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A grande richiesta istituiamo il premio letterario "Lincolionata dell'anno" per la Feics nius garantita e confermata da chi ne sa più di tutti su IO.

Per fine 2023 le votazioni....

Iniziamo

1)
Vedi l'allegato 697006
Lincolnionata n. 3
Dal satellite capiscono che sono morti per coviddi....

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Mettiamolo bello chiaro. Così non si fa fatica a cercarlo.
Piddioti rincollioniti, imparate qualcosa.



L’Italia, nonostante tutto, è ancora la seconda potenza manifatturiera d’Europa, dopo la Germania.


In Italia abbiamo il risparmio privato più alto del mondo insieme al Giappone (circa 5.000 miliardi di euro di cui 1.500 di liquidità).


Abbiamo milioni di italiani in giro per il mondo (più di 3 milioni espatriati solo negli ultimi 20 anni).
Prevalentemente giovani e laureati.
Costretti a espatriare alla ricerca di un lavoro e di salari dignitosi.
E che vanno a fare le fortune di Paesi stranieri con le loro capacità.


Per iniziare il necessario processo di reindustrializzazione e di piena occupazione non possiamo però contare sulla nostra Banca Centrale.

È necessario quindi uscire dall’Unione Europea e dall’Eurozona.


Come?


Per quanto riguarda l’uscita dalla UE, è prevista dai trattati.

Nell’articolo 50 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea (TFUE).


E per quanto riguarda l’uscita dall’euro?

In realtà pur non essendo espressamente prevista dai trattati una clausola di uscita dalla moneta unica,
esiste un strada prevista dai trattati che porterebbe sostanzialmente all’uscita dall’euro.

La sospensione (o segregazione) dal sistema Target 2 (che è quello che regola le transizioni bancarie tra i vari Paesi dell’Eurozona).


L’articolo 65 del TFUE¹ prevede che un Paese possa ricorrere al blocco della libera circolazione dei capitali. Sia in entrata che in uscita.

L'articolo 65 consente infatti

«di prendere tutte le misure necessarie per impedire le violazioni della legislazione e delle regolamentazioni nazionali,
in particolare nel settore fiscale e in quello della vigilanza prudenziale sulle istituzioni finanziarie,
o di stabilire procedure per la dichiarazione dei movimenti di capitali a scopo di informazione amministrativa o statistica,
o di adottare misure giustificate da motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza».


Si tratterebbe di una segregazione (dal sistema Target 2) volontaria.

In questo senso, l’articolo 65 è già stato utilizzato per Cipro e Grecia (ma in colpevole ritardo).


Potremmo, una volta tanto, usare i trattati europei a nostro vantaggio.


Utilizzare questa possibilità prevista dai trattati è il primo passo per il recupero della sovranità monetaria e fiscale.


Con un nuovo patto sociale.


L’enorme risparmio privato degli italiani in un regime di blocco della libera circolazione dei capitali
diventerebbe un’immensa risorsa per il finanziamento della spesa pubblica che gioverebbe in primis proprio ai cittadini.

I TdS tornerebbero a essere uno dei principali (il principale addirittura) bene rifugio per tutelare i propri risparmi.

Come succede in Giappone, tanto per fare un esempio pertinente.

Lo Stato di contro non sarebbe più nelle mani dei “mercati” e di una BCE che non è prestatrice di ultima istanza.


Ci sarebbero poi altri strumenti ovviamente utilizzabili nel periodo della segregazione
(come il ricorso alla cessione dei crediti fiscali, cioè alla moneta fiscale).


l’Italia deve ricostruire quell’industria pubblica artefice del miracolo italiano

che è stata svenduta per poter partecipare al progetto suicida dell’Unione Europea.


Se non si ricostruisce prima l’industria pubblica,
è ingenuo pensare di riuscire a fare rientrare le industrie private che hanno negli anni delocalizzato all’estero.


Vanno nazionalizzati i monopoli naturali o quelli a essi assimilabili

(trasporti, autostrade, settore energetico, ecc.)

ed i settori strategici.


Altri vanno creati ex novo, come i distretti portuali nel Sud Italia

e le industrie per le tecnologia d’avanguardia (robotica, nanotecnologia, informatica quantistica, ecc).


Cosa ci aspetta alla fine del tunnel della segregazione?

Nel contesto descritto una sola cosa: l’uscita dall’euro.


Sarà una passeggiata? Ovviamente no.



Soprattutto perché a oggi ci mancano due componenti fondamentali.

Una classe politica all’altezza del compito che ci aspetta.

E un popolo consapevole e disposto a fare tutto il necessario per rompere il vincolo esterno.


Cioè disposto a combattere per il proprio diritto all’autodeterminazione.


«Ogni popolo ha il diritto imprescrittibile e inalienabile all'autodeterminazione.

Esso decide il proprio statuto politico in piena libertà e senza alcuna ingerenza esterna».

«Ogni popolo ha il diritto di liberarsi da qualsiasi dominazione coloniale o straniera diretta o indiretta».

«Ogni popolo ha diritto a che il proprio lavoro sia valutato giustamente e che gli scambi internazionali avvengano a condizioni paritarie ed eque».

«Ogni popolo ha il diritto di darsi il sistema economico e sociale da lui stesso scelto

e di perseguire la propria via di sviluppo economico in piena libertà e senza ingerenze esterne».



Quello all’autodeterminazione di un popolo è un diritto fondamentale

riconosciuto internazionalmente a partire dal 4 luglio 1976

con la nascita della Dichiarazione universale dei diritti dei popoli,

nota anche come Carta di Algeri², che vide la luce grazie a uno dei nostri padri costituenti, Lelio Basso.


È lui, ancora una volta, a indicarci la strada da seguire per liberarci dei vincoli esterni

per riappropriarci del nostro diritto all’autodeterminazione.


Per riappropriarci cioè della sovranità popolare.
 
Altro capitolo.


Giorgia Meloni ha fatto bene a ridurre prima, ed eliminare poi,
lo sconto sulle accise gravanti sui carburanti per autotrazione voluto dal Governo Draghi.

La riduzione di circa 25 centesimi al litro delle accise su benzina e gasolio (circa 30 centesimi se si considera anche l’Iva)
ha un costo di circa un miliardo di euro al mese, in termini di mancato gettito.

In questo momento, col barile attorno agli 80 dollari, non ci troviamo in una situazione di emergenza,
come invece accade per energia elettrica e gas, sebbene ovviamente i prezzi alla pompa siano relativamente alti.

Inoltre, dal punto di vista distributivo, lo sconto è andato in gran parte a favore degli individui a reddito medio-alto.

Date le attuali condizioni del bilancio pubblico, è una spesa che non possiamo più permetterci.


Preveniamo due obiezioni.

La prima:
tecnicamente, la riduzione temporanea delle accise non costituisce una spesa, ma una minore entrata.

Ai fini dei saldi contabili, però, l’effetto è il medesimo.

Naturalmente, si potrebbe osservare che c’è un modo di preservare gli “sconti” senza compromettere le finanze pubbliche: tagliare le uscite.

Non c’è dubbio, e da sempre l’Istituto Bruno Leoni chiede una sostanziale revisione al ribasso della spesa.

Ma siamo onesti: il Governo non ha alcuna intenzione di farlo e forse, quanto meno nel breve termine, non ne ha neppure la possibilità.


Quindi l’unica scelta concreta è tra più tasse e più debito.


Tra i due mali, preferiamo il minore.



La seconda obiezione:
le accise italiane sono tra le più alte in Europa e superano ampiamente il livello
che sarebbe giustificabile per riflettere i costi esterni derivanti dall’uso dell’automobile.

In astratto, noi per primi riteniamo che una riduzione delle accise sarebbe desiderabile.

Tuttavia, se vi fossero delle risorse disponibili per effettuare tale operazione,
sarebbe ben più utile impiegarle per intervenire sulla grande anomalia italiana,
che non sono le accise, ma l’imposizione sul reddito.

In sintesi:

gli eventuali dodici miliardi da destinare alla riduzione delle accise

potrebbero essere assai meglio impiegati in un primo modulo di una riforma fiscale più ampia.


Semmai, ci sentiamo di muovere un’altra obiezione.

Oggi vi è una differenza di circa 11 centesimi al litro tra le accise sulla benzina e quelle sul gasolio.


Il Governo, dunque, dovrebbe fare un passo in più e stabilire accise comuni.

In un recente studio sull’inflazione abbiamo suggerito un livello intermedio di circa 0,65 euro/litro,
che implica una riduzione della tassazione sulla benzina e un leggero aumento sul gasolio
ma consente una sostanziale invarianza di gettito (si veda il lavoro dell’Ibl sulle politiche anti-inflazione).

Se volessero fare un gesto verso il proprio elettorato,
potrebbero spingersi oltre e spostare l’asticella al livello più basso,
quello oggi in vigore per il gasolio (circa 0,62 euro/litro).

Il costo per l’erario sarebbe significativo ma non enorme (circa un miliardo di euro di minore gettito).


In tal modo, si potrebbe chiudere una polemica che si trascina da anni

e Meloni potrebbe rivendicare di aver abolito un “sussidio ambientalmente dannoso”

che il Governo stesso quantifica in 2,6 miliardi di euro nel 2020.
 
Altro capitolo.


Giorgia Meloni ha fatto bene a ridurre prima, ed eliminare poi,
lo sconto sulle accise gravanti sui carburanti per autotrazione voluto dal Governo Draghi.

La riduzione di circa 25 centesimi al litro delle accise su benzina e gasolio (circa 30 centesimi se si considera anche l’Iva)
ha un costo di circa un miliardo di euro al mese, in termini di mancato gettito.

In questo momento, col barile attorno agli 80 dollari, non ci troviamo in una situazione di emergenza,
come invece accade per energia elettrica e gas, sebbene ovviamente i prezzi alla pompa siano relativamente alti.

Inoltre, dal punto di vista distributivo, lo sconto è andato in gran parte a favore degli individui a reddito medio-alto.

Date le attuali condizioni del bilancio pubblico, è una spesa che non possiamo più permetterci.


Preveniamo due obiezioni.

La prima:
tecnicamente, la riduzione temporanea delle accise non costituisce una spesa, ma una minore entrata.

Ai fini dei saldi contabili, però, l’effetto è il medesimo.

Naturalmente, si potrebbe osservare che c’è un modo di preservare gli “sconti” senza compromettere le finanze pubbliche: tagliare le uscite.

Non c’è dubbio, e da sempre l’Istituto Bruno Leoni chiede una sostanziale revisione al ribasso della spesa.

Ma siamo onesti: il Governo non ha alcuna intenzione di farlo e forse, quanto meno nel breve termine, non ne ha neppure la possibilità.


Quindi l’unica scelta concreta è tra più tasse e più debito.


Tra i due mali, preferiamo il minore.



La seconda obiezione:
le accise italiane sono tra le più alte in Europa e superano ampiamente il livello
che sarebbe giustificabile per riflettere i costi esterni derivanti dall’uso dell’automobile.

In astratto, noi per primi riteniamo che una riduzione delle accise sarebbe desiderabile.

Tuttavia, se vi fossero delle risorse disponibili per effettuare tale operazione,
sarebbe ben più utile impiegarle per intervenire sulla grande anomalia italiana,
che non sono le accise, ma l’imposizione sul reddito.

In sintesi:

gli eventuali dodici miliardi da destinare alla riduzione delle accise

potrebbero essere assai meglio impiegati in un primo modulo di una riforma fiscale più ampia.


Semmai, ci sentiamo di muovere un’altra obiezione.

Oggi vi è una differenza di circa 11 centesimi al litro tra le accise sulla benzina e quelle sul gasolio.


Il Governo, dunque, dovrebbe fare un passo in più e stabilire accise comuni.

In un recente studio sull’inflazione abbiamo suggerito un livello intermedio di circa 0,65 euro/litro,
che implica una riduzione della tassazione sulla benzina e un leggero aumento sul gasolio
ma consente una sostanziale invarianza di gettito (si veda il lavoro dell’Ibl sulle politiche anti-inflazione).

Se volessero fare un gesto verso il proprio elettorato,
potrebbero spingersi oltre e spostare l’asticella al livello più basso,
quello oggi in vigore per il gasolio (circa 0,62 euro/litro).

Il costo per l’erario sarebbe significativo ma non enorme (circa un miliardo di euro di minore gettito).


In tal modo, si potrebbe chiudere una polemica che si trascina da anni

e Meloni potrebbe rivendicare di aver abolito un “sussidio ambientalmente dannoso”

che il Governo stesso quantifica in 2,6 miliardi di euro nel 2020.

tutto corretto, ma anche il taglio su luce e gas privilegia soprattutto chi ha redditi alti ( che probabilmente vive in ville da 400/500 mq ) e/o aziende che al momento stan riversando gli aumenti sul consumatore finale...
altra nota stonata mi vien difficile pensare che il costo sia di un miliardo di euro, ma partendo da che livello??
perchè tra valori al litro intorno a 1,40/1,50 e valori di 1,80/1,90 ballano 40 centesimi di cui 7 di iva quindi la mia domanda sarebbe un po' differente e vorrei chiedere, ma tra vendere benzina a 1,40 e venderla a 1,80 quanto ci ha guadagnato lo stato in questo ultimo anno in termini di maggior gettiti??

Poi se vogliamo farla equa e come più volte detto i bonus ( mance elettorali ) detrazioni e via dicendo sarebbero tutti da togliere... quanto costano annualmente?? 10/20/40 miliardi???
Bene tagliamo di netto il cuneo fiscale su buste paga e pensioni ( in modo che uno stipendio anzichè essere di 800 sia di 1000 euro tipo e uno da 1700 magari diventi 2000 sistemando il tutto sulle aliquote ) e se uno ha i soldi spende su questo o quel prodotto "non più soggetto a benefici fiscali e quindi pompato di valore " altrimenti ne fa a meno.
 
BUFERA SU BIDEN

Documenti top secret dell'intelligence relativi a Ucraina, Regno Unito e Iran sono stati trovati al "Penn Biden Center", l'ufficio privato di Joe Biden, risalenti al periodo di quando era il vice di B. Obama.
E secondo il procuratore degli Stati Uniti, anche l'FBI sarebbe coinvolta nell'inchiesta.
Fonte

Biden, però, nega ogni coinvolgimento e si è detto sorpreso di apprendere che c'erano materiali riservati nel suo ufficio privato.
Fonte

Non sappiamo se questi documenti si trovino lì per volontà di Biden oppure messi da qualche manina. Quel che sembra chiaro è che qualcosa di molto grande sta accadendo nello stato profondo di Washinton.
 
Nell'intervista a D. Trump in merito ai documenti top secret trovati nell'ufficio privato di Biden, fa notare che mentre lui era protetto dal Presidential Records Act perché era il presidente, questo non è applicabile a Biden che allora era vice presidente per cui costituisce un vero e proprio crimine secondo la Legge sui registri federali.
Non solo, ma D. Trump rincara la dose evidenziando che la Cina deve avere pagato profumatamente per quei documenti, aggiungendo che probabilmente ci sono molti altri documenti nelle varie strutture di Biden.

Insomma, detta in parole semplici: Biden sarebbe una spia cinese, e chissà quanti ce ne sono tra il deep state di Washinton. L'asticella del conflitto si alza ulteriormente sfociando nel controspionaggio.

Davvero il 2023, sarà un anno di rivelazioni
 

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