comando francese, ottimista fino a quel momento, un senso di paura, che il giorno dopo sarà vero e proprio panico: la notizia che le truppe in ritirata sono arrivate a Compiègne, pochi chilometri a nord di Parigi, lascia Gamelin stupefatto. Mentre la popolazione è tenuta all'oscuro di tutto da una censura che cancella l'avverbio "quasi" a chi dice che la linea difensiva Maginot è "quasi inespugnabile", il governo è colto dal panico, ed il primo ministro francese Reynaud telefona a Churchill spiegandogli che "la battaglia è perduta". Il primo ministro inglese vola il giorno dopo a Parigi, per una riunione di comandanti dell'esercito e politici alleati: l'atmosfera è greve, in una sala del Quai d'Orsay, tutti sono in piedi, sul volto di ciascuno è dipinto un estremo abbattimento. Gamelin, ritto davanti ad una carta geografica dove spicca, lungo la linea nera del fronte "la piccola ma sinistra protuberanza" di Sedan, spiega ciò che è successo, mentre permane un solo dubbio, cioè se i carri tedeschi punteranno verso la Manica o verranno deviati su Parigi. Le parole del comandante in capo sono accolte da un lungo silenzio, rotto da una domanda di Churchill: "dov'è la riserva strategica?". Il primo ministro britannico voleva sapere dove si trovava la massa di manovra con la quale i generali francesi avrebbero potuto tentare di chiudere la falla. La risposta di Gamelin gli tolse ogni speranza: "La massa di manovra? Non esiste". Churchill rimase a bocca aperta, e confessò poi che era stata "una delle più grandi sorprese della mia vita".



Fedeli al piano Manstein, e appena disturbati nell'avanzata dai contrattacchi del colonnello Charles De Gaulle, uno dei pochi ufficiali francesi che abbiano capito come si dovevano usare i carri armati in guerra, i tedeschi scelgono la via del mare. La soddisfazione dei generali per l'andamento della campagna è turbata solo da una vaga apprensione: stupisce l'assenza di una controffensiva e preoccupa l'ampiezza del fianco meridionale del 19° corpo corazzato, sempre più vasto e scoperto via via che i carri fuggono verso la costa lasciandosi dietro la fanteria. Hitler è sempre più inquieto, e, non sapendo che le tre divisioni corazzate francesi sono state ridotte all'impotenza, teme un attacco laterale. Il 17 maggio Guderian riceve improvvisamente l'ordine di fermarsi; sbalordito, reagisce chiedendo l'esonero dal comando, ma la sosta dura poco, e il 20 maggio segna la fine della corsa verso il mare: quella sera la 2ª divisione panzer raggiunge Abbeville, alla foce della Somme. Le truppe alleate del nord sono in trappola, il loro ripiegamento sulla Schelda è finito da ventiquattr'ore, ma ora si prospetta un pericolo più grande, dato che i tedeschi hanno completato la manovra di accerchiamento e minacciano di prenderle alle spalle. Il 20 maggio è anche il giorno del passaggio delle consegne tra il vecchio e il nuovo comandante in capo dell'esercito francese: Gamelin è stato silurato la sera prima da Reynaud, dopo molte titubanze ed esitazioni; il primo ministro francese, che aveva già chiesto la sua testa alla vigilia dell'offensiva si è stancato dell'inerzia del generalissimo, ed ha deciso di sostituirlo. A 78 anni Gamelin esce di scena: è stato un ufficiale intelligente, ma fatuo, colto ma indeciso, un brillante stratega (tale era giudicato anche dai tedeschi) che non aveva capito nulla della strategia nemica. Il suo successore, richiamato in patria dalla Siria dove comandava le forze francesi in oriente, ha 73 anni e si chiama Maxime Weygand. Le sue prime parole, quando gli furono mostrate per la prima volta le carte con le posizioni dei tedeschi, furono: "Se avessi saputo che la situazione era tanto grave, non sarei venuto". Si cominciava bene...
Con lui, nella speranza di tirare su il morale dei suoi connazionali, il primo ministro richiama in patria un altro "monumento", il maresciallo Pétain: se Weygand era considerato "il brillante collaboratore del maresciallo Foch, l'architetto della vittoria alleata nel 1918", Pétain è il vincitore di Verdun. Reynaud, che lo vuole accanto come vicepresidente del consiglio, evidentemente non sapeva che l'ottantaquattrenne maresciallo aveva detto a Franco, poco prima di lasciare Madrid, queste parole: "il mio paese è stato sconfitto, e mi richiamano per far la pace e firmare un armistizio... Questo è il risultato di trent'anni di marxismo": nasce il partito della "pace separata".
Nel frattempo però il re del Belgio ha già deciso che la guerra era perduta, e decide la resa senza avvertire i suoi alleati: per Weygand è un fulmine a ciel sereno, mentre Reynaud denuncia la capitolazione (avvenuta il 28) come un "atto senza precedenti nella storia". Lord Gort, capo del corpo di spedizione britannico, reagisce con albionica compostezza, ma in realtà il più inguaiato è lui: la capitolazione belga apre una falla nella cinta difensiva della sacca, e rende ancora più precaria la situazione dei suoi uomini, che la sera del 26 maggio hanno iniziato a lasciare la Francia. Ma la fortuna, questa volta, aiuta gli inglesi, e quello di Dunkerque è uno dei tanti "miracoli" della guerra, ma questa volta a farlo fu Hitler.

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