Ciò che sta accadendo alle Olimpiadi di Parigi,
in cui una presunta donna pugile algerina
ha surclassato in pochi secondi una nostra sfortunata connazionale,
rappresenta la summa di quel fenomeno da baraccone
che è diventato da tempo lo sport in generale.
Un fenomeno da baraccone che, in molte discipline,
alimenta grande interesse e grandi giri d’affari,
coinvolgendo in vari modi i non secondari aspetti politici.
Basti pensare a quello che accadeva durante la lunga Guerra fredda tra i due grandi blocchi contrapposti,
in cui i Paesi di gran lunga economicamente e socialmente più deboli, facenti parte dell’impero sovietico,
utilizzavano ogni mezzo, compreso quello di comprarsi qualche giudice compiacente,
per dimostrare, attraverso le medaglie, la superiorità del sistema socialista
rispetto al sistema occidentale fondato sulle democrazie liberali.
Memorabile, a tale proposito, la scandalosa vittoria della nazionale sovietica di basket nella finale contro gli Stati Uniti,
che fino a quel momento avevano vinto in tutte le precedenti edizioni, durante le Olimpiadi di Monaco del 1972.
Sotto di un punto ad appena un secondo dal termine,
fu consentito ai sovietici di ripetere per ben tre volte la ripresa del gioco,
mentre per due volte il tempo rimanente fu aggiustato in tre secondi.
Sta di fatto che, anche grazie all’aiuto di un direttore di gara
che bloccò inopinatamente il difensore americano che fino a quel momento
era riuscito a contrastare il disperato tentativo degli avversari,
il sovietico Aleksandr Belov riuscì nel “miracolo” di realizzare un improbabile canestro.
Ancor più clamoroso il caso delle nuotatrici della famosa Ddr, alias Germania dell’Est,
che nelle successive Olimpiadi, quelle di Montreal del 1976, vinsero 12 gare su 13, annichilendo la concorrenza mondiale.
Ricordo che la gran parte degli osservatori del mondo libero ironizzavano sull’imponenza di queste atlete
e su una certa mascolinità, evidenziata da timbri di voce baritonali e folte pelurie.
Oggi le cose sono molto cambiate,
sebbene il vezzo di utilizzare le competizioni a cinque cerchi
come una vetrina politica per mettere in mostra il proprio Paese sia ancora molto presente un po’ a tutti i livelli.
In questo senso, nutro da tempo il sospetto che le federazioni di alcuni degli Stati più marginali del pianeta
spesso non si facciano molti scrupoli nell’utilizzare atlete molto sospette
per ottenere qualche medaglia a scopo propagandistico.
Non faccio nomi ma, al di là di alcuni esempi di sportive transgender conclamate
che hanno partecipato alla precedente edizione di Tokyo,
all’epoca feci una certa fatica a riconoscere nel cosiddetto sesso debole alcune prestigiose medagliate.
D’altro canto, basta leggere le nuove linee guida elaborate dal Cio (Comitato olimpico internazionale) nel 2021
per rendersi conto dell’ulteriore caos che si sarebbe creato nel sport femminile,
con il rischio assai fondato di discriminare proprio le donne vere e proprie:
“Chiunque – si legge – a prescindere dall’identità di genere, dal sesso e dalle sue possibili variazioni,
ha diritto a partecipare alle competizioni sportive”.
E ancora: “Solo nel caso di evidenze scientifiche che attestino la superiorità fisica
rispetto alla categoria di riferimento potranno essere applicate delle restrizioni alla partecipazione”.
Inoltre: “Nessun atleta, che sia uomo, donna o in condizione di transizione tra l’uno e l’altro sesso,
potrà essere sottoposto a test medici che verificano il genere di appartenenza”.
Entusiastico il commento della canadese Rebecca Catherine Quinn
(che da tempo vuole farsi chiamare solo col cognome),
la prima calciatrice transgender che ha partecipato a un campionato mondiale,
dopo aver vinto l’oro alle Olimpiadi di Tokyo:
“Le nuove linee guida riflettono qualcosa che sappiamo da tempo:
che gli atleti e le atlete come me partecipano alle competizioni sportive senza alcun vantaggio.
La nostra umanità merita di essere rispettata”.
Credo che la nostra boxer Angela Carini, che ha assaggiato le devastanti sberle, fisiche e morali,
di questa surreale forma di inclusione, non sia molto d’accordo.